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Il “governatore” della Bosnia non esiste più

Il PIC non ha dato il via libera all’Alto rappresentante per l’uso dei suoi poteri per bloccare un contestato referendum promosso dalla Republika Srpska. Un commento

02/09/2016, Srećko Latal -

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(Pubblicato originariamente da Balkan Insight il 31 agosto 2016)

Il Peace Implementation Council, PIC – istituzione ad hoc composta da alcuni paesi della comunità internazionale e da rappresentanti di organizzazioni internazionali pensato per monitorare le attività dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), istituito in Bosnia Erzegovina per garantire l’implementazione degli Accordi di Pace di Dayton del 1995 – riunitosi martedì scorso non ha dato il via libera all’utilizzo da parte dell’OHR dei propri poteri esecutivi.

Come risultato si è lasciato l’accordo di pace in Bosnia senza uno dei principali meccanismi per garantirne l’implementazione, complicando notevolmente la situazione sul terreno.

La percezione che “l’imperatore occidentale”, in passato l’onnipotente OHR, sia più o meno rimasto senza poteri potrebbe ora incoraggiare i politici locali a spingere ulteriormente sulle loro agende nazionaliste, in un momento in cui tutti i leader dei principali gruppi etnici in Bosnia si stanno dedicando a dimostrazioni di forza e minacce reciproche.

Preoccupati da gravi crisi interne ed esterne gli Stati uniti e anche l’Unione europea hanno ignorato i segnali allarmanti che arrivano da anni dalla Bosnia. Il loro crescente distacco dal paese è stato sfruttato dai leader locali per spingere sulle proprie agende personali e di partito, di fatto minando il trattato di pace in Bosnia.

Milorad Dodik, a capo dell’entità quasi esclusivamente abitata da serbi, la Republika Srpska (RS), ed a capo dell’Alleanza dei Socialdemocratici indipendenti (SNSD) si è dimostrato essere il più forte e deciso oppositore dei poteri esecutivi della comunità internazionale in Bosnia.

Dopo aver sfidato per anni l’OHR, Dodik quest’anno ha lanciato una nuova iniziativa, un referendum da tenersi in tutta la RS a sostegno della Giornata nazionale dell’RS, festività indetta per il 9 gennaio di ogni anno e definita incostituzionale dalla Corte costituzionale bosniaca.

Nonostante la sentenza della Corte costituzionale e una dichiarazione ufficiale dell’OHR che sottolineava che il referendum violava gli accordi di pace, quest’ultimo è stato sostenuto da tutti i partiti etnici serbi e confermato dalle istituzioni della RS. E’ ora in programma per il prossimo 25 settembre, una settimana prima delle elezioni amministrative bosniache.

La comunità internazionale si divide

L’OHR ha posticipato la riunione del PIC di qualche settimana, per dar tempo ai diplomatici internazionali di rientrare dalle loro vacanze e raccogliere il sostegno internazionale per una decisione ferma contro il referendum. Ma, come del resto ci si aspettava, il tentativo è fallito.

La riunione di martedì del PIC non solo ha dimostrato la contrarietà della Russia anche solo a menzionare i poteri esecutivi, ma che anche l’Occidente, sulla questione, è diviso.

Mentre alcuni paesi occidentali si sono schierati per l’utilizzo dei poteri dell’OHR contro il referendum, la maggior parte si è opposta. Alcuni perché li ritengono ormai in contraddizione con il percorso verso l’Ue della Bosnia, altri perché preoccupati del fatto che senza una maggiore presenza NATO in Bosnia le decisioni dell’OHR rischiano di non essere poi implementate.

Alcune ore di dibattito e poi i membri del PIC sono riusciti solo ad emettere un tiepido comunicato nel quale si invita le autorità dell’RS a non tenere il referendum. Ma persino questo era troppo per la Russia il cui ambasciatore, Petr Ivancov, si è rifiutato di sottoscrivere il comunicato dicendo che il testo aveva toni troppo “minacciosi".

