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Il caso Sharipov e le carenti tutele al diritto d’asilo

Anvar Sharipov, un cittadino russo proveniente dal Daghestan, ha da poco ottenuto lo status di rifugiato. La sua dovrebbe essere una storia scontata, ma purtroppo non lo è affatto. Al contrario, la vicenda di Sharipov evidenzia importanti carenze nella tutela del diritto d’asilo in Italia

06/07/2011, Giorgio Comai -

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Qualche mese fa, sul sito di Osservatorio, è stato pubblicato un articolo che raccontava la vicenda di Anvar Sharipov, cittadino russo proveniente dal Daghestan che aveva fatto richiesta di asilo politico in Italia. Anvar aveva abbandonato la Russia non appena era emersa la notizia che sua sorella Marjam Sharipova era una delle donne che si era fatta esplodere nella metropolitana di Mosca, il 29 marzo 2010. In seguito a lunghe traversie ha poi raggiunto l’Italia nel gennaio 2011.

Le tappe

Sharipov in realtà stava cercando di arrivare in Francia, Paese dove aveva una rete di conoscenti che lo poteva aiutare a rifarsi una vita e dove le autorità locali sono meno restie ad attribuire lo status di rifugiato. Il 6 gennaio 2011 però, Anvar Sharipov è stato fermato poco dopo la partenza da Venezia del treno notturno diretto per Parigi. Lo stesso fermo, secondo il resoconto di Sharipov, sarebbe avvenuto con molte anomalie, a partire dal fatto che le forze dell’ordine italiane lo avrebbero cercato su quel treno sapendo il suo nome e cognome e con una sua fotografia in mano, senza che vi fosse alcun mandato di cattura internazionale a suo carico.

Nonostante Sharipov avesse manifestato subito la volontà di chiedere protezione internazionale, veniva prima espulso dall’Italia con provvedimento del prefetto di Venezia e subito dopo veniva ammesso alla procedura di asilo con trattenimento tuttavia dentro il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo ovvero in una condizione di grave difficoltà a ricevere come richiedente asilo una dovuta assistenza legale, a procurarsi documentazione a sostegno della sua domanda e a farsi assistere da organizzazioni di tutela dei rifugiati (che non hanno accesso al CIE di Gradisca).

Anche questa situazione è apparsa difforme rispetto a quanto stabilito dalla normativa vigente. E’ in questo contesto che, il 27 gennaio scorso, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Gorizia ascoltava Sharipov, rigettando la domanda di asilo. Le motivazioni addotte però non hanno fatto che suscitare ulteriori perplessità. La Commissione infatti, pur ritenendo nel complesso verosimile la versione degli eventi descritta da Sharipov, aveva definito implausibile il fatto che lo stesso fosse stato oggetto di tortura in passato, aveva sostenuto che le violazioni dei diritti umani in Russia avvengono in modo sistematico solo in Caucaso del nord (come se Sharipov non fosse originario proprio di quella regione), ed infine aveva aggiunto “che il sistema carcerario russo, pur essendo stato definito da alcuni un sistema ‘inumano’, da tempo è oggetto di interventi di riforma come dichiarato dal presidente Medvedev” (come se una dichiarazione d’intenti potesse essere garanzia sufficiente).

Queste ed altre anomalie nel fermo, nel trattenimento e nelle motivazioni della Commissione territoriale, avevano spinto l’ICS-Ufficio Rifugiati di Trieste a ipotizzare che vi fossero state delle pressioni da parte russa affinché le autorità italiane sbrigassero il caso in tempi brevi, ma con una procedura ordinaria, senza suscitare troppo clamore.

L’ICS ha quindi seguito passo passo la situazione di Sharipov sostenendo con l’avvocato triestino Gianfranco Carbone il ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale e ha elaborato i materiali rilevanti per il caso. In questa fase, una parte importante nel raccogliere materiali pertinenti l’ha avuta anche lo stesso Osservatorio Balcani e Caucaso.

