Tipologia: Intervista

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Area: Cipro,Turchia

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Ergenekon, la verità di Ahmet Şık e Nedim Şener

Noti in Turchia per le inchieste sullo "stato profondo", Ahmet Şık e Nedim Şener sono stati arrestati nel 2011, accusati di far parte dell’organizzazione golpista "Ergenekon" di cui hanno svelato i retroscena. Un caso divenuto simbolo dei lati meno trasparenti dell’inchiesta. Li abbiamo incontrati a Cipro, a poche settimane dalla loro scarcerazione

26/04/2012, Francesco Martino - Nicosia

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Ahmet Şık e Nedim Şener sono due noti giornalisti turchi. Entrambi sono stati arrestati il 3 marzo 2011, accusati di essere membri di "Ergenekon", un’organizzazione terrorista segreta che avrebbe tentato di rovesciare il governo guidato dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) attraverso azioni violente e disinformazione. Il loro arresto ha provocato manifestazioni di protesta, sia in Turchia che all’estero, mentre la loro storia giudiziaria è divenuto un caso simbolo per chi critica lo stato della libertà di stampa in Turchia.

I due giornalisti sono stati rilasciati lo scorso 12 marzo 2012, dopo un anno di detenzione, ma rimangono sotto processo insieme a 11 reporter del sito "Oda TV". La prossima seduta in tribunale è attesa per il 18 giugno. Se condannati, rischiano fino ad un massimo di 15 anni di reclusione. OBC li ha incontrati a Cipro, dove hanno ricevuto dalla locale associazione dei giornalisti il premio “Kutlu Adalı” per il loro contributo alla libertà di stampa.

Quando avete capito che sareste stati liberati? Qual è stata la vostra prima reazione?

A.Ş. Siamo venuti a conoscenza della decisione solo dopo aver lasciato l’aula, visto che il giudice non ce l’ha comunicato durante la seduta. La nostra prima reazione, quindi, è stata di sorpresa, visto che non ci aspettavamo questo tipo di evoluzione. La comunicazione del nostro rilascio ci è arrivata mentre venivamo trasferiti, insieme ad altri due coimputati nel nostro processo, in una camionetta della polizia. Quando abbiamo capito che solo noi due saremmo stati liberati, la gioia si è mescolata alla frustrazione nel vedere che la libertà non sarebbe arrivata per tutti.

Credete che il vostro rilascio segni un punto di svolta nel processo in cui siete imputati?

A.Ş. Sono convinto che la ragione per cui siamo stati liberati abbia le sue radici nello scontro oggi in atto tra i due principali centri di potere in Turchia, l’AKP di Tayyp Erdoğan e la comunità religiosa di Fethullah Gülen. Con il nostro arresto credo che abbiano raggiunto il limite e, dopo le energiche reazioni internazionali, si siano resi conto che non potevano tenerci ancora dietro le sbarre, visto che la nostra detenzione diventava ogni giorno più imbarazzante. Alla fine, quindi, hanno dovuto scarcerarci. Non escludo che questo possa portare a una gestione diversa al nostro caso giudiziario, anche perché ha messo impietosamente in luce i contrasti e le contraddizioni tra i poteri che oggi controllano la Turchia. E, forse, a qualche tipo di riforma del nostro sistema giudiziario.

N.Ş. In linea generale concordo con l’analisi di Ahmet, anche se sono convinto che la ragione principale del nostro rilascio sia proprio la pressione internazionale proveniente da Stati Uniti, Unione Europea e organizzazioni internazionali. E’ evidente che sia in atto un conflitto tra l’AKP e il movimento Gülen, e il nostro arresto è direttamente legato a questo scontro. Non credo però che la responsabilità di quanto avvenuto ricada solo sui circoli legati a Gülen, ma anche sullo stesso esecutivo. Temo che l’approccio del partito di governo al tema dei diritti e della democrazia non sia molto diverso da quello del movimento Gülen: altrimenti Erdoğan non avrebbe paragonato giornalisti a terroristi, e non avrebbe parlato di libri come potenziali bombe. Così, col passare del tempo, si è rafforzata in me la convinzione che il nostro arresto, più che conseguenza di un contrasto, sia stato il risultato di un accordo segreto tra questi due fattori, e che metterci il bavaglio sia stato un obiettivo di entrambi.