Si spera nei meccanismi locali

A favorire la riluttanza occidentale ad utilizzare i propri poteri esecutivi in Bosnia è stata probabilmente la speranza che la situazione possa essere risolta attraverso meccanismi locali o pressioni regionali.

La Corte costituzionale bosniaca si riunirà per discutere nuovamente la questione il prossimo 17 settembre. In discussione sia l’appello da parte della RS che richiede di annullare la sentenza precedente in merito alla Giornata nazionale della RS, sia la richiesta da parte bosgnacca di definire non costituzionale il referendum stesso.

In molti però dubitano che la Corte costituzionale sia in grado di dirimere la questione. E’ un’istituzione composta da nove giudici – ciascuna delle tre comunità maggioritarie nel paese ne elegge due e tre invece vengono nominati dalla comunità internazionale – e quindi ci si aspetta che la nuova sentenza sul referendum non sarà unanime e che verrà ignorata da Dodik, come ha già fatto in passato.

Altri sperano nel premier della Serbia Aleksandar Vučić, che ha già bloccato per ben due volte Dodik dal compiere referendum simili negandogli il proprio sostegno. Dopo la riunione del PIC di martedì scorso il Presidente della Serbia Tomislav Nikolić ha presieduto un incontro urgente con lo stesso Vučić e il ministro degli Esteri Ivica Dačić. Dopo l’incontro Dačić si è limitato ad affermare che la Serbia farà tutto il possibile “per proteggere i propri interessi nazionali” per assicurare “la propria sicurezza e – auspicabilmente – quella della regione”. Non sono state aggiunte parole da parte di nessuno per chiarire questa posizione ma si è specificato che i vertici della Serbia incontreranno quelli della RS giovedì (ieri, ndr) a Belgrado per discutere della situazione.

L’annuncio dell’incontro ha in parte stupito perché nei mesi scorsi il primo ministro Vučić ha chiarito più volte che non intendeva interferire con la questione del referendum se quest’ultimo non minava l’autorità o della Bosnia o delle istituzioni internazionali.

Lo scorso 9 gennaio, Vučić e altri membri del governo, hanno fatto visita al centro amministrativo della RS, Banja Luka, per dimostrare il proprio sostegno alla celebrazione della Giornata nazionale della RS.

Alcune fonti vicini alla leadership della Serbia e della RS hanno affermato che Vučić e Dodik potrebbero sospendere il referendum in cambio di non specificate concessioni da parte di Usa e Ue. Si ritiene che l’apertura dei capitoli negoziali 23 e 24 con la Serbia da parte dell’Ue sia avvenuta anche grazie all’influenza esercitata da Vučić sulla vicina RS. Altre fonti invece affermano che un’altra sospensione del referendum potrebbe nuocere gravemente a Dodik che si trova nel pieno della campagna elettorale ed è per questo motivo che probabilmente il referendum si terrà accada quel che accada.

Quando il gatto non c’è i topi ballano

Mentre l’Occidente sta a vedere se la Corte costituzionale o la Serbia toglieranno le castagne dal fuoco, esperti locali ed internazionali stanno provando ad immaginare cosa potrebbe accadere nel caso il referendum effettivamente si tenesse.

Alcuni dicono che il referendum non avrà alcuna implicazione legale dato che – essendosi tenuto nonostante la decisione della Corte costituzionale e la presa di posizione dell’OHR – sarà legalmente nullo. Altri però affermano che potrebbe rappresentare un precedente legale per altri atti volti a minare lo stato e le istituzioni del paese.

Il membro bosgnacco della Presidenza tripartita, Bakir Izetbegović, ha già definito il referendum un “volo di prova” ammonendo che, nell’assenza di una ferma reazione internazionale, potrebbe portare ad un nuovo referendum, questa volta però di secessione dalla Bosnia Erzegovina. Izetbegović ha anche sottolineato che il referendum manderebbe un segnale chiaro ai bosgnacchi che i meccanismi di sicurezza istituiti con gli Accordi di Dayton sono stati definitivamente abbandonati e che quindi spetterebbe a loro garantire l’integrità territoriale e costituzionale del paese.

