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Così finisce la Jugoslavia e cambia il mondo

L’edizione 2013 del Festival Fotografia Europea è stata aperta da una discussione pubblica tra Piero Del Giudice e Dževad Karahasan su Sarajevo, il Novecento e le guerre in ex Jugoslavia. Pubblichiamo il testo base della conversazione tra i due autori tenutasi il 4 maggio scorso a Reggio Emilia

Cosi-finisce-la-Jugoslavia-e-cambia-il-mondo

I testi sono di Del Giudice e Karahasan escluse le citazioni in corsivo e dove altrimenti indicato

 

Abdulah Sidran: 

«Sono tornati quelli che avevamo cacciato nella Liberazione»

«Tutti hanno voluto la guerra»

«Da noi, oggi, c’è l’uomo in transizione, l’uomo nuovo della ex Jugoslavia e dei Balcani. Sulla scala evolutiva di Darwin è a livello del topo: sopravvivere, rubare, uccidere. La sua consapevolezza sociale è a zero, la solidarietà a zero, la gente detesta l’uomo che fa del bene, l’uomo con dei sentimenti deve essere ucciso. Nella transizione non esistono emozioni, non c’è amore, non c’è amicizia. Questo è l’uomo nuovo, l’uomo-topo, l’uomo transitivo »

Il tradimento della sinistra

Quando Ivan Stambolić, già padrino di Slobodan Milošević nell’ascesa e conquista della Lega dei Comunisti serbi, poi Lega socialista, ne prende le distanze (“è salito su un cavallo pazzo che non sa dove lo porterà”), lo chiama traditore e chiama tradimento la svolta nazionalista dell’ex-pupillo. Sintetizza uno scandalo e uno sgomento veri – e segna il proprio destino. È Stambolić a mandare all’inizio Milošević in Kosovo “a mettere ordine in quella provincia turbata dalle violenze nazionaliste dell’etnia albanese e di quella serba”. In Kosovo Milošević poi, nel 1988, nella ‘piana dei merli’, rovescia il tavolo – “nessuno tocchi i serbi” – diventando il leader del nazionalismo serbo e trasformando il partito socialista in nazionalsocialista. È la fine delle ragioni dei padri fondatori, la fine della Jugoslavia. Due anni prima, era comparso a Belgrado e diffuso il Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze. Un documento lungo, prolisso, verboso, firmato da un gruppo di intellettuali guidati dallo scrittore Dobrica Čosić, in cui si afferma la superiorità storica del popolo serbo, quale ‘popolo celeste’. Dal documento prendono tutti pubblicamente le distanze a cominciare da Ivan Stambolić, allora presidente, ma rimane in silenzio Slobodan Milošević, futuro alfiere delle ragioni serbe nella ‘piana dei merli’.

Le cose sono poi andate come sono andate e la guerra è entrata nel dettaglio, lì dove appare più atroce: il 25 agosto del 2000, la mattina di una giornata afosa, Ivan Stambolić scompare a Belgrado. Alto, ancora vigoroso, 66 anni, come quasi tutte le mattine fa jogging nel parco Košutnjak – il parco delle Cerbiatte – vicino a casa. Lo vede e lo saluta il portiere del Golf club, lo vedono altri testimoni. Un pulmino bianco lo affianca, scendono alcuni uomini armati, lo stordiscono e sequestrano (i suoi resti sepolti sotto la calce viva nella Fruška Gora dissotterrati qualche anno dopo). Una lupara bianca la cui commissione è ascritta a Mira ‘Marija’ Marković moglie di Slobo, ‘madre di tutti i serbi’, meno riluttante, dunque, del marito alla resa dei conti finale. Il sequestro e l’omicidio ordito, nei mesi cupi del declino della ‘piccola Jugoslavia’.

Goli Otok, il dopoguerra

Abdulah Sidran:

«Secondo le stime sono passate nell’Isola Nuda dalle 35.000 alle 50.000 persone. Il ministro di polizia Ranković in un congresso del partito ha dichiarato: “Abbiamo arrestato almeno il 60% di persone innocenti”.

