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Il ‘no’ irlandese e i Balcani occidentali

Come valutano la Serbia, potenziale candidato all’UE, e gli altri paesi dei Balcani occidentali il fallimento del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona? Cosa cambierà nelle politiche di allargamento dell’UE? Come ne hanno parlato i media belgradesi?

19/06/2008, Aleksandra Mijalković - Belgrado

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Dal punto di vista della Serbia e degli altri paesi dei Balcani occidentali, l’esito negativo del referendum irlandese sul Trattato di riforma dell’UE è una gran brutta notizia, perché potrebbe significare un ulteriore rinvio del loro ingresso nell’Unione, dal momento che con questo documento si dovrebbero, tra l’altro, eliminare gli ostacoli istituzionali per il proseguimento dell’allargamento dell’UE.

Con il Trattato di Nizza era stato previsto il funzionamento di una comunità di non più di 27 stati, quanti sono i membri attuali, e per far sì che l’UE possa senza problemi prendere decisioni e agire con ulteriori sette membri (in prospettiva gli attuali candidati, Croazia, Macedonia e Turchia, e i potenziali candidati Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Albania) sono necessari ulteriori adeguamenti.

Il professor Jovan Teokarević, direttore del Centro belgradese per l’integrazione europea e docente presso la Facoltà di scienze politiche di Belgrado, ritiene che "con una certa dose di buona volontà politica rispetto all’ulteriore allargamento" l’Unione potrebbe funzionare senza molti problemi, anche in assenza del nuovo Trattato di Lisbona.

"L’attuale contesto istituzionale è stato più una scusa che un vero ostacolo al proseguimento dell’allargamento, ma è vero che sarebbe stato meglio sistemare prima gli affari di casa e solo in seguito allargare la famiglia, come si è più volte ripetuto. Ad ogni modo, con il rifiuto della bozza di Costituzione dell’UE (che, ricordiamo, non aveva passato l’esame dei referendum francese e olandese, tre anni fa) e con l’orientamento verso il Trattato di Lisbona, nell’Unione si era creato lo spazio potenziale per noi e per gli altri candidati. Con l’adozione di questo Trattato, inoltre, l’UE potrebbe finalmente smettere di occuparsi solo di se stessa, e iniziare a risolvere i problemi pratici con cui i suoi cittadini e i suoi stati devono fare i conti", sottolinea Teokarević.

Secondo il professore, il Trattato di Lisbona, per gli aspiranti alla membership nell’Unione, significherebbe la conferma che ci sarà per loro un posto nell’UE, mentre per la Croazia, il cui ingresso potrebbe avvenire già nel 2010 o 2011, confermerebbe l’eliminazione di ogni incertezza circa la possibilità che "motivi formali" la facciano ritardare di qualche tempo, e che debba entrare nell’UE un po’ più tardi, insieme con gli altri paesi dei Balcani occidentali.

L’Unione, ovviamente, potrebbe risolvere il caso Croazia e prendere così una decisione che riguardi solo questo paese, ossia che nell’accordo di adesione con la Croazia inserisca la nuova regola di decisione basata sulla maggioranza dei due terzi del Consiglio europeo.

"Il Trattato non è ancora morto"

Il presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Pöttering, subito dopo l’esito del referendum irlandese, ha comunicato che, secondo lui, l’ulteriore processo di allargamento dell’Unione diventa impossibile, con l’eventuale eccezione della Croazia. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il commissario per l’allargamento dell’UE Olli Rehn, così come il ministro degli Esteri della Slovenia – paese che fino alla fine di giugno presiede l’UE – Dimitriji Rupel, ritengono, invece, che il "no" irlandese al Trattato di Lisbona non influirà sull’unanimità già raggiunta riguardo il processo di allargamento dell’UE, e convincono i cittadini dei paesi ai quali è stato promesso il "futuro europeo", che la loro adesione all’UE non sarà messa in discussione (anche se riconoscono la possibilità che venga leggermente ritardata) dall’esito del voto irlandese.