Il fatto che la leadeship bosgnacca, come altri settori amministrativi, altre organizzazioni, istituzioni ed a volte anche singoli individui, abbiano a loro volta ignorato sentenze della Corte costituzionale – 76 delle quali rimangono non implementate – se lo dimentica la maggior parte dei bosgnacchi.

Alcuni affermano già di essere pronti a riprendere in mano le armi per difendere il proprio paese.

Una delle associazioni dei veterani bosgnacche, i “Berretti verdi”, ha già annunciato piani per organizzare un’esercitazione militare nel prossimo futuro ed ha invitato l’Esercito bosniaco a rifornirli di armi e munizioni. L’esercitazione ufficialmente servirebbe per aggiornare i veterani sulle nuove armi in dotazione.

In molti vedono però la richiesta come reazione all’esercitazione congiunta tra veterani serbi e forze di polizia speciali della Serbia avvenuto lo scorso fine settimana non lontano dal confine tra Serbia e Bosnia e come un messaggio a Dodik sulla sua recente minaccia che la RS potrebbe separarsi dalla Bosnia Erzegovina nel 2018.

Questi annunci e minacce, aumentati nelle scorse settimane e alimentati dalla campagna elettorale e dalla questione del referendum, ricordano l’atmosfera dei primi anni ’90 quando i leader bosniaci affilavano le spade prima dello scoppio della guerra. E molti cittadini esprimono il timore che il paese potrebbe finire in quella deriva, ora che il meccanismo di garanzia internazionale sembra indebolito.

L’Occidente in ritirata

A prescindere da quanto sia potenzialmente pericolosa la situazione in Bosnia, non vi sono certo vie d’uscita indolori. Anche l’eventuale uso dei poteri internazionali per rispondere a quanto richiesto dalle autorità bosgnacche non avrebbe migliorato la situazione.

Qualsiasi cosa la comunità internazionale faccia – o non faccia – è probabile peggiori la situazione. Se continuasse ad ignorare gli ultimi pericolosi sviluppi, rischia di favorire un’ulteriore radicalizzazione. Allo stesso tempo azioni imprudenti da parte occidentale, rischiano di aprire un Vaso di Pandora e destabilizzare l’intera regione.

Del resto il contesto geopolitico è mutato drasticamente dagli anni ’90, quando gli Stati uniti occupavano l’intera scena globale. Oggi sia gli Usa che l’Ue sembrano molto indeboliti. Guadagnano influenza invece Russia e Turchia e qualsiasi atto non ragionato da parte occidentale potrebbe causare le reazioni di Mosca e Ankara e questo non farebbe che alimentare le tensioni locali.

Un’altra ragione sono che gli interventi dell’OHR nel passato non sono stati spesso ben concepiti e sono risultati inconsistenti e sperimentali, incapaci di smussare le tensioni locali e addirittura responsabili per nuova instabilità.

Gli errori del passato sono emersi ad esempio martedì quando i media hanno dato la notizia che una corte della Columbia, Stati uniti, ha accettato di aprire un procedimento legale su richiesta di Zoran Zuza, giornalista bosniaco, contro l’OHR da cui Zuza venne licenziato nel 2004. In questo modo la corte ha sancito che l’OHR non può operare al di fuori di alcun quadro giuridico di riferimento e questo potrebbe rappresentare un precedente per future azioni legali contro quest’istituzione.

Ci si potrebbe allora chiedere, chi può salvare oggi la Bosnia, e come?

Una soluzione permanente per questo paese diviso e indebolito necessita degli sforzi degli attori locali e internazionali nel raggiungere compromessi su molte questioni complesse. Ma questa disponibilità sembra non esservi e le possibilità per una via d’uscita indolore sembrano sempre più ridotte.

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