Dubravka Ugresic: nessuno in casa
Una breve antologia di brani tratti dal libro "Non c’è nessuno in casa", pubblicato lo scorso anno a Belgrado. Selezione a cura della redazione della rivista belgradese "Republika". Nostra traduzione
Di Dubravka Ugrešić, Republika, 1-30 aprile (tit. orig. Pustoš)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Luka Zanoni
Lo spettro del comunismo
Già da tempo lo spettro del comunismo non volteggia più sull’Europa. Nessuno sa dire quando, in effetti, il comunismo sia spirato: alcuni sostengono una cosa, altri un’altra. Alcuni si compiacciono di essere stati loro in persona ad abbatterlo (questo solitamente lo dicono gli ex detentori delle tessere di partito), altri dicono che è crollato da solo, e altri ancora, gli scettici, dubitano ancora e chiedono che il cuore morto del comunismo, per essere più sicuri, venga trafitto con un paletto di legno.
Al cadavere del comunismo è servito parecchio tempo per essere trasferito dalla vasca di formalina all’accademica sala dell’autopsia. Oggi piano e con molta cautela si avviano studi anticipatori (e speriamo emancipatori) postcomunisti, studi sul comunismo comparativo, in prevalenza in paesi che col comunismo non hanno avuto strette relazioni. Un dipartimento americano di slavistica reclamizza i suoi servizi intellettuali su web con uno slogan di incoraggiamento adeguatamente comunista Studiate (Uchites) il post comunismo! E per quanto riguarda le ricerche antropologiche, sociologiche, storiche e politiche, non è che prima non ce ne fossero. Al contrario. Ma dal momento che lo stesso oggetto di interesse – il grande sistema ideologico, che aveva i suoi seguaci e si suoi detrattori – è stato letto per anni o dalla posizione dei seguaci o dagli oppositori, nemmeno i ricercatori del comunismo sono riusciti, né qualcosa li aveva obbligati a farlo, a rimanere scientificamente scrupolosi.
In questo senso della ricerca persino i Boscimani se la sono passata meglio.
E per quanto riguarda i cittadini dei paesi ex comunisti, non gli è andata meglio. Perché finché il comunismo era vivo, i suoi abitanti erano gente vispa e spiritosa. Appena il comunismo è crollato e sui mercati sono arrivate quelle che un tempo erano le banane deficitarie, è imperversato un catastrofico deficit di humor. Oggi a Mosca, Bucarest e Praga si possono acquistare le scarpe di Prada, ma inspiegabilmente sono scomparse le barzellette. (…)
Nazionalismo
Evidentemente la dolente questione jugoslava non era il comunismo ma il nazionalismo. Il comunismo e la sua caduta sono serviti agli jugoslavi come un’interpretazione che sarebbe stata comprensibile agli interpreti e ai politici stranieri, e quindi come un alibi accettabile per la guerra. Il crollo della Jugoslavia (benché sia difficile da determinare cosa è venuto prima, l’uovo o la gallina) era il momento opportuno per il proseguimento della Seconda guerra mondiale e per la modificazione del suo esito. In questo senso, gli "ustascia" e i "cetnici" da perdenti sono diventati vincitori. Mentre i partigiani, cinquanta anni dopo, hanno definitivamente perduto la battaglia.
In Croazia dal 1990 al 2000 sono stati distrutti tremila monumenti antifascisti. È stato abbandonato e devastato il monumento di Jasenovac, uno dei più conosciuti lager ustascia in cui al tempo della NDH (Stato croato indipendente, ndt.) furono uccise decine di migliaia di ebrei, serbi, rom e croati. I nomi delle vie, delle scuole, delle istituzioni – tutto ciò che riportava i nomi antifascisti – sono stati cambiati. Secondo le istruzioni del ministero croato per la Cultura e l’Educazione, le biblioteche croate sono state ripulite a fondo dai libri antifascisti, comunisti e in cirillico. Alcuni libri sono stati bruciati, altri gettati nella spazzatura. La fotografia di Biserka Legradic, la donna che abbassa le mutande e orina su una tomba partigiana, è stata pubblicata su molti giornali. A modo suo la donna aveva deciso di festeggiare la definitiva vittoria sull’antifascismo. Il 27 dicembre del 2004, infine, è stato distrutto pure il monumento di Tito a Kumrovac, un’opera antologica di Augustincic, che rappresenta Tito in uniforme partigiana. A Tito è stata mozzata la testa. Due giorni dopo, dal club degli ex combattenti partigiani di Dubrovnik, è stata rubata la testa del combattente, opera dello scultore Krsinic, parte del monumento distrutto alcuni anni prima. Nello stesso periodo a Zara sfilavano in corteo gli "ustascia" vestiti con le nere uniformi ustascia e portavano la fotografia di Ante Pavelic e di Ante Gotovina, "eroe" della recente "guerra patriottica" e accusato dal Tribunale dell’Aja. Nello stesso periodo si è tenuta a Zagabria una messa di commemorazione per il capo degli ustascia Ante Pavelic, e a Zara per Jure Francetic, comandante della famigerata Legione nera degli ustascia. E da qualche parte, nello stesso periodo, il parlamento serbo adottava la decisione sulla equiparazione dell’importanza tra partigiani e cetnici. E secondo questa decisione alcuni cetnici ancora vivi avranno il diritto alla pensione militare (…)
Senza alternativa