Monumento a Tito (Foto Danilo Krstanović)

Monumento a Tito (Foto Danilo Krstanović)

Tutti quelli che uscivano da Goli Otok, che venivano rilasciati, dovevano prima firmare due dichiarazioni: che non avrebbero mai nella loro vita detto una sola parola su Goli Otok, che avrebbero collaborato vita natural durante. Chi per sei mesi non contattava i servizi veniva arrestato di nuovo e portato a Goli Otok. Questi che tornavano, li chiamavano i ‘ripetenti’, i ‘replicanti’.

Con le persone sopravvissute a Goli Otok veniva creata la rete dei collaboratori dei servizi. Persone che formalmente facevano gli insegnanti di lettere ma ricevevano dalla polizia i proventi del loro lavoro, che solo collaborando potevano avere una borsa di studio o il diritto di abitare alla casa dello studente, avere un posto di lavoro o… poter pubblicare il primo libro di poesie. Niente era possibile senza la verifica, il benestare, della polizia segreta. Quell’invisibile controllo di cui neanche sapevamo.

Gli anni Settanta

Vladimir Arsenijević:

«La Jugoslavia negli anni Settanta era un paese relativamente felice: fioriva l’industria turistica, l’ecosistema costituiva un orizzonte di natura e un polmone per l’Europa, scuola e sanità all’avanguardia; le rimesse degli emigrati e la loro esperienza fondavano il futuro; le diverse culture presenti una possibilità per tutti e "…per noi, suoi cittadini, in possesso di passaporti che erano liberamente dati a tutti (a differenza di ciò che accadeva nei paesi del blocco Est dove questo diritto era seriamente limitato), ciò significava libertà di movimento. In quel periodo, nessuno ci imponeva particolari regimi dei visti (tranne gli USA e la Spagna, allora fascista)»

Sarajevo centro del mondo

L’assedio di Sarajevo (aprile 1992-febbraio 1996) è il ‘ luogo’ della narrazione drammatica della guerra della Jugoslavia. Qui i media del mondo, qui scrittori, giornalisti, uomini politici, in esercizio perenne. Nessuno che abbia posto in chiaro la domanda: chi ci guadagna, chi ci perde in questa guerra?

Dževad Karahasan:

«Un centinaio di anni dopo la fondazione, la Città ha raccolto uomini di tutte le religioni monoteistiche e delle culture da queste derivate, innumerevoli lingue diverse e forme di vita che queste lingue contengono in sé. È diventata un microcosmo, centro del mondo che, come ogni centro secondo l’insegnamento degli esoterici, contiene tutto il mondo»

Chiedere in Sarajevo assediata chi ci guadagnava, a chi giovavano le migliaia di morti, a svantaggio di chi avveniva tutto ciò, era considerato sconveniente, espressione di un pensiero volgare. Il pensiero dominante, privo di domande: “E’ una guerra etnica, religiosa”.

Eppure la trama è chiara: i comitati e le associazioni di esiliati in America latina, i «profughi per il ritorno», gli ustaša incanalati nei primi mesi del 1945 nelle vie di fuga organizzate dal Vaticano, i loro figli, gli espropriati dal comunismo e i loro eredi, i proprietari nazionalizzati, i loro figli, i titolari di precarie proprietà che ora le rivendicano con i delitti, e quelli che rastrellano titoli di proprietà negli uffici notarili di Spalato, e quegli uffici in piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, appostati alla sbarra di confine del paese socialista a proprietà pubblica in agonia: Mediaset, Intesa, Ligresti, Generali, Telecom, Impregilo e Danone.

Nelle cronache dell’assedio e della guerra civile nessuno affronta il problema centrale, il motore di tutto: la destinazione e la fine della proprietà pubblica nella morente Jugoslavia socialista. Un paese che per mezzo secolo non ha avuto la proprietà privata è impensabile. Tutto passa sotto il cielo di sangue delle guerre etniche.

Dicono Chiesareligionetradizionelingualuogoradici, etnìe e parlano di proprietà collettive da incamerare, di industrie da sezionare, di compagnie telefoniche, elettriche, del gas da privatizzare, di case di cui impadronirsi, di terre, di grandi cooperative agricole dello stato da spartire, di coste da devastare, di fiumi da inquinare.

Etnìa: neologismo che flagella l’informazione e la comunicazione da un paio di decenni. Per i Balcani, ma anche per l’Africa e in generale, si parla di guerre ‘etniche’. Che cosa significhi ‘etnico’ non è chiaro. Se si vuol dire che cittadini di un unico Paese, riferiti ad un unico Stato, abitanti in stessi confini, hanno per quote costumi, culture, religioni diverse, si dica questo. Etnico viene dal greco ethnos, popolo. La coniugazione in voga spinge le diversità culturali, di costume, religiose, idiomatiche verso le differenze razziali. E potremmo aprire una discussione su cosa siano le razze. Forze mediatiche – giornali, televisioni – ci hanno detto e dicono che in Jugoslavia c’è stata una guerra etnica. Non si osa parlare di razze, ma poco ci manca. Eppure nella penisola balcanica tutte le culture sono originate da un popolamento della penisola da parte di tribù slave nel V° e VI° secolo. Questa è l’origine comune di un Paese che ha avuto più o meno la stessa Storia e più o meno ha usato la stessa lingua. Paese che è durato circa 85 anni (dal 1918 sino alla fine anche formale nel 2003, certo collassato negli anni Novanta). Se si pensa che abbiamo festeggiato il 150mo dell’unità d’Italia, si può anche pensare che la Jugoslavia non era poi una presenza così storicamente precaria come oggi ci si ostina a descriverla.

I signori della guerra

Ora che – alla fine di un’ultima stagione di delitti – ‘Slobo’ (Slobodan Milošević) è morto, occorre dire che il suo potere si basava su una delega, a tratti illimitata, che per quattro scadenze elettorali gli è stata consegnata dal popolo serbo. Il nazionalismo abitava largamente la Serbia prima di lui. Nazionalisti gli intellettuali dell’Accademia delle Scienze di Belgrado che nell’86 avevano pubblicato il noto Memorandum – documento di rivendicazioni, autoreferenze e destini storici a nome del popolo serbo – nazionalista la chiesa serbo-ortodossa.

Milošević segue la corrente e ne adotta parole d’ordine, arma la secessione in Croazia e in Bosnia, individua nelle bande paramilitari gli strumenti per condurre le pulizie etniche nelle repubbliche vicine e formalmente stare fuori dai conflitti. Insieme a lui nei Balcani agiscono altri ‘bani’, il primo tra questi è Franjo Tudjman, guida del nazionalismo croato. Aljia Izetbegović – presidente della Bosnia Erzegovina in guerra di un governo ‘di Fronte’ dal partito musulmano ai socialdemocratici (ex-comunisti) – se non è un “signore della guerra” come i suoi due vicini, si rassegna rapidamente ad una divisione etnico-nazionalista dei Balcani ripiegando sul progetto di una piccola Bosnia musulmana.

Il collasso del sistema e il dark side

I grandi pensionati dell’industria pubblica, i dirigenti, i tecnici, si trovano con un pugno di mosche a fine mese. I dinari color rosa salmone vengono bruciati nelle stufe artigianali. Collassa il sistema e collassa un mondo. Persone cercano erbe commestibili lungo i fossi, molti si suicidano come il prof. Jurai Marek, molti vanno incontro ai cecchini e vecchi nelle cascine sotto l’Igman impazziscono, escono dai recinti mulinando le asce. Le madri offrono le figlie sotto la neve vicino all’Alipašina džamija. Nell’angolo di un piccolo mercato, dove sono cadute due granate, nevica e quando si cammina nella neve l’impronta diventa per qualche momento rossa di sangue.

