Che fare, a Bucarest – III
Un nuovo e lungo reportage sull’arte contemporanea nei Balcani. Dopo Belgrado e Novi Sad Luca Arnaudo, scrittore e critico d’arte, va alla scoperta di Bucarest. L’incontro con Florin Tudor che da tempo si dedica allo studio dell’architettura come funzione ideologica della società
Di Luca Arnaudo*
"L’arte può aiutare la società attraverso i suoi valori che non sono andati persi col tempo, perché senza questi valori spariscono le tradizioni, sparisce tutto…"
Anche se visto dalla prospettiva siderale di una fotografia satellitare, la Casa Poporului voluta dal dittatore Ceauşescu appare in tutta la sua spropositata eccezionalità, alla cui definizione contribuì tra il 1981 e il 1988 il lavoro di oltre duecentomila operai e quattrocento architetti. Il terreno necessario al progetto fu liberato radendo al suolo oltre 40.000 edifici, per una superficie complessiva corrispondente a quella dell’intera città di Venezia. Appartato nella sua soffitta invernale e parigina dove temperava i pensieri fino a ridurli a punte acuminate da tirare sulla carta geografica della Romania, abbandonata da tempo ma sempre rimasta nei paraggi del cuore, Cioran si trovò a scrivere già negli anni cinquanta che "alla lunga, la vita senza utopia diventa irrespirabile, per la moltitudine almeno: a pena di pietrificarsi, c’è bisogno al mondo di un delirio nuovo. Questa è l’unica evidenza che regge l’analisi del presente" (1) . E’ triste e curioso insieme come, ancora negli anni ottanta nel cuore dell’Europa, un dittatore megalomane potesse costringere un paese intero a edificare un monumento al proprio delirio e a un’idea distorta di utopia, con il plauso dai controllori dell’ordine politico mondiale: ma questo è naturalmente un pensiero che travalica i limiti delle pagine presenti.
Nella realtà fisica, il palazzo impressiona prima di tutto per il totale distacco dal circondario, una sorta di spazio lunare che, solo negli ultimi tempi, l’edilizia civile sta timidamente cercando di ricolonizzare con alcuni avamposti. Dal 2004 un’ala dell’immenso edificio – che pure ospita il Parlamento nazionale – risulta occupata dal MNAC, il nuovissimo museo nazionale di arte contemporanea. La collocazione, come immaginabile, è stata al centro di feroci polemiche (2), e con spregiudicata intelligenza la direzione del museo ha pensato bene di dedicare la prima mostra proprio al palazzo di Ceauşescu e alla sua percezione attuale. Romanian artists (and not only) love Ceauşescu’s Palace? era il titolo dell’esposizione, che ha anche fornito la prima selezione ufficiale di giovani artisti rumeni (tra cui il solito Vlad Nanca, per l’occasione artefice di una proposta di riconversione dell’edificio volta a evitare la realizzazione di un progetto di costruzione, in un’altra area della città, di una gigantesca chiesa ortodossa).
Altro partecipante alla mostra era Florin Tudor, ora apprezzato junior curator presso il MNAC. Insieme alla moglie Mona Vatamanu, Florin si dedica da tempo allo studio dell’architettura come funzione ideologica della società, riservando un’attenzione particolare per Bucarest. La capitale rumena, mi racconta l’artista mentre ne godiamo il panorama dalla terrazza del museo, è uno spazio privilegiato per un progetto del genere perché rappresenta una combinazione brutale e al contempo affascinante di città tra loro del tutto diverse, realizzata secondo una progressione storico-edilizia asservita a fini politici che hanno comportato, al posto di uno sviluppo anche minimamente armonico, una sovrapposizione continua a suo modo grandiosa. Il vecchio conglomerato urbano sedimentatosi nei secoli è stato così sostituito a fine ottocento da grandiosi boulevard e sfarzosi palazzi à la Viollet Le Duc – c’è stato un tempo in cui Bucarest, con la proverbiale assenza di fantasia geografica propria delle promozioni turistiche, veniva chiamata la Parigi dell’Est – a loro volta rimpiazzati dai caseggiati di cemento che, in particolare dagli anni settanta, hanno idealmente lastricato la via della dittatura di Ceauşescu fino all’ultima Casa del Popolo. La cosa impressionante è che una simile operazione di schiacciamento visivo del vecchio per opera del nuovo prosegue tuttora, per di più accompagnata da un sacco immobiliare che ha rapidamente portato i prezzi delle abitazioni di Bucarest ai livelli impossibili delle maggiori capitali dell’Unione.