L’Austria e la Slovacchia, durante la seduta dei capi della diplomazia a Lussemburgo, hanno già richiesto che ciò venga confermato anche ufficialmente, e una simile posizione è stata presa anche dai premier della Repubblica Ceca e della Polonia. Il premier ceco Mirek Topolanek ha detto che la Croazia "non dovrebbe essere una vittima di questo processo", mentre il premier slovacco Robert Fico ha valutato che sarebbe "proprio una pessima cosa per l’intera l’UE rimpiangere il Trattato di Lisbona e che le complicazioni nel processo di ratifica non devono influire sull’allargamento dell’UE".

Il Trattato di Lisbona fino ad ora è stato ratificato dai parlamenti nazionali di 18 paesi (l’Irlanda è l’unico paese ad aver sottoposto a referendum questo documento) e molti politici, analisti e media, credono che l’accoglienza del Trattato da parte di 26 paesi potrebbe condurre l’Irlanda a ripetere il referendum.

"Dopo Lisbona si è ridotto il numero delle incertezze riguardo il futuro dell’Unione europea, ma, ovviamente, è impossibile prevedere con precisione che strada prenderà questa organizzazione, e non solo come sarà fra cinquanta o venti anni, ma fra dieci, quando anche noi dovremmo finalmente entrare. Per i candidati e i potenziali candidati è di fondamentale importanza sapere se alla fine di un lungo percorso entreranno a far parte dell’ambiente che si aspettavano, oppure in uno diverso. Di uguale importanza, riguardo a ciò, è sapere se le condizioni per l’accesso sono un cosiddetto ‘bersaglio mobile’ oppure un coacervo di criteri più o meno stabili e verificabili. Noi, purtroppo, conosciamo molto bene il fenomeno del ‘bersaglio mobile’, non solo perché non sono ancora stati rispettati i vari criteri politici che abbiamo rispetto agli stati dell’Europa centrale, ma sin dal tempo delle sanzioni, quando l’adempimento delle condizioni spesso portava all’insorgenza di altre", afferma il professor Teokarević.

Pertanto, l’ulteriore allargamento dell’UE è sì possibile, ma i criteri di Copenaghen, su insistenza olandese, sono diventati parte del Trattato di riforme, col quale si sottolinea ulteriormente l’importanza della loro applicazione da parte degli applicanti.

L’eccezione croata

"Se a questo aggiungiamo ciò che accaduto nel corso degli ultimi due anni di ‘stanchezza da allargamento’ della fatale primavera 2005, allora possiamo concludere che oggi la porta per i nuovi membri non è chiusa del tutto, e nemmeno che la chiave è stata gettata via, ma è altrettanto vero che quella porta non si aprirà tanto facilmente. Prima di prendere altre grandi decisioni, Bruxelles non mancherà di considerare anche il dibattito e le proprie conclusioni sulla cosiddetta capacità di assorbimento, in seguito definita ‘capacità di integrazione’. La Commissione in futuro stimerà le ripercussioni su tutte le tappe cruciali del processo di adesione. Prima di preparare queste stime saranno prese in considerazione le caratteristiche specifiche di ogni paese. Detto in parole povere, entreremo non solo quando saremo pronti per loro, ma anche quando loro saranno pronti per noi", spiega il prof. Teokarević.

L’esito negativo del referendum ha attualizzato la questione che si era posta dopo il referendum francese e olandese di tre anni fa, e cioè sapere se prima di tutto gli elettori sono insoddisfatti della stessa Unione, oppure delle riforme proposte, o ancora se c’è la possibilità che l’UE a breve sia ancora più popolosa e ingombrante e pesante "per la sua amministrazione". Tra la maggior parte dei vecchi membri continua a calare l’entusiasmo di un ulteriore allargamento dell’Unione, con scarse possibilità che migliori negli anni a venire.

"Pensando ai nuovi membri si crea una netta differenza tra la Croazia, il cui ingresso eccetto la data è indiscusso, e noi altri dei Balcani occidentali e la Turchia. Nell’ambito di quest’altro cosiddetto ‘gruppo ottomano’, la Serbia dovrà continuamente dimostrare che, dopo essersi finalmente lasciata alle spalle i grandi problemi, è più adatta all’ingresso della Turchia, ed anche del resto dei nostri vicini. Per questo, e per via dell’atteso sprint verso l’avvicinamento della Serbia all’Unione nei prossimi anni, per noi è migliore una politica da regata che quella da carovana, cioè un ingresso sulla base dei risultati raggiunti da ogni singolo paese, e non sulla base dell’appartenenza ad un determinato gruppo di paesi che dovrebbero insieme andare verso quella meta. Qualunque sia il futuro della Serbia o dell’Unione, l’UE di sicuro non potrà permettersi un’altra Cipro, e non ci accetterà finché i rapporti tra Belgrado e Pristina non saranno risolti", ritiene il professor Teokarević.