Paraolimpiadi (Foto Danilo Krstanović)

Paraolimpiadi (Foto Danilo Krstanović)

Fuori, oltre le piste in disuso dell’aeroporto, alle bocche del tunnel dove centinaia di uomini aspettano distesi sui terrapieni di entrata e mentre dentro le bocche la condensa dei fiati appanna la vista e gli occhiali, nella piana tra Dobrinja, Hrasnica e l’Igman l’immenso mercato di ombre prende forma e scompare nella notte. Un popolo di ombre e di corpi neri in movimento con sacchi sulle spalle, bande di tela alla fronte e ceste, la moltitudine del markale notturno a ridosso dell’assedio, illuminata dai traccianti e dai colpi di katiuscia che illuminano per un tratto la notte, la densità umana, la piana. Vecchie dentro scialli sopra dei carri, uomini a improvvisati banconi di alimentari, piccole botteghe interrate al chiaro di lanterne a petrolio piene di patate – il prezzo sei volte in meno che dentro la città assediata – a portata di mano coltelli lunghi come scimitarre, sherpa che vanno e vengono con sacchi sulle spalle.

Nell’epico conflitto, nella difesa repubblicana della città, il mondo grande della sopravvivenza è il dark side. Il lato oscuro dei capibriganti della prima ora. Le loro figure ardono ancora nell’immaginario popolare. Nel cielo del mito ci stanno subito loro, i briganti autoeletti ‘generali’ delle prime settimane. Sono emersi dal nulla, sono evasi dalle carceri dello Stato abbandonate da direttori e guardie, o sono stati liberati dalla pena con un atto del neostato sovrano, trasformati in combattenti che stanno in bilico tra banditismo e nazionalismo. Mušan ‘Caco’ Topalović – per un anno copre il fianco del Trebević, un settore strategico della difesa della città. Rifiuta di entrare nell’esercito regolare con le sue truppe, non più protetto dal presidente Alija Izetbegović, viene arrestato nell’ottobre 1993 dopo la battaglia della ‘Pivara’ (la fabbrica di birra). Ammanettato dentro una macchina della polizia bosniaca viene ucciso con un colpo alla testa “mentre tentava di fuggire” e sepolto in un luogo sconosciuto. Jusuf ‘Juka’ Pražina che, cacciato dalla città promette “tornerò a Sarajevo su un cavallo bianco”, ma viene ucciso con un colpo alla testa dai servizi segreti bosniaci in Belgio. Juka per poche settimane è ‘re di Sarajevo’ ed è garante anche degli accordi tra famiglie che si affidano i rispettivi appartamenti con mobili e arredo vario, trasferendosi di settore – dalla parte bosniaca a quella serba e viceversa. Vivrà più a lungo Ismet Bajramović ‘Ćelo’, si ha paura a pronunciare il suo nome nella città assediata. Ćelo colpito da un cecchino durante l’assedio, viene soccorso e curato in Italia e sopravvive. Sarà ucciso in un’imboscata nel dicembre 2008 sulla porta di casa, nel centro di Sarajevo. I resti mortali di Caco ricompaiono a guerra finita, nell’inverno del 1996. Dissepolto, viene celebrato con un rito funebre degno di uno šehid, un martire dell’Islam. Il suotabut coperto dal lenzuolo bianco esce dalla grande e seconda moschea della città, la Careva, seguito da una folla di ventimila persone. È la più grande manifestazione politico-religiosa che si ricordi in Bosnia. Il corteo funebre attraversa tutta la città vecchia sino al cimitero degli eroi, quello di Kovači, il tabut passa di spalla in spalla per tutto l’antico quartiere di Bašćaršija. Ladženaza di un šehid, il funerale di un martire dell’Islam. La banda di Caco godeva di duplice fama: difensori del Trebević e criminali. La dženaza di riabilitazione si svolge a poche centinaia di metri dal luogo – il Gradski Park – dove sono ancora sepolti i giovani poliziotti che nella battaglia della resa dei conti sono caduti sembra proprio per mano di Caco. Uno di essi era figlio di Hebib, ministro degli Interni al tempo del disseppellimento e pubblico funerale. Hebib non reagì e tacque, allibita, la città.