Come giudicate le accuse nei vostri confronti?

A.Ş. Ci accusano di essere membri di Ergenekon, ma i presunti elementi di prova su cui si basa la nostra imputazione non sono altro che elementi della nostra attività giornalistica. Dal nostro punto di vista, stavamo semplicemente facendo il nostro lavoro. E’ estremamente difficile spiegare al mondo esterno, a chiunque in realtà, come questo sia potuto accadere. Io e Nedim abbiamo speso la nostra vita professionale investigando e portando alla luce questioni legate allo “stato profondo”. Essere accusati di far parte di Ergenekon è quindi qualcosa di difficilmente comprensibile. In ogni caso nessuno è riuscito a spiegare quali siano le basi reali sulla base delle quali sediamo al banco degli imputati, né a convincere alcuno che le accuse nei nostri confronti siano credibili. Negli anni ’80 in Turchia per mettere a tacere uccidevano, ora invece utilizzano la galera come strumento di censura.

Voi avete lavorato su diversi aspetti dello “stato profondo”, dall’omicidio di Hrant Dink al caso Energekon. Secondo voi, dove si annida oggi lo “stato profondo” in Turchia?

N.Ş. Non comprendo fino in fondo il termine “stato profondo”: a mio modo di vedere esiste un solo ed unico stato. Il problema in Turchia è che è lo stato stesso ad essere dietro operazioni sporche come quelle emerse col caso Susurluk, l’omicidio Dink o con Energekon. Parlare di due stati, uno ufficiale e uno “profondo” non è che un intorbidire le acque, e rende più difficile la comprensione della realtà. Anche prima dell’emergere di Energekon, sapevamo bene dove si annidasse questo “stato profondo”: non era altro che la cosiddetta “contro-guerriglia”, una struttura simile all’italiana “Gladio”. Sapevamo chi erano le persone coinvolte, e da chi prendevano ordini. Ma ora questi circoli tentano di creare una cortina di fumo, di distogliere il nostro sguardo. Parlare di “stato profondo”, quindi, è in qualche modo un diversivo che allontana dal problema reale, che resta radicato nella “contro-guerriglia”. Nel caso Hrant Dink, abbiamo assistito a come funzionari, burocrati e ufficiali di polizia coinvolti non solo non siano stati pubblicamente additati e puniti, ma al contrario protetti o addirittura promossi. C’è una chiara strategia dello stato nel tutelare chi viene utilizzato per i “lavori sporchi”.

A.Ş. Non sono del tutto d’accordo con Nedim su questo punto. Credo che, nello spiegare il perché non creda nell’esistenza di uno “stato profondo”, stia in realtà descrivendolo. Lo “stato profondo” emerge proprio in tutte queste attività che nessuno ha il permesso di indagare, e per cui nessuno può venire messo di fronte alle proprie responsabilità. Credo che lo “stato profondo” si trovi oggi esattamente dove è sempre stato: a cambiare sono stati soltanto i protagonisti del gioco. Ora lo stato finge di voler mettere alla sbarra le figure chiave di questa struttura deviata attraverso il processo a Energekon, di voler far chiarezza ed emettere condanne. Sono convinto però che si tratti di una mera illusione. Alcuni degli imputati di Energekon facevano effettivamente parte dell’organizzazione golpista, ma le accuse oggi portate nei loro confronti non corrispondono ai crimini di cui si sono macchiati. L’unica strada per cambiare le carte in tavola è giudicare ognuno per i reati che ha effettivamente commesso. Soltanto in questo modo riusciremo davvero a sbarazzarci dell’attuale sistema.

Come vedete l’evoluzione della libertà di stampa negli ultimi dieci anni in Turchia?