Persepolis è il titolo che Mona e Florin hanno dato allo studio che da alcuni anni stanno conducendo sulla modularità e le mutazioni operative dell’architettura a Bucarest, sforzandosi di definire il passaggio – graduale o sovvertitore a seconda dei casi – dalle strutture asfittiche del periodo comunista a una percezione per così dire emotiva della città nel suo sviluppo, sullo sfondo delle rivoluzioni sociali succedutesi nel paese. Il titolo prende spunto dal nome di un albergo costruito alcuni anni or sono a Pipera, un sobborgo della capitale che ha assunto col tempo l’aspetto sempre più esclusivo e minaccioso di una riserva per ricchi. Anche l’ingresso nelle strade di questa zona, mi racconta Florin, è controllato, e scattare fotografie alle costruzioni può creare serie difficoltà con le agenzie di sicurezza che verificano ogni movimento. Ad ogni buon conto, l’hotel ha un sito internet che ne mostra interni ed esterni con grande dovizia di particolari, consentendo a chiunque di apprezzarne, almeno a video, l’impianto risolutamente improbabile (3). Progettato con un richiamo esplicito all’architettura babilonese, l’albergo si presenta come uno stupefacente trionfo del kitsch: marmi e fontane, stucchi e giardini pensili s’intrecciano intorno ad ascensori di cristallo, ziggurat posticce e reception multimediali dando un’impressione, perlomeno fotografica, di confusione stordente. Alla coppia di artisti rumeni non interessa, tuttavia, l’aspetto d’immediata arroganza del complesso, bensì la presenza caotica di nuove influenze, la ripetizione cioè di un modello di sviluppo costruttivo che continua a fare di Bucarest un laboratorio architettonico quasi sempre inadatto ai reali bisogni della società, dove portentosi sfarzi di cattivo gusto e/o megalomania vengono eretti a poca distanza da edifici pericolanti, abitati con mezzi di fortuna. Ancora, interessa verificare la persistenza di una carica utopica nell’architettura, una tensione a re-immaginare e ricostruire la presenza umana in uno spazio come quello della capitale rumena, che il vuoto fisico – dopo le demolizioni del regime – e ideale lasciato dagli eventi storici recenti rende assolutamente straordinario (4).
(…continua)
Note:
1. Emil Cioran, Sur deux types de societé, in Histoire et utopie, Gallimard, Paris 1987 (il testo originale risale al 1957), pag. 18.
2. Nel tentativo di considerare in maniera più distaccata tale soluzione logistica, un critico ha rilevato intelligentemente come "La questione dello scheletro costruttivo della Casa del Popolo e le capacità ingegneristiche che hanno reso possibili le stupefacenti modificazioni nel sito dove è stato edificato, indirizzano a interpretazioni che l’inserimento del MNAC annunciano e confermano. Aprono anche un capitolo interessante per speculazioni teoretiche sulle relazioni tra le tecnologie degli edifici sovradimensionati, le ultime utopie urbane e le iniziative totalitarie in architettura" (Mariana Celac, Before and After MNAC – at the People’s House, nel catalogo annuale del MNAC, Bucharest 2004, pag. 74). Le attività del museo possono essere seguite agevolmente nel sito http://www.mnac.ro/events%20main.htm.
3. Vd. http://www.bucharestpersepolis.ro/.
4. Al riguardo, è interessante lo studio fotografico che Mona e Florin stanno conducendo sull’area di Buzesti, una zona disastrata di Bucarest in cui l’architetto Dan Dinoiu è intento a progettare nuovi edifici popolari. Come si legge nella dichiarazione contenuta nel sito dei due artisti, "Proprio come prima della seconda guerra mondiale, l’architettura di oggi è generata da bisogni economici ma, a differenza del precedente periodo socialista, ha un approccio differente all’utopia. Dan Dinoiu ha detto una volta qualcosa a proposito del fatto che non c’è architettura senza utopia. Forse per questo siamo tanto interessati a registrare la costruzione di una nuova cosa, un’altra aggiunta al tessuto urbano preesistente" (http://www.exapes.org/persepolistext.html).
* Scrittore, traduttore, giurista e critico d’arte, vive e lavora a Roma. Nel 2005 ha pubblicato il libro Atelier Nord (ed. Nerosubianco). Per l’Osservatorio sui Balcani ha scritto, sempre nel 2005, un reportage in cinque puntate su arte e artisti in Serbia.
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua