Idomeni, il viaggio a ritroso di Mohammed
Otto anni fa Mohammed aveva piantato una tenda a Idomeni, uno dei tanti profughi siriani in viaggio sulla rotta balcanica. Oggi è un cittadino belga, con tanto di passaporto UE. Nei giorni scorsi è tornato dove questa storia ebbe inizio, a Idomeni un luogo che per lungo tempo ha occupato le cronache europee
I campi di grano sono tornati ad essere quello che sono da sempre: campi. L’inverno più mite del solito ha fatto spuntare un’erba verde che di solito arriva più tardi. Nel febbraio di otto anni fa di erba qui se ne vedeva ben poca: i campi di Idomeni erano stati presi d’assalto da migliaia di rifugiati che volevano passare la frontiera macedone, in viaggio lungo quella che sarebbe stata poi chiamata la rotta balcanica. Non potendo valicare la rete, e soprattutto il cancello della ferrovia Salonicco-Skopje, che passa proprio qui, avevano deciso di accamparsi. In breve fra tende, bagni da campo, organizzazioni umanitarie, camionette della polizia, furgoni delle televisioni e gente del posto che vendeva tutto il vendibile, di spazio coltivabile ne era rimasto poco. Le piogge avevano fatto il resto. Il fango era dappertutto e i contadini erano furenti.
Quasi nessuna traccia è rimasta, otto anni dopo. L’immondizia è quella abituale di molte ferrovie. Su un cartello però c’è una scritta scolorita, in arabo, fatta con la vernice spray: “Aleppo è distrutta”. Dietro ci sono quei binari sopra cui ad un certo punto alcuni profughi si accamparono perché “se non ci lasciano entrare, bloccheremo la loro economia”.
Erano in maggioranza curdi, poi siriani, afghani, pakistani e molto altro ancora. Avevano lasciato la Turchia con il miraggio della Germania e del Nord Europa. Gridavano “Merkel, Merkel”, mandavano avanti i bambini con dei fiori in mano e camminavano verso la rete di confine. Per respingerli la polizia e l’esercito macedoni sparavano proiettili di gomma o lacrimogeni, provocando tra l’altro le proteste di Atene. Poi negavano di averlo fatto. Una volta un collega raccolse un proiettile da terra e lo mise sotto il naso del portavoce della polizia.
Tra i profughi di allora c’era Mohammed, venuto da una città siriana lungo l’Eufrate, caduta poco prima nelle mani dell’ISIS. Dovendo scegliere tra il regime di Assad e i macellai dello Stato islamico, insieme al figlio aveva scelto la fuga. “Questo cazzo di cancello adesso è aperto”, dice guardando la massicciata. È vero: il cancello è spalancato e le garitte della polizia – che faceva passare solo poche decine di persone al giorno, solo siriani – giacciono ad arrugginire. Visto che il treno merci poco lontano non sembra avere fretta di muoversi, potremmo scavalcare i cippi quante volte vogliamo, ma non ce ne è alcun bisogno, perché entrambi abbiamo in tasca un passaporto europeo, esibito (da Mohammed con molta supponenza) ai doganieri di Skopje quando siamo atterrati. Questa volta non siamo qui per implorare asilo o scrivere reportage, ma per curarci i denti e il mal di schiena. E ad Idomeni ci siamo andati in gita.
Misurare, non solo in chilometri, la distanza che hai percorso nella vita, da quando dormivi sotto una tenda di plastica fino ad un villaggio fiammingo dove tua moglie lavora, tu pure, e a scuola le tue figlie sono le migliori in olandese non è cosa per tutti. Oggi Mohammed sta in un posto dove la gente ci mette anche due anni prima di darti confidenza, ma dove si può camminare per strada la sera senza temere che arrivi qualcuno con molte armi e nessuno scrupolo. Da oltre un anno è cittadino belga. La moglie e le figlie lo hanno raggiunto in aereo, dopo che la sua domanda di asilo era stata accolta. In Germania si è stabilito solo il figlio: lì riunire la famiglia avrebbe preso più tempo.
