Eulex, il delicato equilibrio della giustizia
Senza una posizione comune dell’UE sullo status del Kosovo, i magistrati Eulex sono posti di fronte a molte sfide e a qualche paradosso: ogni singolo giudice, ad esempio, deve scegliere se applicare o meno le leggi approvate a Pristina. Un’intervista con Dragomir Yordanov, magistrato bulgaro, che ha lavorato in Eulex dallo spiegamento della missione alla primavera 2011
Per quanto tempo ha lavorato come giudice in Eulex?
Il mio impegno in Eulex è cominciato allo spiegamento della missione, nel dicembre 2008, ed è continuato fino alla primavera del 2011. La mia attività di magistrato si è svolta soprattutto nella corte di Gjilan/Gnjilane, nel sud-est del Kosovo. Ho operato però anche a Pristina e nelle altre corti distrettuali del Kosovo.
Quali sono state le maggiori difficoltà da lei riscontrate durante il suo operato in Kosovo?
Il mio lavoro in Kosovo consisteva da una parte in puro lavoro giuridico, dall’altra nel ruolo di mentore. Eulex infatti ha due obiettivi principali: da una parte sostenere e monitorare le autorità giudiziarie locali, agendo all’interno di un meccanismo noto come Monitoring Mentoring and Advising (MMA), dall’altra esercitare direttamente poteri giudiziari. Questa attività, in quanto giudice, mi era sicuramente più familiare, anche se non è stato affatto facile appropriarsi della legislazione vigente in Kosovo e riuscire poi ad applicarla in tribunale, anche perché in ampi settori della giurisprudenza manca qualsiasi punto di riferimento pregresso. Credo, però, che la sfida più grande sia stato lavorare all’MMA, dove era necessario agire in un contesto culturale, storico (e linguistico) molto diverso da quello da cui provengo.
Come interagiscono i giudici e i procuratori Eulex con il sistema giudiziario del Kosovo?
I magistrati Eulex fanno pienamente parte delle corti locali, e lavorano in giurie miste, anche se naturalmente esiste la possibilità di avere giurie formate esclusivamente da giudici internazionali. La missione però ha una strategia chiara: spingere verso giurie miste e, nei mesi più recenti, avere giurie formate in maggioranza da giudici locali. Una delle critiche più pesanti all’operato di Unmik, era quella di aver creato in Kosovo due sistemi giudiziari paralleli, uno locale e uno internazionale. In questo senso, credo che il fatto che i magistrati Eulex lavorino insieme ai propri colleghi kosovari sia un passo in avanti molto significativo.
L’Unione europea (e quindi Eulex) non ha riconosciuto il Kosovo come uno stato indipendente e sovrano. Quanto ha influenzato i vostri rapporti con le autorità locali la posizione “status neutral” della missione?
Non direi che questa ha avuto un impatto diretto sulle operazioni di Eulex, anche perché la decisione di schierare la missione è stata presa all’unanimità dai paesi dell’Ue. Abbiamo però riscontrato elementi di incertezza soprattutto rispetto alla legislazione da applicare in Kosovo, un problema che non è solo conseguenza della posizione europea, ma del perdurante stato di incertezza sullo status del Kosovo. Se parliamo in termini strettamente giuridici, in molti casi si applica ancora il vecchio codice jugoslavo, visto che, soprattutto in campo civile, è l’unico a coprire settori legali altrimenti sguarniti. L’amministrazione Unmik ha poi prodotto nuove norme, che devono essere prese in considerazione. I problemi sono nati con la proclamazione di indipendenza, quando il parlamento di Pristina ha cominciato ad approvare i propri atti legislativi. A questo punto, visto che Eulex non riconosce esplicitamente l’indipendenza del Kosovo, ci si è posti il problema di quale ordine legale applicare nei tribunali.
In termini pratici, ai giudici Eulex è richiesto o meno di applicare le leggi approvate da Pristina dopo la dichiarazione di indipendenza del febbraio 2008?
La scelta è stata data ad ogni singolo magistrato. In termini strettamente legali, si tratta della strategia corretta. Il problema però resta. Anche se la missione è “status neutral”, scegliendo o meno di applicare la legislazione approvata da Pristina i magistrati Eulex sono messi de facto nella posizione di dover implicitamente riconoscere o meno le nuove istituzioni del Kosovo. Se un giudice Eulex decide di applicare le norme votate a Pristina, di fatto riconosce l’ordine legale che trae origine dalla dichiarazione di indipendenza. Il dibattito a riguardo è ancora in corso, anche perché i differenti codici applicabili in Kosovo possono essere anche estremamente contraddittori. La questione è emersa più volte, e Bruxelles è ben consapevole del problema. Una soluzione definitiva, comunque, può arrivare soltanto attraverso decisioni politiche che però, a quanto pare, difficilmente verranno prese in tempi rapidi.
Ma il fatto che un accusato non sappia in anticipo quali norme verranno applicate al proprio caso, non rappresenta un paradosso in termini giuridici?
La legge è prerogativa di chi detiene la sovranità, solo chi è sovrano può emanare norme. Quindi torniamo ancora alla questione centrale, di natura politica: il Kosovo è un Paese sovrano o meno? Dare una risposta alla questione è un passaggio inevitabile se si vuole rispondere a questa domanda. Allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare che in Kosovo, la società chiede giustizia. La gente del Kosovo ha un desiderio evidente che la giustizia venga amministrata. In termini pratici, nei tribunali sono accumulate enormi quantità di casi ancora pendenti, e moltissimi crimini devono ancora essere giudicati. E questo lavoro non ammette ulteriori ritardi, a prescindere dal codice applicato.