Le ragioni della fine

Perché la Jugoslavia è nata e perché è morta? Nasce sulla base del sogno e del progetto egualitario che si oppone nei Balcani all’occupazione e all’ideologia elitaria del nazifascismo. Il sogno del nazifascismo è quello di una società servile: élites proprietarie e schiavi; quello del fronte antifascista – in cui i comunisti hanno un ruolo egemone – quello di una federazione repubblicana plurietnica, con eguaglianza di condizioni, di diritti e di doveri. Già questo impone una riflessione: c’è un momento nella storia del “secolo breve” in cui quote grandi di umanità immaginano una società di eguali, una vita insieme tra diversi come fondamento. Uno spazio dove la proprietà è di tutti. Dove i diritti primari sono assolti dallo Stato, il proprietario collettivo. E tutta l’immaginazione, tutti i sacrifici, tutta la riflessione di quegli uomini e quelle donne si rovescia – con semplificazioni cui sembrava facile irridere – in questo sforzo collettivo: l’autogestione, la parità di genere, la pace internazionale, il passaporto a tutti, la libertà di circolazione e via dicendo. Anche con notevole successo – anni Sessanta e Settanta dirsi “jugoslavo” era motivo di interesse e orgoglio. Avere nostalgia di quegli anni e di quelle speranze è oggi, nei Balcani frammentati dalla privatizzazione e dalle oligarchie e satrapìe etniche,eretico. La Jugoslavia collettiva muore per il semplice fatto che se ne decide la spoliazione e spartizione ad uso privato, per gruppi. E’ stata guerra crudele per la roba tra i suoi popoli per dieci anni, sub specie etnica, ad uso e in nome di.

Sarajevo 2005, concerto dei Bjelo Dugme (Foto Danilo Krstanović)

Sarajevo 2005, concerto dei Bjelo Dugme (Foto Danilo Krstanović)

La fine della ex-Jugoslavia è dovuta ad un assalto selvaggio alla proprietà pubblica e impersonale: dal suolo all’etere, dai fiumi alle ferrovie ai giornali alla televisione di Stato. Nessuno presidia il principio e l’utilità di una proprietà indivisa, di tutti, non lo fanno neanche gli studenti belgradesi primi a insorgere contro Milošević nell’inverno del 1996, cortei nel gelo ‘protiv mašina’ contro la ‘macchina’, l’apparato, la nomenklatura del partito riciclata nelle varie opzioni comunitarie. Ai giovani che combattono e muoiono per la difesa di Sarajevo, Alija Izetbegović – il Presidente devoto che va in moschea con la tunica bianca, la djellaba, vive in un piccolo appartamento di casa popolare ed è padre di Bakir (ora a capo del partito musulmano) l’architetto che gestirà i fondi di tutta la ricostruzione – consegna lettere di creditomensili di qualche centinaio di marchi. Serviranno al riscatto della casa a fine guerra. Subito dopo la pace di Parigi, firmata nel dicembre del 1995, comincia il mercato delle ‘lettere di credito’: vengono rastrellate alla metà, a un quinto, a un decimo e meno del loro valore nominale. Soldi subito, pochi, una manciata, per chi è vivo e deve sopravvivere, emigrare e per eredi storditi. Una montagna di carta straccia immessa poi nel mercato immobiliare, acquistando alle aste truccate i grandi stabili di Stato, quartieri, alberghi come l’Holiday Inn, la restituzione dei beni alle Chiese, anche alle compagnie dei francescani… Non è che un esempio, atroce, quello delle ‘lettere di credito’. Chissà che non si svegli qualche storico, qualche inutile Istituto di Storia, che – ignorando il folklore e le ovvietà – cominci a raccontare le ragioni di base di questa tragedia, a partire dalle mappe catastali e dai passaggi di proprietà.

I miti fondativi della famiglia cambiano. Torna la roba

Il nonno diventò proprietario di una quarantina di dulum (ettari) di terra fertile lungo il corso del fiume

Trebišnjica e sul versante montenegrino acquistò parecchi ettari di terreno boschivo e da pascolo”.

