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Documentare le guerre: 1991-1999

Drinka Gojkovic dirige a Belgrado il Centro di Documentazione "Guerre: 1991-1999". In questa intervista per Osservatorio sui Balcani presenta il proprio lavoro tracciando il bilancio di oltre un anno di attività

19/12/2002, Andrea Oskari Rossini -

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Come nasce il centro di documentazione "Guerre 1991-99"?

Lo abbiamo costituito nel Maggio 2001 all’interno di Radio B92. Si è trattato di una evoluzione naturale della attenzione che negli anni scorsi abbiamo sempre avuto nei confronti delle guerre e dei nazionalismi, e insieme di un tentativo di attirare l’attenzione del pubblico nei confronti delle guerre una volta che le guerre sono finite… Era chiaro che anche dopo la caduta di Milosevic nessuna struttura politica per quanto nuova avrebbe voluto affrontare questo problema… E che la questione delle guerre del decennio scorso avrebbe potuto molto facilmente scomparire o dissolversi in una sorta di oblio…

Quali sono le vostre attività?

Abbiamo aperto una libreria che raccoglie testi sul conflitto yugoslavo, con l’intenzione di mettere insieme tutto quello che è stato scritto nella regione e fuori, anche in altre lingue. La libreria è aperta al pubblico e presenta anche una collezione di video e documentari sull’argomento. Inoltre raccogliamo le storie orali, i racconti dei rifugiati, degli ex combattenti, delle persone – come dire – normali, le cui vite sono state attraversate dalla guerra. Si tratta di un progetto regionale, che non coinvolge solamente la Serbia ma che viene portato avanti anche in Bosnia e in Croazia. Cerchiamo infine di raccogliere testimonianze anche di rifugiati che sono andati nei cosiddetti Paesi terzi, come Stati uniti, Canada, Nuova Zelanda o Europa.

Si tratta di uno sforzo enorme. Come riuscite a sostenerlo?

Da un punto di vista pratico, tra i nostri primi sponsor abbiamo avuto il Ministero degli Esteri tedesco, poi la Fondazione Mott (Usa), la Casa della Libertà, un’istituzione americana, e abbiamo un sostegno modesto ma molto importante da parte del Ministero per la Cultura serbo. Sottolineo quest’ultimo donatore perché per noi è molto importante cercare di provocare e di coinvolgere le nostre istituzioni in quello che facciamo.

Che tipo di uso fate delle testimonianze raccolte?

Le rendiamo pubbliche. In questo momento stiamo lavorando su di una pubblicazione cartacea proprio di racconti orali. Alcuni estratti li abbiamo già pubblicati sul nostro sito. Un altro esempio del lavoro che stiamo facendo è la raccolta di tutti i discorsi pubblici di Milosevic, fatti in situazioni formali o informali. Anche su questa raccolta stiamo lavorando per farne una prossima pubblicazione. Come Centro di documentazione organizziamo anche dibattiti pubblici sulla questione delle guerre, invitando ospiti dalla regione o dall’estero, proiettiamo film in presenza degli autori, presentiamo libri.

Che reazione avete avuto rispetto al vostro lavoro nei media e in generale nella società?

Tutte le nostre iniziative vanno in onda sulla televisione di B92, che ora si può vedere in quasi tutta la Serbia. Alcuni dei nostri lavori naturalmente, come le storie orali, vengono anche trasmessi sulla radio, in particolare all’interno del programma settimanale ‘Catarsi’, che comprende interviste con vittime di guerra, delle diverse parti… Queste storie hanno un impatto molto forte sugli ascoltatori. Da quando appariamo in TV con i dibattiti pubblici, ci sono forti reazioni, di segno diverso, sia molto positive che molto negative. A volte rimaniamo stupiti nel constatare quante persone seguano le nostre trasmissioni televisive e come siano interessati alle cose che vengono dette e discusse…

Che tipo di indicatori avete rispetto a questo?

La quantità di telefonate che arriva, il numero di persone che ti incontrano o fermano per strada per farti le congratulazioni o al contrario per criticarti duramente…

Dunque una reazione di forte interesse. Anche di stupore?

In Serbia per tutto questo periodo siamo stati sottoposti a un flusso conflittuale di informazioni. Non c’era solo il problema delle informazioni parziali veicolate dai media dello Stato. Il conflitto nel flusso delle informazioni ha prodotto una grande confusione nella popolazione lungo tutti gli anni ’90. Non direi che la gente non sapesse quello che succedeva. Sapeva e non sapeva in relazione a quanto decideva individualmente di investire nella ricerca di informazioni. Questa ricerca individuale non era peraltro facile. Non tutti avevano il tempo o il denaro per comprare giornali, che in quel periodo di impoverimento totale erano piuttosto cari, non parliamo dei giornali stranieri… Non tutti poi avevano la volontà di pensare a null’altro che non fosse il mero sopravvivere da un giorno all’altro.

