Crimini in Kosovo: dov’era la comunità internazionale?
Il rapporto presentato martedì dalla Task Force investigativa europea ha confermato i crimini contro l’umanità commessi da comandanti dell’UÇK. Una conclusione che, secondo l’autore, (ri)apre domande scomode sul ruolo della comunità internazionale in Kosovo
Non c’è niente di nuovo nel rapporto preliminare reso pubblico lo scorso martedì dalla Special Investigative Task Force (SITF) istituita dall’UE per indagare sulle accuse contenute nel rapporto Marty del 2010. Niente, tranne una cosa: in sostanza Dick Marty aveva ragione, anche sul traffico di organi.
Nello specifico, il rapporto conclude, dopo tre anni di indagine (il corsivo è dell’autore) che "quanto accaduto all’indomani del conflitto [del 1999]… fu un attacco brutale… diretto contro quasi tutti i serbi che volevano restare in Kosovo, i rom kosovari e gli albanesi che si opponevano ad alcune fazioni dell’UÇK; che questi crimini hanno prodotto una effettiva pulizia etnica di gran parte della comunità serba e rom a sud del fiume Ibar; che i crimini in questione furono commessi in ‘modo organizzato’, sotto la direzione di comandanti dell’UÇK; e che, oltre a costituire crimini di guerra, gli attacchi furono sufficientemente ‘diffusi’ e ‘sistematici’ da giustificare l’accusa per “crimini contro l’umanità”. Ma anche questa caratterizzazione giuridica non è una novità: si tratta di cose ben note e che possono essere lette – come il rapporto fa notare – in ogni analisi attendibile già prodotta sulla crisi in Kosovo.
Inoltre, il rapporto conferma che dal 1999 i magistrati di UNMIK, quelli kosovari e, con rare eccezioni, anche quelli di Eulex, hanno sistematicamente ignorato tali crimini: se numerose analisi affidabili li avevano già denunciati nel 1999, e se sia Marty che la SITF hanno potuto accertare i fatti una dozzina di anni più tardi, perché non l’hanno fatto? Non hanno visto, o non hanno trovato le prove? E se non le hanno trovate, quanto e come le hanno cercate?
In effetti, la cosa più interessante che emerge da questo rapporto non è quanto esso dice sull’UÇK, ma ciò che implica sull’intervento post-conflitto e di state-building della comunità internazionale in Kosovo: è davvero possibile sorprendersi del fatto che, così come accaduto nelle guerre degli anni novanta nei Balcani, le vittime della pulizia etnica e dei crimini di guerra si siano poi vendicate non appena hanno avuto il coltello dalla parte del manico? Lo fecero i croati, così come l’esercito di Sarajevo, per quanto in misura decisamente minore. E il comportamento stesso dell’UÇK fino a giugno 1999 non consentiva di prevedere che, se non fossero stati fermati, i suoi uomini avrebbero usato violenza contro i serbi del Kosovo?
La vera questione, però, è capire come sia stato possibile che questi "crimini contro l’umanità" siano stati commessi in presenza di circa 50mila soldati NATO in Kosovo: uno ogni 36 residenti, la densità più alta mai registrata in una missione di peacekeeping nella storia. La “prolungata campagna di violenza ed intimidazione" che ha portato alla morte di numerosi civili ed è stata un’autentica “pulizia etnica di ampi segmenti della popolazione serba e rom” del Kosovo meridionale è accaduta sotto lo sguardo dei soldati della comunità internazionale: che cosa facevano mentre la campagna di violenza infuriava? (E cosa fecero durante le rivolte anti-serbe del 2004? Anche in questo caso, niente).
In modo ammirevole, una Corte olandese ha recentemente riconosciuto la responsabilità civile dello stato olandese per non aver protetto i civili che sarebbero poi stati trucidati dagli uomini di Mladić a Srebrenica. Non dovrebbe applicarsi lo stesso principio anche al caso kosovaro? Non sono Parigi, Berlino, Roma, Londra, Washington allo stesso modo colpevoli per aver promesso sicurezza a tutti i kosovari e non essere poi riusciti a garantirla?
