Tipologia: Intervista

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Area: Kosovo

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Centri anti-violenza in Kosovo: un amaro 25 novembre

Il mese scorso è stata celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Quest’anno la ricorrenza è coincisa in Kosovo con un momento critico per i centri che si occupano di lotta alla violenza di genere e di sostegno alle vittime. Ne parliamo con Naime Sherifi, presidentessa della Kosovo Shelter Coalition

05/12/2012, Francesco Gradari -

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E’ stato un 25 novembre dal sapore amaro e di denuncia quello che le associazioni di donne kosovare impegnate nella lotta alla violenza domestica hanno celebrato quest’anno. Se, da un lato, il Kosovo è riuscito a dotarsi negli ultimi anni di una legge e di un piano nazionale per il contrasto alla violenza di genere, dall’altro, l’assenza di finanziamenti disponibili rischia di far sparire i centri anti-violenza, luoghi sicuri in cui donne e bambini vittime di violenza possono trovare rifugio e assistenza grazie all’azione di altre donne impegnate in prima linea nella difesa dei loro diritti.

Signora Sherifi, come è stato possibile arrivare a questa situazione?

Per i centri anti-violenza sulle donne questo è il momento più critico in assoluto. La drastica riduzione dei finanziamenti disponibili mette a serio rischio la nostra capacità di assistere le donne vittime di violenza e la stessa sopravvivenza del servizio.

Sono tre i fattori principali che hanno determinato la situazione attuale. Innanzitutto, i finanziamenti internazionali si sono drasticamente ridotti dal 2006 a oggi. Sono sempre di meno i donatori internazionali presenti con proprie missioni sul terreno o che considerano il Kosovo come un’area strategica d’intervento. A ciò si deve aggiungere il fatto che per molti di quelli ancora presenti, la lotta alla violenza di genere non è una priorità. In questo momento molti fondi vengono indirizzati su altri settori quali la democratizzazione, le minoranze e lo sviluppo economico.

In secondo luogo, manca la volontà politica da parte del governo e del parlamento di sostenere il nostro operato. Le basi legislative sono state poste, ma l’implementazione della legge e del piano nazionale per la lotta alla violenza domestica non è una priorità per i nostri politici. Quest’estate siamo state costrette a firmare un accordo con il ministero del Welfare in base al quale ogni centro anti-violenza riceverà su base annua 24mila euro. Il paradosso è che questi fondi potranno unicamente essere usati per coprire costi relativi all’assistenza diretta alle vittime di violenza, come ad esempio cibo, vestiti, cure mediche. Il problema è che con quei fondi non possiamo coprire costi di personale: ma come facciamo a fornire assistenza e servizi a oltre 400 vittime all’anno senza operatrici?

Infine, il sostegno politico ed economico che riceviamo dagli enti locali è estremamente ridotto. Il processo di decentralizzazione delle competenze in materia di welfare ha fatto sì che ora siano anche le municipalità a dover farsi carico dei costi relativi ai centri anti-violenza presenti nei loro territori. Quest’anno la mia associazione ha ottenuto per la prima volta un mini finanziamento dalla municipalità di Pristina, ma altri centri anti-violenza non sono per nulla considerati dalle rispettive municipalità. I budget municipali sono estremamente limitati e a livello locale le conoscenze in tema di contrasto alla violenza di genere sono decisamente insufficienti. Il risultato è che anche a questo livello manca la volontà e la consapevolezza politica per investire delle risorse a favore delle vittime di violenza domestica.

Quali azioni avete messo e intendete mettere in campo per tentare di uscire da questa crisi di finanziamenti?

La nostra idea è quella di intensificare l’azione di lobbying nei confronti del governo kosovaro. Con il nostro operato colmiamo un vuoto delle istituzioni pubbliche, che non sono in grado di far fronte al problema della violenza sulle donne. E’ sui nostri politici che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Non possiamo pretendere che la soluzione arrivi dall’esterno.

