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Da una ex, riflessioni ondivaghe sul tema della cooperazione

Continuiamo a stimolare il dibattito sulla cooperazione. Qui di seguito un testo di Valentina Pellizzer, una "ex cooperante alla deriva, al momento pensatrice nomade", come lei stessa si definisce.

19/05/2003, Redazione -

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Guida alla lettura.
Come tutte le storie raccontate da un’ex, quando ha ancora presente questo status dell’esserestata e si prefigura a stento il nuovo voleressere, il racconto è tratteggiato, scandito dal peso, per non dire dolore, al quale è ancora sensibile.

Come negli incontri delle alcoliste anonime il primo passo è costituito dall’ammissione della dipendenza. Dunque procedendo terapeuticamente. Scrivo di cooperazione perché ne sono vissuta e l’ho agita negli ultimi 8 anni. In corso il nono, interrotto…
E’ importante dirlo perché come tutte le teorie, il tentativo di interagire in maniera altra sulle realtà, ovvero la cooperazione messa in pratica, si scontra e si sconta sul corpo di chi questo lavoro lo fa. Si scontra col e nel sistema mondo, si sconta col e nel sistema ong.

Quando ripenso agli inizi, mi rivedo nella mia stanza cercando di mandare a memoria le 1000 e svariate altre pagine di procedura civile mentre la guerra della ex-jugoslavia arriva da una radio attonita e sconcertata nell’estate italiana. Era l’agosto del 1991. Croazia, guerra dei tronchi, Vukovar un pacifismo in difficoltà. Per alcuni anni ho ascoltata e guardata quella guerra chiedendomi come fosse possibile e decidendo che, se c’era una causa sociale, che meritasse di cambiare il corso, apparentemente quieto, della mia futura vita d’avvocata era la guerra contro le donne.
Ognuna di noi l’ha sentita a suo modo, per me era una guerra modernissima e archetipa che si scagliava contro il corpo delle donne come un mare furibondo che divora la spiaggia e rovina feroce trascinando qualsiasi cosa, corpo o oggetto immoto, incontri.
Ho cominciata con questa consapevolezza a fare cooperazione, partendo nel 1994 per un programma in Croazia a Fiume/Rijeka che ospitava a quel tempo 50.000 profughe (in quasi totale maggioranza donne e bambine/i, adolescenti). Da allora, restando a fare questo lavoro, la mia consapevolezza ha cominciato ad esercitarsi sulla cooperazione: strumento e sistema in sé.
Ci ho messo molto tempo per arrivare a comprendere cosa la cooperazione significasse e come quello strumento e quel sistema si articolassero. Fino ad accorgermi di come essa mi stesse facendo male, mi sovrabbondasse, mi governasse nonostante le buone intenzioni. Si tratta di una contaminazione lenta, inevitabile per quante pensano che il sistema possa combattersi dal suo interno e che le ong rappresentino la resistenza di un gruppo organizzato verso un mondo che impone regole alla vita di altre/i.
Tutte noi che abbiamo fatta la cooperazione o quante la stanno facendo, lavorando sul campo, pensano o hanno pensato, di poter esser il grimaldello che farà saltare la serratura della prigione o s’immaginano di allargare il buco nella rete deterministica delle economie e degli stati. E tutte noi interfacce fra questi due sistemi: mondo/ong, scopriamo quanto pericolosamente si assomigliano.