Avendo permesso che questi crimini accadessero, non è la comunità internazionale responsabile per aver fallito completamente – fino a ieri – negando alle vittime qualsiasi forma di giustizia? I settori della polizia e della giustizia sono stati nella mani della comunità internazionale (UN e UE) tra giugno 1999 e giugno 2014. Come ha potuto la comunità internazionale consentire un tale livello di impunità? Come ha potuto permettere un "clima di intimidazione" tanto pervasivo da essere costretta essa stessa a trincerarsi, come fa notare anche il rapporto SITF?
In modo simile, si può essere sorpresi del fatto che quegli stessi leader dell’UÇK responsabili per questi crimini abbiano goduto dell’impunità, mentre è ancora consentito loro di intimidire i testimoni, di conservare il proprio potere militare, di trasformarlo in potere criminale, politico ed economico, e diventare la classe di governo in Kosovo? Non è proprio questa l’origine dei problemi di governance in Kosovo, denunciati periodicamente dai rapporti ufficiali?
Quali sono allora le cause dei problemi di governo in Kosovo? La "cultura" o le usanze ancestrali dei cittadini kosovari? O il fatto che la passività della comunità internazionale abbia di fatto consentito a un gruppo di criminali di guerra di prendere il controllo delle istituzioni e trasformarle in strumenti di predazione?
Queste sono le questioni che io trovo realmente interessanti: e non se una "manciata" di casi di traffico di organi significhi "quattro", "sei", "tre", o "sette" casi, o se la lotta dell’UÇK sia stata una guerra "pura".
Infine, qualche parola su Eulex. Il rapporto conferma la mia convinzione che Eulex sia stato, e resti, incapace o non abbia avuto la volontà (o entrambe le cose) di indagare e giudicare i crimini svelati da Marty e dalla SITF e che la missione Eulex sia uno strumento imperfetto. Naturalmente nulla di tutto ciò viene detto esplicitamente nel rapporto, dove Eulex non viene menzionata neanche nei lunghi ringraziamenti finali in cui il procuratore capo ringrazia praticamente tutti, dai governi occidentali, alle autorità serbe e kosovare, agli ufficiali di livello più basso della SITF.
Ho ricavato questa valutazione da due elementi: in primo luogo dal fatto che la SITF si descrive come “autonoma” e non parte di Eulex; in secondo luogo, dal fatto che la SITF sostiene di non aver portato alcuna accusa nei tribunali nazionali supervisionati da Eulex, al costo di aver permesso la prescrizione (per alcuni casi minori) durante i tre anni di indagini.
Solo due ragioni possono spiegare questa scelta altrimenti incomprensibile: o la SITF appartiene ad un ordinamento giuridico diverso da Eulex, e di conseguenza non ha potuto avere accesso alle sue corti; oppure la SITF ritiene quelle corti, e i suoi giudici sotto l’egida di Eulex, inadeguati a giudicare questi casi e garantire competenza ed imparzialità sufficienti, ed ha dunque scelto di non usare quelle corti. In entrambi i casi, la mia conclusione è confermata: anche se si tratta della prima motivazione, la stessa UE giudica Eulex inadeguata a trattare questi casi. Altrimenti perché Bruxelles avrebbe deciso di istituire la SITF?
E non si tratta di una conclusione di poca importanza: Eulex è, ed è sempre stata, inadeguata a trattare i casi contro i leader della guerriglia kosovara sui crimini di guerra e probabilmente anche sui reati di corruzione e criminalità organizzata. E infatti Eulex ha istruito ben pochi casi del genere, emettendo assoluzioni per la maggior parte di essi.
La seconda considerazione è che il problema principale riguarda la missione in sé, non le politiche e gli interessi dell’UE: altrimenti non avremmo avuto il pregevolmente onesto rapporto SITF e l’egualmente franco Progress Report della Commissione. Stabilire lo stato di diritto in Kosovo è nell’interesse dell’UE: Eulex ha fallito principalmente a causa di gravi ed irrimediabili inefficienze amministrative a Bruxelles come a Pristina.
L’ultima considerazione riguarda, dunque, il motivo per cui la missione non è stata ritirata dopo l’istituzione della SITF. Parallelamente si pone la questione se abbia senso istituire una corte ah hoc per la SITF piuttosto che rimettere i casi nelle mani dei procuratori kosovari, spiegando loro, così come all’élite politica e ai cittadini dello "stato più giovane d’Europa", che il Kosovo verrà giudicato proprio sulla gestione di questi procedimenti penali. Una strategia che alcuni in Kosovo hanno proposto, e che mi trova d’accordo.
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