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Che fare, a Bucarest – II

Un nuovo e lungo reportage sull’arte contemporanea nei Balcani. Dopo Belgrado e Novi Sad Luca Arnaudo, scrittore e critico d’arte, va alla scoperta di Bucarest. Vlad Nanca e trent’anni alla guida di una Dacia: la seconda di quattro puntate

23/01/2006, Redazione -

Che-fare-a-Bucarest-II

Di Luca Arnaudo *
Vai alla prima puntata
"Quelli che fanno cose del genere dovrebbero sapere bene come farle… Intendo dire la moralità di raggiungere il cuore del rumeno che, penso, è ancora una persona chiusa… da un punto di vista sociale, politico ed economico."

Prendiamo ad esempio Vlad Nanca, che mi accoglie con grande disponibilità in una sera piovosa di agosto nel suo bell’appartamento in Calea Grivitei, presentandomi alcuni suoi progetti in corso o già conclusi. Comincia da uno slide show realizzato un paio di anni fa con il montaggio di un gran numero di immagini scattate per le vie di Bucarest all’automobile rumena per antonomasia, quella Dacia di cui Ceauşescu acquistò il modello dalla Renault negli anni settanta e poi rimasta in produzione sino ad oggi con modifiche estetiche trascurabili. La serie Dacia – 30 Years of social History presenta numerose varianti dell’auto, ora frutto dell’intraprendenza estetica dei proprietari, ora più semplicemente in vari colori o divise di corpi di polizia: con una lenta ma inesorabile progressione, le Dacia parcheggiate in posti diversi della città si sostituiscono l’una all’altra fino a dare l’impressione di essere in movimento e accelerare sempre più. Tutto all’apparenza si muove, ma la macchina resta ferma così come ciò che le sta intorno, con la metafora a correre dietro al mezzo immobile. Al contempo, l’automobile rappresenta un’allegoria potente della confusione politica e ideologica che ha caratterizzato la storia recente della Romania: mentre nel nome si riferisce alle radici più profonde del popolo rumeno, nella realtà dei fatti è un modello importato (la vecchia Renault 12) e per di più obsoleto, simbolo amaramente ironico di un’endemica arretratezza e dipendenza culturale dall’esterno.

Negli ultimi tempi Vlad sta lavorando sull’idea e la nozione di terrorismo, sempre giocando sull’instabilità del senso comune e l’ingannevolezza delle apparenze. In una mostra allestita nell’aprile 2005 all’interno della casa di un amico artista – pratica che, mi dice, ha un crescente successo anche perché consente di ovviare alla scarsità di spazi espositivi dedicati all’arte contemporanea nella capitale – ha tappezzato le pareti con immagini che ritraggono figure mascherate. Il passamontagna bianco dei terroristi baschi si alterna così a quello (sempre bianco ma ignifugo) di Michael Schumacher, maschere di bellezza rubate dalle pagine di riviste patinate danno il cambio al cappuccio del subcomandante Marcos o al volto nascosto di un kamikaze mediorientale. L’idea che mi presenta Vlad, tra il serio e il divertito, è che l’industria della bellezza e del petrolio – giusto per citare le prime che vengono in mente dinanzi alle fotografie – possono avere a che fare con il terrorismo più di quanto ordinariamente venga da pensare: anzi sono anch’esse una forma di terrorismo, soltanto più sofisticata e con migliori esperti d’immagine a disposizione.

Un altro progetto ancora riguarda la funzione di condizionamento e indottrinamento culturale delle bandiere. Mi racconta l’artista che l’idea di I do not know what Union I want to belong to any more gli è venuta quando si è recato all’ufficio dell’anagrafe per registrare la nascita del figlio e si è sorpreso a trovare, incombente sull’impiegato dietro lo sportello, un enorme stendardo blu dell’Unione Europea nello stesso posto dove fino a qualche anno prima, pendeva la bandiera rossa del partito comunista. Anche quando ci si sposa in Comune, mi dice, il pubblico ufficiale sta tra la bandiera della Romania e quella europea, rapido sostituito del drappo scarlatto prima onnipresente. La proposta di Vlad è stata dunque di combinare la bandiera dell’Unione a quella comunista, stagliando il cerchio stellato dei Paesi europei su un fondo rosso e, su campo blu, una falce e martello riportati a rinnovato sventolìo. Idea, un’ottima rivista d’arte contemporanea prodotta a Cluj, nel 2004 ha inserito in un suo numero una bandiera double-face di Vlad, realizzata sul modello di quelle che si appuntano sui panini imbottiti, solo un po’ più in grande: pare che l’omaggio abbia avuto molto successo tra i lettori. Sicuramente polemiche ha invece riscosso l’imbandierata realizzata dall’artista a Bratislava sempre nel 2004, proprio quando da quelle parti passava in visita ufficiale il presidente del Parlamento Europeo Pat Cox (1).

L’ironia stradale è peraltro uno strumento di cui Nanca si avvale spesso, come dimostrano i numerosi graffiti realizzati un po’ ovunque a Bucarest a colpi di spray nero su sagome di cartone (uno dei più recenti rappresenta un Bin Laden intento a declamare "In God we trust"). Mentre mi mostra al computer una serie di scritte e disegni fotografati per le strade, Vlad considera serio come chi si dedichi ai graffiti debba avere una conoscenza perfetta della topografia metropolitana, una sorta di rispetto per la forma della città che la maggior parte dei cittadini di solito non ha, e questa mi sembra una riflessione molto giusta. In più, un graffito è anche un modo efficace per levare e far circolare rapidamente una protesta: ad esempio contro l’imbarazzante bruttezza e soprattutto l’ipocrisia del Monumentul Eroilor (monumento agli eroi), fatto erigere in Piata Revolutiei per volere di Ion Iliescu – già alto dirigente del partito comunista, collaboratore di Ceauşescu e attuale presidente della Repubblica – nei ricorrenti graffiti prontamente ribattezzato Monumentul Erorilor (monumento agli errori) a richiamo di sbagli che, nel passato recente del paese, certo non sono stati soltanto architettonici (2).

Vedi, mi dice ancora Vlad mentre mi mostra una serie di graffiti realizzati sul lastrico solare del vecchio ministero dell’economia, un palazzo in pieno centro da tempo abbandonato perché pericolante: con i graffiti si impara a scoprire i luoghi più nascosti della città, e ad amarla ancora di più per la sua bellezza di rovina, una bellezza disfatta e decadente che non permetterà mai a Bucarest di fare la fine turistica di Praga. Non posso che convenire su quest’ultimo giudizio, e finita la bottiglia di birra Ciuc offertami dal padrone di casa lo lascio intento a studiare la morfologia cittadina nelle pagine di Google Map.

Note:
(1) Un resoconto giornalistico della vicenda sta nell’articolo in rete del 2 giugno 2004 Cox’ visit causes disputes on the political scene (http://www.slovensko.com/news/1329

(2) Per alcune dirette considerazioni di Vlad Nanca a proposito del monumento e dell’involuzione subita dallo slancio che caratterizzò la rivoluzione di piazza del 1989, si può visitare il sito http://www.stencil.ro/, ricco anche di diverso materiale relativo alla street art di Bucarest.

* Scrittore, traduttore, giurista e critico d’arte, vive e lavora a Roma. Nel 2005 ha pubblicato il libro Atelier Nord (ed. Nerosubianco). Per l’Osservatorio sui Balcani ha scritto, sempre nel 2005, un reportage in cinque puntate su arte e artisti in Serbia.

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