N.Ş. La democrazia si basa sulla divisione dei tre poteri istituzionali, a cui bisogna aggiungere i media, spesso definiti il “quarto potere”. Da quando l’AKP ha conquistato il potere è riuscito a mettere le mani sui poteri istituzionali, e ora cerca di controllare anche il settore dei media. Questo, però, sta opponendo resistenza, e anche potenze come gli Stati Uniti, che in passato hanno chiuso gli occhi su quanto accadeva in Turchia e hanno appoggiato attivamente l’AKP, oggi hanno non poche riserve sul tentativo del partito di Erdoğan di occupare l’interno sistema di potere. Tutti i regimi autoritari per prima cosa hanno messo a tacere la stampa, la Turchia da questo punto di vista non rappresenta un’eccezione.

A.Ş. Anche se tutti i giornalisti oggi in prigione venissero liberati, questo non significherebbe automaticamente che i media turchi sono liberi. Perché passerebbero semplicemente dalla loro piccola cella ad una prigione più grande, e mi riferisco all’autocensura che devono imporsi. Qui, comunque, non si parla soltanto di libertà di stampa, ma di libertà di espressione in senso più generale. Oggi in Turchia circa 600 studenti sono in carcere per aver espresso le proprie opinioni, per non parlare dei tanti dietro le sbarre per le accuse di appartenenza o connivenza con il KCK [Koma Civakên Kurdistan – Unione delle Comunità in Kurdistan, ritenuto l’ala urbana del PKK]. Il vero problema in Turchia è la l’attuale legislazione anti-terrorismo. Nel codice penale turco ci sono alcuni articoli “fascisti”, assolutamente incompatibili con la libertà di espressione. Senza una loro modifica radicale, non ci sarà alcun miglioramento.

La Turchia è spesso descritta come un paese che, nonostante i molti problemi persistenti, dalla presa del potere da parte dell’AKP ha intrapreso un percorso di apertura e riforme. Credete che questa analisi colga l’evoluzione del paese?

N.Ş. Subito dopo la crisi economica del 2000, il Fondo monetario internazionale, insieme ad altre forze esterne, costrinse la Turchia ad intraprendere profonde riforme economiche. Continuando su questa strada, il governo targato AKP ha davvero raggiunto importanti successi in campo economico. E, almeno fino a quando a mantenuto forti relazioni con l’UE, anche nel processo di democratizzazione del paese. Oggi, purtroppo, le cose sono cambiate in peggio. Il solo sviluppo economico non è sufficiente a creare una società democratica, e la Turchia lo dimostra. Il paese è ancora primo nella classifica delle condanne ricevute dalla Corte europea per i diritti umani, e secondo dopo la Russia in quella del numero di denunce presentate dai propri cittadini. Al mondo ci sono circa 30mila detenuti per terrorismo: di questi, 12-13mila sono in carcere solo in Turchia. O il nostro paese ha un numero abnorme di terroristi, oppure c’è qualcosa di deformato nella nostra legislazione anti-terrorismo.

A.Ş. Nei primi due anni al potere l’AKP ha realizzato alcune riforme importanti e significative. Dopo il 2005, però, la spinta alla democratizzazione si è esaurita, o addirittura ha fatto passi indietro. Quando Erdoğan è diventato primo ministro, una delle sue prime promesse è stata “diventeremo parte dell’UE”. Negli ultimi sei anni, però, l’obiettivo è stato lasciato cadere. L’AKP ed Erdoğan non puntano a trasformare la Turchia in una vera democrazia, perché un paese democratico è più difficile da dominare. E’ vero, la Turchia ha vissuto una tumultuosa crescita economica. L’economia, però, non misura lo stato di sviluppo di un sistema democratico. La crescita, tra l’altro, non corrisponde a migliori condizioni di vita per tutti. Oggi la Cina si appresta a diventare la prima economia al mondo, ma molti dei suoi cittadini continuano a vivere nella povertà estrema. Un tempo la Turchia sognava di diventare una “piccola America”. Oggi, temo, stiamo tentando di trasformarci in una “piccola Cina”.

 

 

Questa intervista è stata realizzata all’interno di una visita a Cipro organizzata dall’Associazione dei Giornalisti Europei (Association of European Journalists – AEJ)

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