Nel luglio scorso abbiamo scritto, sotto forma di lettera aperta, un appello al primo ministro nel quale chiedevamo con forza l’istituzione di un fondo interministeriale per la copertura delle spese derivanti dalle attività e dei servizi offerti dai centri anti-violenza. Ad oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta formale.

In che modo le ristrettezze finanziarie attuali si ripercuotono e condizionano concretamente le attività dei centri anti-violenza?

Tutti i centri sono stati costretti a ridurre il proprio personale. Lasciare a casa delle operatrici è stata una scelta dolorosa per ogni coordinatrice. Parliamo di donne fortemente motivate nel portare a termine il loro lavoro e che in questi anni hanno sviluppato molte competenze nell’ambito del contrasto alla violenza di genere. Non è facile fare a meno di questi profili professionali e non ce ne sono tanti in Kosovo.

Ci troviamo poi ad affrontare grossi problemi di liquidità. Nel mio centro (il “Qendrë për Mbrojtjen e Grave e Fëmijëve” di Pristina), ad esempio, stiamo lavorando da dieci mesi a titolo volontario senza percepire il salario. Noi crediamo in quello che facciamo, ma il nostro lavoro è già duro di per sé, senza contare le difficoltà di carattere economico. A livello di motivazioni, questo influisce molto negativamente sullo staff. Le nostre operatrici si trovano in forte difficoltà con le rispettive famiglie nel giustificare un tale impegno in questo settore in assenza di stipendio.

Ma la cosa più preoccupante è un’altra, e non riguarda tanto noi quanto le donne che frequentano e sono ospitate nei nostri centri. In queste condizioni, infatti, è difficile mantenere degli standard di qualità elevati nel servizio che offriamo alle vittime. Le nostre operatrici sono costrette a fare turni di servizio molto più lunghi a scapito della qualità. Abbiamo anche dovuto rinunciare o ridurre alcuni servizi. Ad esempio, sempre nel mio centro, i colloqui delle vittime con la psicologa avvenivano su base settimanale fino allo scorso anno, ora possiamo permetterci di averla con noi solamente una volta al mese quando va bene.

A suo avviso, qual è l’atteggiamento della comunità e delle agenzie internazionali presenti in Kosovo rispetto a questo problema?

Molto donatori, agenzie e ong internazionali arrivano tuttora in Kosovo con programmi di assistenza e cooperazione preconfezionati e pronti all’uso. Molto raramente noi centri anti-violenza, pur essendo i principali e più competenti attori impegnati nella lotta alla violenza di genere presenti sul terreno, veniamo coinvolti nella definizione delle strategie d’intervento e delle priorità di finanziamento. Bandi di finanziamento e progetti promossi da soggetti internazionali in Kosovo vengono definiti senza ascoltare chi lavora ogni giorno sul campo a fianco delle vittime di violenza. Così facendo, i bisogni profondi della comunità e delle donne del Kosovo restano inascoltati. Come Coalizione dei centri anti-violenza del Kosovo (Kosovo Shelter Coalition) abbiamo elaborato recentemente un nostro piano strategico d’azione: quasi nessun attore internazionale ne ha tenuto conto. Questo vale sia per i donatori che per le ong internazionali.

I programmi di finanziamento e di cooperazione internazionale dovrebbero servire a dare un supporto concreto all’azione dei centri. La mia sensazione è che molto spesso si riducano invece a dare visibilità agli attori internazionali stessi, i quali possono così vantarsi di agire in un settore per cui l’opinione pubblica internazionale è molto più sensibile della nostra.

Credo che la comunità internazionale continui ad operare oggi così come faceva nel periodo dell’emergenza, arrivando cioè in Kosovo con soluzioni e schemi predeterminati. Ma la situazione odierna è molto diversa da quella di dieci anni fa: a livello di società civile abbiamo maturato competenze che prima non esistevano e di cui sarebbe opportuno tener conto per poterle valorizzare. Questo è ancor più vero nella lotta alla violenza di genere.

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