Tutto è cominciato con la costruzione della categoria della necessità. Si tratta di una stretta di spalle che compare ad ogni ciclo di crisi delle risorse (umane e/o finanziarie) dell’organizzazione. Così, pericolosamente, l’ingiustizia macro dichiaratamente combattuta si riproduce e ripropone ad un livello micro, meglio intermedio, ovvero nell’organizzazione: l’ong. Il micro anzi le micro siamo noi, le operatrici che cominciamo ad apprendere giri di vite, strette definite assolutamente necessarie, che nessuno vorrebbe ma che ahimè si devono fare per la sostenibilità del gruppo ed il gruppo sacrifica alcune o altre. E così nell’agire quotidiano e insieme ideale, le operatrici cominciano a vivere in due mondi paralleli. Quelli della giustizia gridata e quelli dell’ingiustizia negata. La sostenibilità del gruppo, parallelamente ed insieme al crescere dello stesso, diviene metro e misura della cooperazione. Il gruppo pensa più a se stesso che agli altri/altre che è andato a visitare fin nei loro paesi.
Tutte lo hanno pensato, molte lo stanno pensando, per ognuna di loro, come per me, verrà il momento in cui comprendere che essere interfaccia, in un sistema pieno di bugs, significa inoperatività, mancato funzionamento effettivo e sostanziale, fallimento degli obiettivi. Gli effetti? Consunzione delle nostre resistenze nel luogo sbagliato, inaridimento della creatività. Vittoria della doppia morale e del doppio legame con cui il gruppo, l’organizzazione/ong ci impantana. Intrappolate nella rete, paralizzate da una dissonanza che avrebbe dovuto essere lo strumento alternativo/creativo per la liberazione di spazi di mondo diventiamo tristi.
La relazione all’interno delle ong non è più da molto tempo una relazione dinamica. Per quante avevano aderito professionalmente e associativamente alle ong, immaginandole come luoghi di una resistenza attiva e collettiva ispirata a principi di solidarietà, la vita al loro interno ha dimostrato che le ong non sono dei luoghi di giustizia sociale.
Non perché siano cattive di per se stesse, ma perché come profughe alloggiate in troppe dentro lo stanzone unico del campo: cominciano a darsi sui nervi le une con le altre. Dipendono dal sistema e per vivere costruiscono sottili alchimie nell’intercapedine fra il sistema ed il campo. E agiscono ingiustizie, non inevitabilmente, lo sottolineo: n o n i n e vi t a b i l m e n t e ma conseguenzialmente alla voglia di centralità/autosopravvivenza che le motiva. Dentro il campo la scelta di come sopravvivere e a scapito di chi sostanzia l’essere vive dall’essere umane.
Queste persone che invocano lo stato di necessità scelgono di fare le cose seguendo le regole del campo, di chi detiene le chiavi e accettando di fatto l’inviolabilità del sistema in sè. Dunque non ribelli, non disobbedienza alla luce del sole, non condivisione, bensì gerarchie, linee verticali. Stato di necessità un modo per fare senza assumersi le responsabilità della scelta fatta.
Essere spettatrici attive di queste doppia vita consuma il corpo e le vite vere e reali di chi questo lavoro fa. L’autenticità diventa un rischio, una bomba ad orologeria che azione dopo azione avvicina il momento dell’esplosione, della frammentazione simbolica ed ideale di chi vive sottoposta a spinte contrarie. Giorno dopo giorno, anno dopo anno i perché si appesantiscono e l’energia, la spinta iniziale, quella spavalderia che ha fatto scegliere di vivere dentro le guerre, le crisi ed i disastri di altre e altri lontane pensando di poter essere ponte, via di fuga, indirizzo segreto, cominciano ad accusare i colpi. Le piccole randellate dietro le ginocchia e sulla schiena, quei tipi di colpi che non lasciano lividi, segni apparenti, consumano, fiaccano.
I progetti che avrebbero dovuto essere il percorso verso la soluzione cominciano a perdere smalto. Guardati, smontati e montati, letti in una cornice più ampia, incrociati nel tempo e nelle regioni. Confrontati lungo percorsi di altre e altri, illuminati da una professionalità che via via fornisce chiavi multi-interpretative, ci si rende conto che ci siamo lanciate lontano per ricadere, di fatto, sul posto. Incatenate al sistema, abbiamo ballato, come altre prima di noi, orso alla catena, donne barbute di turno.
Abbiamo attratto, brillato e sulla nostra carta luccicante altre giovani e motivate mosche sono rimaste appiccicate. Nuove ingenue destinate a contribuire ad un ciclo che sembra naturale e così non è.
Come tutte le ex (ricordate la nota introduttiva) ci tengo a sottolineare e ribadire che ci sono stati dei momenti belli. Sono i progetti realizzati, i risultati quantitativi raggiunti: i pacchi donati, le case, le scuole, gli ospedali ricostruiti, i corsi fatti. Il tutto però senza spostare di un millimetro il sistema. Come sisifo abbiamo spinta la nostra pietra fino in cima al monte per vederla rotolare giù. Ed è qui che comincia il percorso difficile e tortuoso dell’ammissione di impotenza, del riconoscimento di contaminazione e, nel caso di perseveranza, di cedimento ai valori immobili del sistema.
Ingenuamente, erroneamente, non so, avevo pensato che la cooperazione, il suo senso ultimo lo avesse nel fare spostamento e non di fondi, ma di senso. Non la redistribuzione delle briciole ma un contributo affinché più dell’altra metà del mondo ridisegnasse il patto. Insomma un’azione di pressione per un accesso libero e diverso alle cucine, alla composizione del menù e naturalmente ad un aumento delle ospiti sedute a prezzi popolari.
La cooperazione questo non può farlo. Il ciclo esperienziale delle cooperanti lo dimostra. La cooperazione conosciuta e agita in questi quasi 10 anni si è sempre di più uniformata, conformata al sistema. Il legame delle ong al ciclo di finanziamento dei grandi donatori ha di fatto indebolito quella che – sarà anche stata una buona intuizione di libertà, all’inizio non c’ero e l’ho comprata per buona – oggi è il braccio, il volto amico per la gestione ed il passaggio delle regole inamovibili che governano le società. Regole che vorticosamente abbiamo visto discostarsi abnormemente nella pratica dai loro enunciati di indipendenza e alternatività.