Questa confusione tocca anche il periodo precedente?

Sì, credo non ci sia stata ancora una sufficiente elaborazione su questioni quali che cos’era la coesistenza, quali erano i problemi del comunismo, cos’era la Yugoslavia e quali le ragioni della sua dissoluzione, i motivi dello scoppio della guerra… Cioè, ci sono diversi studi sul periodo della fine degli anni ’80 e inizio ’90, sulla ascesa del nazionalismo in Serbia. Ma il periodo del comunismo, o socialismo, come vogliamo chiamarlo, non è stato assolutamente studiato o analizzato a sufficienza finora. La conseguenza di questo è che c’è una negazione totale di qualsiasi aspetto positivo del sistema precedente.

E la "jugonostalghia"?

La opzione diciamo "jugonostalgica" rappresenta anch’essa una visione naive e poco seria, una semplificazione, anche se non pericolosa. La cosa pericolosa è il riferirsi negativamente a tutto quello che rappresentava la Jugoslavia. Questo porta come conseguenza il contrassegnare positivamente tutto quello che era contro la Jugoslavia, compresi ad esempio i Cetnici durante la seconda guerra mondiale, tutte le tendenze fasciste e di destra che ora sono piuttosto forti, non dominanti ma comunque presenti.

Il vostro obiettivo è quello di raccogliere le storie, i racconti delle persone… Con quale fine?

L’obiettivo è quello di cercare di stabilire una sorta di memoria sociale, collettiva, che possa essere il più possibile imparziale e basata sui fatti. L’obiettivo ideale sarebbe quello di raccogliere tante testimonianze da poter un giorno aprire un museo su questi fatti… Qualcosa come un museo della guerra…

Cosa pensa della Commissione sulla Verità e Riconciliazione avviata dal governo Kostunica?

Non mi sembra abbia finora prodotto risultati. La mia impressione è che anzi questa Commissione cerchi di riscrivere la storia, e in particolare la storia dell’intervento serbo nelle guerre, presentandolo in una maniera meno negativa di come è stato percepito dal mondo fino ad ora. Non penso che questo possa essere l’obiettivo di una Commissione tale. Penso che l’obiettivo dovrebbe essere quello di lavorare sui fatti, raccoglierli, presentarli al pubblico. Ma c’è una grossa paura a fare questo e anche una scarsa volontà. Finora ci sono solo discussioni, come ad esempio rispetto alla proposta di far venire le donne di Srebrenica a Belgrado per testimoniare… Non c’è stato nessun esito rispetto a queste proposte, anche perché penso che ad esempio i sopravvissuti di Srebrenica non abbiano molta fiducia verso quella Commissione o verso qualsiasi forma di istituzione politica in Serbia. Penso che accadrebbe la stessa cosa in altri casi che vedono i Serbi come vittime…

Che cosa serve?

La cosa di cui abbiamo maggiormente bisogno è una stretta collaborazione tra tutte le parti che sono state coinvolte nel conflitto. Questo tipo di cooperazione manca nel lavoro delle cosiddette Commissioni nazionali, abbiamo bisogno di cooperazione e scambi tra tutte le persone che nella regione lavorano su queste tematiche e stanno raccogliendo o hanno raccolto informazioni. In questo modo possiamo anche sperare di ricostruire i fatti. Qualcuno a Rovereto (sede del convegno, ndc) mi chiedeva informazioni rispetto ai bambini nati da violenze nel periodo bellico… Nessuno ne sa niente, non è una questione ritenuta importante, nessuno se ne occupa. Allo stesso modo nessuno ha le liste delle persone scomparse, Bosniaci, Serbi, Croati… Non sappiamo quali e quanti erano i campi di concentramento in tutta la regione… Questo solo per fare alcuni esempi. Abbiamo bisogno di stabilire delle forme di collaborazione regionale per affrontare questo problema che è molto complesso.

E una volta raccolti tutti gli elementi?

Viviamo in una società che sta cambiando e parte del cambiamento consiste nel divenire consapevoli del passato, in un modo che non causi ulteriori traumi ma che possa provocare una sorta di illuminazione… Rendersi conto significa avere un atteggiamento razionale nei confronti di quello che è avvenuto, e anche del ruolo della società serba in questo orrore. Io non sono pessimista, e credo sia positivo anche il fatto che stiamo in un certo senso mettendo sotto pressione i politici perché comincino ad affrontare la questione. Se stessimo zitti si sentirebbero anche più liberi nell’evitare il problema. Nel tempo penso che la consapevolezza rispetto al periodo passato crescerà, così come la capacità di affrontare razionalmente questo periodo. Le cose non cambieranno domani o dopodomani ma cambieranno perché stanno già cambiando.

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