Così l’incipit della Città nello specchio di Mirko Kovać (Zandonai, 2009), autore che aveva destato più di un interesse a fine anni Sessanta con il romanzo epistolare La vita di MalvinaTrifković. Un romanzo familiare che inizia con un’elencazione proprietaria è un classico nelle letterature occidentali, ma è novità nei Balcani. Ecco di nuovo, nel doposocialismo: la terra, la casa – in pietra – il bestiame a segnare le cadenze, lo scopo, la buona o la cattiva sorte, del sodalizio familiare. Precedenti però di segno opposto: un piccolo capolavoro è Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale di Bora Ćosić, pochade esilarante, storia di una famiglia piccolo borghese che fa il percorso inverso: dal liberismo al socialismo. Tutti alla ricerca dell’identità.

Abdulah Sidran ha portato a termine il ‘romanzo dei Sidran’ (Si acquistano pelli grezze). La scena è occupata da una famiglia operaia – due fratelli, zii dell’autore, morti nella resistenza, uno, il tipografo, nel campo di prigionia e sterminio di Jasenovac in un tentativo di fuga a nuoto nella Sava. Il terzo fratello è il padre, metalmeccanico, attivo nella clandestinità, comunista, eminente uomo politico nelle istituzioni della Repubblica di Bosnia Erzegovina (ministro del Lavoro) nel dopoguerra, incarcerato come cominformista nell’aprile del ’49 – “con tutto me stesso amo più la merda russa della torta americana (Mihajl)” – recluso nel campo di lavoro forzato e di ‘rieducazione politica’ di Goli Otok (Isola Nuda). Romanzo familiare, dunque. Ma la famiglia Sidran è inscritta nella storia della Jugoslavia. Come altre famiglie portante la storia della penisola balcanica, parimenti attraversate dal destino, dalla storia e dalla parabola tragica della Prima e della Seconda Jugoslavia. Queste e altre famiglie visibili nella storia recente e nelle cronache del secolo dei Balcani erano famiglie dentro classi sociali emergenti: operaie, intellettuali, microproprietarie, piccola borghesia funzionaria e micromercantile. Il rapporto familiare è culturale, morale. L’individuo si rapporta non alla famiglia ma a una identità collettiva, storica, dentro un mondo nuovo. Jurai Marek – pedagogo e mentore del nostro Autore, milita nella Resistenza e rimane immobile e sull’attenti quando viene catturato e fucilato dai partigiani il padre ustaša. È assente la metafora identitaria della roba, perché la proprietà non c’è. La proprietà, il mastice che salda e oggettiva il legame familiare e lo tramanda, la traslazione e la metafora proprietaria, sono – appunto – dell’aristocrazia agraria, latifondista, cortigiana e della borghesia mercantile dei grandi romanzi borghesi del secolo scorso e dell’Ottocento (i Buddenbrok, gli Uzeda de I Vicerè, i von Esenbeck di La caduta degli dei, i mastro don Gesualdo).

E siamo alla poltiglia attuale. Gli spazi repubblicani e a-nazionali come tanti in Jugoslavia e a Sarajevo volevano costruire – tra questi Zradvko Grebo, che scrive la prima bozza di Costituzione a-nazionale della repubblica di Bosnia Erzegovina dopo il referendum di sovranità – o Ante Marković che tenta la via della Confederazione delle sei repubbliche federate, sono chiusi.

Dayton è la certificazione e il sigillo, in Bosnia e in tutta la penisola, della partizione monoculturale (‘monoetnica’).

Gli Imperi hanno imboccato la strada della frattalità globale. Micro e macrodivisioni sono messe di continuo in campo – nella crisi – per frammentare e implodere la moltitudine degli oppressi. Si alimentano i fondamentalismi e le contrapposizioni religiose. Si accendono i falò delle identità ‘etniche’ e religiose, si contrappongono gli uomini alle donne, le comunità alle aree culturali, i giovani ai vecchi, e si armano i terrori.

La battaglia per la pluralità iniziata sulle mura di Sarajevo assediata continua.

Dalla crisi si esce in due modi: un sistema elitario gestito da una manifesta minoranza (l’1% o il 10% che sia) con uno sfruttamento globale di braccia, menti e risorse, piramidale; oppure con il progetto e prime pratiche di un mondo nuovo, nuove plurali relazioni, un consorzio umano nuovo.

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