Fare oggi cooperazione via finanziamento (ong, onlus, agenzie, imprese sociali e varie ed eventuali) significa essere i/le figlie obbedienti che rispettano il nome del padre. Certo alcune scalpitano ma al dunque si sposeranno in chiesa.
Il linguaggio mercantile che descrive ruoli, funzioni, sezioni delle ong lo dimostra. L’organigramma di esse e di una impresa non differiscono, la qualità profonda è mutata o emersa, come preferiamo. Lo scambio gratuito è sostituito dalla professionalità, i/le manager imperano, l’empatia con l’altra si insegna in corsi post laurea.

E così – con la fine del mondo conosciuto e l’avvento della guerra preventiva, la legge del più forte, che non ha bisogno neppure del velo di maja delle risoluzioni internazionali sventagliate nelle ultime guerre europee dal muro di Berlino in poi – è inutile pensare di potersi nascondere dietro un dito. Il modello anzi i modelli della cooperazione non sono produttivi di cambiamento, non mettono in discussione il padre, non disobbediscono fino in fondo, non abbandonano la casa.
Il re è nudo e la regina non sta messa meglio. Il punto non è dunque quante ong/agenzie/onlus/imprese sociali sono buone e quante sono cattive, quali fanno bella figura su Report e quali non la fanno.
Il punto è che una buona ong riesce ad essere al massimo una buona impresa, ma una buona impresa non cambia il mondo e non promuove mondi alternativi, e le imprese hanno impiegate/i e non associate/i. Ed il profitto, anche se fosse un attimo meglio redistribuito, è sempre profitto, dunque visione unilaterale e bianca del mondo e infine marketing.
E questo non va bene, il marketing del bene, il logo del nologo. L’oligopolio o il mercato libero dello sviluppo e dell’aiuto umanitario. Le ong con il marchio di qualità attente all’immagine come una diva dello schermo degli anni ’50. Le ong dicono di se, a se stesse e agli/alle altre/i, cose che non possono fare, spostamenti che non sanno realizzare.
Quello che dicono non possono farlo, perché le linee di finanziamento le scrive il mondo del pensiero unico, che è sempre più del pensiero ossessivo. Chi disegna l’accesso a quei fondi mette un veleno all’ingresso. Si tratta di una porta stretta, ed ogni volta che le ong ci passano la porta si abbassa e si stringe ed il veleno penetra più a fondo poi le ong ci ripassano e la porta si stringe. Alla fine, avvelenate, rimangono dall’altro lato della porta e diventano Kapò del comune campo di concentramento.

Si tratta molto probabilmente di negarsi a questi fondi. E dunque di abbandonare l’alibi che ne regola/giustifica l’accesso in quanto tasse delle cittadine e dei cittadini. Quelle linee di finanziamento, quei progetti stretti dentro quelle linee, non riescono ad essere isole di resistenza se non abitate da menti lucide che siano pronte a disobbedire, a mettersi fuori dalla legge ogni volta che sia necessario per produrre spostamento, per dare voce e gambe a quante voce e gambe non hanno.
Ma le ong sanno disobbedire e fare disobbedire?
E allora? La cooperazione è il paradosso di se stessa. Si può abitare il paradosso, come quelle popolazioni, ieri Sarajevo oggi Bagdhad, che abitano il conflitto non perché se lo sono individualmente e singolarmente voluto ma perché le loro case sono lì sotto quelle bombe, dentro quell’assedio?
La cooperazione è un paradosso abitato. Primariamente da noi, quelle che se ne sono fatte intrappolare. Si può abbandonare un paradosso? E’ uno strappo forte. E’ l’accettazione della deriva del non-governo. E’ l’accettazione della non-corrispondenza fra forma e sostanza. E’ infine, la voce che ad alta voce si autodenuncia e denuncia la crisi del patto da associativo a contratto di lavoro precario regolato dalle leggi di mercato, quello unico. E’ la prova che la delega fra chi da e chi riceve, nei mille passaggi di mano, dimentica di rispettare il patto col più debole e si inchina a quello col più forte. Le ong non sono luoghi di resistenza attiva. Non lo sono perché abitano uno spazio disegnato da altri, e di quegli altri, in quello spazio, riproducono le regole. Noi che le abitiamo siamo come il personaggio di The Truman Show. Ad un certo punto scopriamo di recitare ruoli assegnati e che il margine della nostra creatività è proporzionale alla inconsapevolezza che qualcuno stia già lavorando alla puntata successiva.