Eulex si trova in una situazione delicata: da una parte per operare sul campo deve collaborare con le autorità politiche kosovare, dall’altra deve rispondere ad una forte aspettativa di lotta alla corruzione nei confronti dell’élite di Pristina. Non le sembra una contraddizione?
Sì, in qualche modo si tratta di una contraddizione, ma non più grande di quella riscontata in molti altri paesi. Anche altrove, la lotta alla corruzione presuppone che un potere pubblico, quello giuridico, indaghi e persegua altri poteri pubblici, siano questi nel settore esecutivo, giudiziario o nell’amministrazione. Forse in Kosovo il grado maggiore di contraddizione è conseguenza del fatto che indagini e processi vengono gestiti da procuratori e giudici internazionali. Quando ho lasciato la missione, comunque, c’erano numerose indagini in corso (e anche condanne) nei confronti di “pezzi grossi” come ministri, deputati e sindaci di città importanti. Naturalmente ci sono stati momenti in cui era possibile percepire chiaramente che la questione è molto delicata. Ci sono state situazioni in cui giudici locali si sono dimostrati riluttanti ad assumersi casi di questo tipo, ma questo è uno dei motivi della presenza in Kosovo di magistrati internazionali. E, almeno nelle sue dichiarazioni verbali, il governo di Pristina ha sempre dimostrato un atteggiamento cooperativo.
Insieme alla sua agenda giudiziaria, Eulex ne ha anche una politica. Ha mai avuto l’impressione che le due agende siano entrate in contrasto, soprattutto quando si è trattato di gestire indagini su figure politiche particolarmente “sensibili”?
Nella mia esperienza personale in Kosovo non ho mai dovuto affrontare una situazione in cui fosse presente un qualche tipo di pressione politica nei confronti della magistratura. Senza dubbio il contesto politico resta molto delicato. Nel nostro distretto abbiamo avuto casi contro politici e amministratori che hanno tentato chiaramente di ostruire il corso della giustizia. Nonostante tutto, però, i procedimenti sono stati portati a termine, grazie alla collaborazione dei colleghi kosovari e col pieno sostegno della missione.
Giudici e procuratori di Eulex hanno un mandato temporalmente limitato in Kosovo. Crede che questo rappresenti un limite all’efficacia del loro lavoro?
Dal mio punto di vista personale, il punto di vista di un giudice, una permanenza maggiore avrebbe sicuramente molti vantaggi. Innanzitutto perché studiare ed adattarsi alla legislazione locale richiede tempo. Ci sono naturalmente molti materiali disponibili, anche in internet, ma la vera conoscenza può essere acquisita solo lavorando sul campo: per lavorare con efficacia sono richiesti alcuni mesi di rodaggio. Quanti, dipende anche dal background legale dei vari magistrati, visto che giudici e procuratori di Eulex provengono da paesi con tradizioni giurisprudenziali diverse, alcune più vicine, e altre più lontane dal codice (o meglio dai codici) attualmente applicati in Kosovo.
Che tipo di “filosofia giuridica” ha introdotto da Eulex in Kosovo?
Il Kosovo è stato a lungo parte non solo della Jugoslavia, ma anche della sua cultura legale e sistema giurisprudenziale, che faceva parte dei cosiddetti sistemi continentali, o di “civil law” (sistema di ordinamento giuridico dominante a livello mondiale, che si basa principalmente su codici e decreti governativi). Negli ultimi anni si è assistito ad una chiara tendenza ad introdurre in Kosovo elementi di contraddittorio mutuati dal sistema di “common law” (modello di matrice anglosassone che si basa soprattutto sulle decisioni giurisprudenziali pregresse). Alcuni di questi elementi di novità sono stati ben elaborati e adattati alla tradizionale cornice giurisprudenziale del Kosovo, altri incontrano invece difficoltà nell’essere ben applicati e interpretati, soprattutto dai giudici locali. Anche all’interno della comunità dei magistrati di Eulex ci sono state spesso discussioni tra giudici, soprattutto lungo la linea che separa i Paesi di “civil law” e quelli di “common law”. Non tanto sull’interpretazione delle norme, quanto appunto sulla filosofia giuridica da cui queste emergono.
Come hanno interagito le novità apportate con la tradizionale cultura legale del Kosovo?
L’interazione, naturalmente, non è stata sempre facile. Prendiamo ad esempio la carcerazione preventiva. In Kosovo c’è la chiara tendenza da parte dei giudici locali ad usare abbondantemente questa procedura, anche quando sarebbero possibili soluzioni alternative. Parlando della cosa con i giudici locali, però, è emerso che talvolta gli accusati vengono messi in prigione semplicemente per salvare loro la vita, per metterli al riparo dalla vendetta e dare tempo alle famiglie interessate di cercare un via di riconciliazione. Abbiamo seguito vari casi in cui, dopo che le famiglie hanno raggiunto un accordo privato, l’accusato ha ammesso le proprie responsabilità in aula. In Kosovo esiste una tradizione non scritta di risoluzione dei conflitti attraverso negoziati tra le parti coinvolte. Questa tradizione, però, talvolta viene utilizzata anche nelle aule dei tribunali. Nel nostro distretto, ad esempio, ho assistito ad un caso in cui l’accusato si è dichiarato innocente. Ma una volta in aula, il procuratore ha utilizzato il seguente argomento: “Se davvero sei innocente, come sostieni, perché hai inviato un mediatore per trattare con la famiglia della vittima?” Per l’opinione pubblica questo argomento, anche se non in linea con la dottrina giuridica “ufficiale”, era di importanza e peso cruciali.
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