"Politika": Ahtisaari per gli irlandesi

Sui media serbi, i commenti al referendum irlandese sono stati molto vari, da quelli in cui all’opinione pubblica locale si dice che il Trattato di Lisbona "non è ancora morto", e che – a prescindere da quale sarà il suo destino finale – ciò non impedirà il nostro ingresso nell’UE, fino a quelli maliziosi che hanno sottolineato la profonda crisi all’interno dell’Unione, la sua incapacità di occuparsi dei problemi interni e quindi figurarsi di quelli altrui (con chiaro riferimento al Kosovo). Il belgradese "Politika", con il titolo "Un altro chiodo sulla bara del Trattato di Lisbona", ha sfruttato l’occasione per dimostrare "la mancanza di democrazia" nell’Unione, di cui è testimone, oltre al resto, anche la decisione dell’UE che sul trattato delle riforme (eccetto l’Irlanda) "non venga chiesto nulla ai cittadini". Il fallimento del referendum irlandese è interpretato dall’autore del testo anche come conseguenza del comportamento dei leader europei, e fra di essi in particolare la presidenza slovena dell’UE, che "hanno messo completamente da parte" questo referendum, per potersi concentrare sulla "ricerca del modo in cui il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon potesse dare legittimità alla missione europea in Kosovo, così come sulla formazione di governi filo europei nei Balcani occidentali".

In un altro testo dello stesso autore viene avanzato un parallelo tra il "no" irlandese al Trattato di Lisbona e i negoziati sul Kosovo. "L’UE, anche per quanto riguarda il Kosovo, ha seguito la stessa procedura antidemocratica. Prima ha tollerato i negoziati tra Pristina e Belgrado, e ha chiesto ad entrambe le parti in causa di esprimersi sulla bozza di soluzione del problema. Quando la risposta di Belgrado non è piaciuta a Bruxelles, l’UE ha proseguito con l’implementazione del piano Ahtisaari, nonostante la Serbia lo avesse rifiutato. Lo stesso accade per quanto riguarda la creazione della Costituzione europea. L’Unione adesso non fa che pensare ad una sorta di ‘piano Ahtisaari’ per l’antipatica Irlanda. Oppure rinuncia alla politica dei diktat e torna alla politica del compromesso".

Il "caso Irlanda", anche sugli altri media serbi, è stato motivo per esaminare la natura "(non)democratica", burocratizzata e "inumana" dell’UE, addirittura con una frequenza superiore che l’analisi del destino della continuazione del processo di integrazione della Serbia. Certamente, siamo ancora lontani da un eventuale membership nell’Unione, ma alcune decisioni politiche ed economiche che essa prende possono già ora influire sulla nostra vita.

Il quotidiano "Danas" si chiede cosa ha fatto sì che i cittadini dell’Irlanda, paese che un tempo era definito come uno degli "stati più europei dell’Europa", dicessero "no" al Trattato, e scrive che ciò potrebbe essere dovuto alla paura evocata dalle forze di ultradestra di "far affondare l’Irlanda in un superstato europeo", mentre i contadini sono scettici rispetto all’accordo commerciale globale sull’agricoltura, i tradizionalisti ritengono che nuove disposizioni di legge introdurrebbero di soppiatto l’aborto su questa isola conservatrice.

"Press" si è occupato più di altri delle conseguenze del referendum, e una di queste potrebbe essere l’uscita dell’Irlanda dall’UE.

Questo non è stato scritto o detto da nessuna parte, ma nei corridoi "antieuropei" di Belgrado questa immagine si usa alla grande come argomento per rinforzare certe opinioni: se nemmeno quelli che sono già "dentro" non vanno bene all’Unione europea, cosa ci facciamo noi là?

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