L’appello

Il 2 maggio il tribunale di Trieste ha reso pubblica la propria sentenza con cui accettava il ricorso di Sharipov e gli conferiva lo status di rifugiato. Trascorsi i tempi previsti per un eventuale appello da parte del ministero dell’Interno, è ora diventata definitiva la sentenza con cui a Sharipov viene concesso lo status di rifugiato, “dichiarata l’illegittimità del provvedimento di diniego per carente e contraddittoria motivazione nonché per travisamento dei fatti e omessa coerente valutazione degli stessi e per violazione di legge.”

La decisione del giudice non è però importante solo per quanto riguarda il caso specifico di Anvar Sharipov, ma si esprime molto esplicitamente anche sul ruolo delle autorità in Russia e in Caucaso del nord. “Si ritiene che attualmente in Russia, anche a Mosca e nelle altre grandi città, vi siano corpi dell’FSB (servizi segreti), o di polizia che perseguono in maniera illegale le persone provenienti dalle regioni del Caucaso del nord che hanno solo un legame di parentela o amicizia con persone appartenenti a qualche organizzazione indipendentista,” si legge nella sentenza. “Gli atti persecutori a cui queste persone sono sottoposte sono lesivi dei valori primari dell’individuo […] e possono arrivare fino a annullare il diritto alla vita, ovvero alla prolungata e ingiustificata privazione della libertà personale, ovvero ancora all’assoggettamento a atti di violenza fisica.”

Si tratta quindi di una sentenza che inequivocabilmente descrive la Russia come un Paese dove le libertà fondamentali non sono rispettate, soprattutto per quanto riguarda persone provenienti dal Caucaso del nord. Questo caso potrebbe quindi essere un precedente importante anche per altre persone provenienti dalla regione che si troveranno a chiedere asilo politico in Italia.

Una storia italiana

Il diritto d’asilo è incluso tra i “principi fondamentali” della Costituzione della repubblica italiana (art.10, comma 3). La vicenda di Anvar Sharipov si è conclusa con l’ottenimento dello status di rifugiato, ma dimostra quanto siano carenti le garanzie per questo “principio fondamentale”, a partire dalla mancanza di una legge organica in materia di protezione internazionale e diritto d’asilo in Italia. Ne è un esempio la poca chiarezza della normativa in relazione al divieto di procedere ad una espulsione prima che venga esaminato in via giudiziaria il ricorso del richiedente asilo. Per evitare che Sharipov fosse rispedito in Russia prima che un giudice potesse esprimersi sul suo caso, l’avvocato difensore ha deciso di adire con un ricorso d’urgenza alla Corte per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo che ha prontamente risposto vietando l’espatrio del ricorrente. Il fatto stesso che la corte di Strasburgo abbia risposto implica che la legislazione italiana non è ritenuta sufficiente a tutelare il richiedente asilo.

Quanto accaduto nel caso Sharipov mette in luce anche altre carenze nella normativa italiana sull’asilo, prima tra tutte la questione della effettiva indipendenza delle commissioni incaricate di esaminare le domanda rispetto a interferenze di carattere politico o diplomatico.

Il diritto d’asilo è un diritto soggettivo fondamentale della persona, riconosciuto da convenzioni internazionali e dalla nostra stessa Costituzione. Non una concessione generosamente concessa da un Paese benestante a persone provenienti da terre sfortunate.

Questo articolo racconta la storia di un uomo che aveva un diritto e se lo è visto riconosciuto dalle istituzioni. Dovrebbe essere una storia scontata, ma purtroppo non lo è affatto. Tutto fa pensare che questo sia stato possibile solo grazie all’aiuto che, per una serie di coincidenze, quell’uomo ha ottenuto da persone e organizzazioni competenti che si sono dedicate al suo caso, gli hanno permesso di avere un’assistenza legale adeguata e sono riuscite a portare davanti a un giudice attento materiali sufficienti a comprovare la situazione di rischio che lo attendeva nel suo Paese d’origine.

Spesso le cose vanno però diversamente.

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