Come tutti i paradossi, come tutti i nodi ingarbugliati, non ci si siede a scioglierli, presili fra le mani, guardati e rigirati, li si taglia o li si abbandona. Vuol dire l’addio al grande schermo. A grandi ed indimenticabili emozioni.
Dal centro tornare al margine, quel margine che credevamo di essere ma che non siamo più, accentrate di fatto dentro un modello più piccolo ma fedele a quello originario. E consapevolmente, da questa volta in poi, apprendere ad usarne lucidamente tutti gli strumenti, come il riconoscere dei sassi dentro un guado e saltando dall’uno all’altro guadagnare la riva.
La deriva si impone, l’abbandono del percorso lineare, richiede l’abilità della sopravvivenza, richiede di impegnarsi nuovamente in prima persona, con il nostro nome e senza targhe di umanità legalmente riconosciute. Il ritorno alla relazione significativa e significante, al riconoscimento, all’affidamento dall’una all’altro come tentativo di abitare la deriva. Una verifica costante di se e del senso del proprio percorso, che non serva deterministicamente e corporativisticamente la meta, che tanto non sappiamo come raggiungere, quanto alla ricostruzione di forma e sostanza in unità dialettica ed armonica.
Il nostro stare sul sasso/margine della resistenza in ogni momento (come dice il mio nuovo amico Pietro) deve essere una significativa, coerente scelta del sé, confermata attraverso lo sguardo di quegli altri e altre costanti che rimandano di noi stesse immagini coerentemente solidali. Non è importante che sia lineare questo nostro nuovo e imprevisto percorso ma che sia amato. Deve trattarsi di un amore ostinato e felice perché sa chi ama e sa, sente soprattutto, di essere riamata/o.
Ciò che è importante in questo viaggio, della sua ostinazione è il riconoscere alle altre compagne e compagni le derive sui/dei loro sassi attuali. Sassi da cui ci si da’ forza, in cui si passano e si prendono testimoni. E’ importante questa resistenza attiva e creativa che passa per quelle piste non segnate, per quei luoghi che, del margine dell’uscita di scena per quante vi erano entrate, hanno conservato il senso dell’autenticità. Poiché, quel ruolo siamo state noi stesse per un momento della nostra vita.
Da questi sassi al margine delle grandi strade battute dal capitalismo for profit e for non profit si può attendere che la deriva renda evidenti le proprie correnti. Un’attesa attiva, viva, nominata perché anche se non l’ho detto in tutto questo è in questione l’amore e la felicità presente e futura. Questo si impara dalla cooperazione agita e subita, che non è una questione di giustizia ma una questione d’amore.
valentina pellizzer
Note a margine:
Il femminile usato nel testo è inclusivo anche del genere maschile. I riferimenti simbolici ravvisabili del/nel testo sono: l’intera opera di Luce Iragaray, in particolare ‘Etica della Differenza sessuale’, ‘Speculum’ ed ‘Io amo a te’; bell hooks, in particolare ‘Elogio del Margine’ e ‘Tutto sull’amore’; Rosi Braidotti, in particolare ‘Soggetto Nomade e Nuovi soggetti nomadi’; Christa Wolf in particolare ‘Cassandra’; Robert Pirsing in particolare ‘Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’; Adrienne Rich; Lia Cigarini ‘La politica del desiderio’; Virginia Woolf in particolare ‘Una stanza tutta per sé’ e ‘Le tre ghinee’; Roland Barthes in particolare ‘L’ovvio e l’ottuso’ le mie sorelle e tutte le amiche e gli amici in carne, ossa e amore che costituiscono la comunità virtuale e reale che mi sostanzia.
Quanto scritto non è una resa, un passo indietro ma è la denuncia di un abuso del simbolico in atto, di uno svuotamento del patto di delega da parte di tutti i soggetti collettivi, anche da parte di chi formalmente è il/la diversa (ong, agenzia, terzo settore). Uno svuotamento del patto di riconoscimento identitario fra noi, me e gli/le altre/i.
 Questo scritto è il punto a capo, il margine come luogo politico per riappropriarsi della delega data, per un agire politico ad alta voce ed in propria persona, con la convinzione che la consapevolezza va nutrita azione dentro azione, pensiero dentro pensiero mantenendo costante la relazione fra il sé e l’altra, individuale o collettivo.
Osservatorio ha cercato in questi anni di stimolare il dibattito sulla cooperazione allo sviluppo, in particolare nell’area balcanica. In particolare è stato fatto non solo dando voce agli operatori sul campo ma anche attraverso il convegno "Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive". Per chi fosse interessato ad intervenire nel dibattito, invitiamo ad inviare una mail a: segreteria@osservatoriobalcani.org.

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