Con la morte del comunismo è giunto pure il crollo dell’"immaginazione sociale", salutato come l’"ingresso nel maturo periodo post-ideologico". Oggi nessuno pensa più in modo serio a possibili alternative al capitalismo (F. Jameson), viviamo in un tempo "post-storico", "non conflittuale", o "tempo dell’apatia". Proprio come se l’orizzonte dell’immaginazione sociale non ci permettesse di essere trasportati dall’idea della possibile morte del capitale – perché, possiamo dire, tutti in modo tacito accettano che il capitalismo sia qui per rimanere: l’energia critica ha trovato una via di scambio nella lotta per la differenza culturale che lascia intatta l’omogeneità fondamentale del sistema capitalistico mondiale. Il prezzo che paghiamo per questa depoliticizzazione dell’economia è un tipo di depoliticizzazione della stessa sfera politica; la vera lotta politica si è trasformata in una lotta culturale per il riconoscimento delle identità marginali e della tolleranza delle differenze. (…)
La morte del comunismo ha recato delusione anche a coloro i quali hanno sentito di essersi ritrovati in un mondo dal quale è stata cacciata l’utopia. (…)
L’umiliazione della ragione
La sostanza della quotidianità del comunismo – almeno per quel che riguarda le persone comuni – non risiedeva nella mancanza di democrazia, nelle limitazioni politiche, religiose, sessuali e di altre libertà, nella paura di fronte al volto invisibile del totalitarismo, o nelle visibili lunghe file e nei mercati semi vuoti, ma nella costante, quotidiana umiliazione del semplice intelletto umano. L’incubo del comunismo è fatto della ripetitività dell’umiliazione delle individualità umane nelle situazioni di tutti i giorni, nella insolubile mistica del divieto, nell’impossibilità del dialogo e della mediazione, nel quotidiano spaccare la testa contro il muro cieco dell’assurdo. Perché la vita quotidiana non era vissuta, ma la si faceva: la gente assomigliava a quei corridori sudati che corrono la propria corsa della vita con un peso il doppio più pesante di loro stessi. Niente, proprio niente era fatto facilmente, niente poteva essere svolto senza fatica e attrito: il più delle volte le porte erano chiuse. (…)
Capitalismo
Oggi il capitalismo è profondamente immerso nel comunismo. L’idea che il lavoro ha creato l’uomo è profondamente comunista. Oggi l’uomo è davvero il "padrone del proprio corpo" e "artigiano di se stesso": fa tutto da solo, non sfrutta nessun altro. I servizi, che un tempo per lui svolgevano gli altri, l’uomo di oggi li svolge da solo. Compra da solo i biglietti da viaggio: sullo schermo del computer sceglie la destinazione e la tariffa più conveniente, trasferisce il denaro dal suo conto corrente al conto dell’agenzia di viaggio, da solo controlla il biglietto all’aeroporto. Grazie ad internet può comprare di tutto, "da un ago a una locomotiva". Nei grandi centri commerciali – che sono pensati per essere un luogo di socializzazione – oggi è difficile trovare dei venditori: l’acquirente sceglie da solo i suoi vestiti, all’uscita lo attende la cassa, e vive ciò come un male necessario della comunicazione. In America esistono dei computer medici da strada, simili ai bancomat. Se un uomo per strada ha mal di testa, può premere un tasto e ricevere le prime informazioni sul mal di testa. È del tutto possibile che in futuro spariscano i fornitori di servizi più complicati: è facile pensare ad un uomo che va all’ospedale, entra nello scanner, legge i risultati e con l’aiuto di istruzioni computerizzate esegua da solo un’operazione su se stesso. Certamente, se tutto va come deve andare e se i computer globalmente non ritardano.
E gli interessati potranno cercare informazioni nei musei su come appariva un tempo il mondo del lavoro e lo scambio del lavoro. Lì, per esempio nel museo della cultura industriale, potranno attaccarsi alla play station, premere un bottone, lasciarsi andare sul fondo di una miniera, prendere in mano dei picconi virtuali, grattare col piccone virtuale giacimenti di carbone e sentire come dietro la schiena scorre il sudore virtuale.
Se di tutto questo ne avrete abbastanza, premerete un altro bottone, si solleverà una rivoluzione virtuale e farete piazza pulita degli odiati sfruttatori e allora, rimanendo per un attimo nel buio del cunicolo della miniera, potrete pensare a come gli sfruttatori di un tempo avessero un loro volto, nome e cognome, e necessariamente chiedersi che ne è di questi, di oggi. Quelli di oggi sono invisibili e forse è per questo che a tutti sembra che non esistano. Ma esistono davvero? Esistono le classi? E a quale classe appartengo? Chi sono, davvero, i suoi nemici? E che ne è degli amici, dove sono? Ma è possibile che sia rimasto solo in questo mondo?!
Dicono che negli ultimi anni la Groenlandia sia diventata un’ambita destinazione turistica. Gente dai nervi sottili e dai grossi portafogli vi giunge per osservare i ghiacciai. Molto letamente, inseguiti dagli sguardi ammirati degli osservatori nella penombra, passano immensi blocchi di ghiaccio, brillano di una magica luce blu lattiginosa, galleggiano come un albume montato a neve nella crema di tuorli. Trattenendo il respiro, la gente guarda le immensità di ghiaccio. L’aria è pungente, il cielo è punteggiato di infinite grosse stelle. E là da qualche parte, tra le stelle, la segreteria telefonica di dio ripete un messaggio vecchio di chissà quando: All our operators are currently busy… Al zone medewerkers zijn op dit moment in gesprek… Nygdo neni domu… Nobody’s home… Non c’è nessuno in casa (Nikog nema doma)…
I brani sono tratti da Dubravka Ugrešić, Nikog nema doma, Fabrika knjiga, Beograd 2005, pp. 230-231, 238-239, 242, 244, 246, 252-254. A cura della redazione del mensile Republika.
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