Peraltro, nemmeno in Belgio è stato tutto così semplice: ci sono voluti tanti giorni e migliaia di sigarette, decine di formulari, ore di interviste e lunghe attese, nel centro di prima accoglienza ubicato in un villaggio il cui sindaco di estrema destra era anche ministro dell’Immigrazione. E poi i corsi di lingua e cittadinanza (per un periodo Mohammed sapeva a memoria tutte le date della storia del Belgio) e poi le visite ai proprietari di case in affitto, con l’aiuto di un collettivo locale formato da donnone cinquantenni tutte divorziate, qualcuna lesbica. E l’esperienza del vicino che chiama la polizia perché un altro vicino non ha smesso di fare lavori in casa dopo le 17, come da regolamento comunale. “Tomas, noi in Siria non chiamiamo mai la polizia. Portano via tutti quanti e non sai se e quando la tua famiglia ti rivedrà. Noi in Siria ci parliamo e ci mettiamo d’accordo”. C’è voluto tutto questo e altro ancora, ma piano piano il futuro è diventato presente.
Mohammed il cancello ferroviario di Idomeni non l’ha mai passato. Quando il luogo stava per essere sgomberato – le condizioni erano insostenibili – venne trasferito in un altro campo greco e da lì riuscì a continuare il viaggio. Ad Idomeni era tra i pochi a sapere l’inglese e questo – insieme ad alcune doti naturali di carattere – ne fece una sorta di portavoce locale dei migranti, durante i due mesi di permanenza. I giornalisti facevano la fila per intervistarlo. “Ad un certo punto cominciai a chiedere che almeno ci portassero qualcosa. Una volta cacciai un gruppo di curiosi gridando loro che non eravamo gli animali di uno zoo”.
A Idomeni non ci incontrammo mai, ci ha fatti conoscere più tardi in Belgio un amico che faceva il cooperante e che lo portava a mangiare in una trattoria del villaggio. Quella trattoria esiste ancora e fa ottimi spiedini. I negozi che erano sorti per i profughi – di cibo, di tende, di vestiti… c’era persino uno sportello della Western Union – sono invece tutti spariti.
Wikipedia dice che Idomeni fino al 1936 si chiamava Sehovo ed era popolato da greci e bulgari, uniti nel rivoltarsi contro l’Impero Ottomano ma poi in lotta tra loro per decidere dove andare, con chi stare. Quasi tutti discendono da profughi in questo posto, la cui esistenza è stata segnata in poco più di un secolo dal trattato di Santo Stefano, dalle guerre balcaniche, da due guerre mondiali, dal trattato di Losanna, dalla guerra civile, dal comunismo jugoslavo, dalla dittatura dei colonnelli greci, dalla dissoluzione della federazione di Tito e infine da quegli sconvolgimenti mediorientali che nell’estate del 2015 hanno fatto uscire migliaia di persone dai nostri schermi TV riversandole sulle spiagge e sulle nostre isole di vacanza.
Forse è questo che ci dà veramente fastidio dei migranti: che loro hanno una meta dove arrivare, che siamo noi, mentre noi siamo già qui, un posto a cui tendere non ce l’abbiamo. Prima di lasciare Idomeni troviamo il punto preciso dove Mohammed, esattamente otto anni fa, aveva piantato la sua tenda. “Questo non fotografarlo. Dimmi solo, per favore, da che parte è il sud”. E lui – che da quando lo conosco è entrato in molte meno moschee di me – si inginocchia per ringraziare il suo Dio. Si inginocchia nella terra umida che per due mesi è stata casa sua. Ma adesso è di nuovo solo prato.
Post scriptum: dopo aver letto il testo, Mohammed mi chiede di aggiungere che è grato al Belgio e alle Fiandre per averlo accolto con tutta la famiglia.
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