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Cannes: la solita Romania

Il 65° Festival di Cannes si è chiuso con il premio per la miglior sceneggiatura a Cristi Mungiu per “Beyond the Hills” e quello per le migliori attrici alle sue protagoniste Cosmina Stratan e Cristina Flutur. Palma d’oro per il miglior cortometraggio al turco “Sessiz-be Deng – Silence” di L. Rezan Yesilbas

31/05/2012, Nicola Falcinella - Cannes

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C’è sempre un premio per la Romania a Cannes, anzi stavolta due. E c’è una piccola Palma per la Turchia. Il 65° Festival di Cannes si è chiuso con il premio per la miglior sceneggiatura a Cristi Mungiu per “Beyond the Hills” e quello per le migliori attrici alle sue protagoniste Cosmina Stratan e Cristina Flutur. La pellicola del più noto esponente del nuovo cinema romeno è stata l’unica a ottenere due riconoscimenti nella serata della prevedibile Palma d’oro all’austriaco Michael Haneke per “Amour” e del Grand Prix a sorpresa a “Reality” di Matteo Garrone.

Sconsideratamente fuori dai premi “V tumane – In the fog” del bielorusso Sergei Loznitsa, uno dei più bei film del festival, ignorato da una giuria (“Nessuna decisione è stata presa all’unanimità” ha rivelato il presidente Nanni Moretti) che ha compiuto scelte condivisibili ma anche degli azzardi. Tra questi l’esclusione anche del visionario “Holy Motors” del francese Leos Carax, omaggio al cinema e alla vita.

Doppio premio

Anche il doppio premio al film di Mungiu è eccessivo. Più che meritato quello alle giovani interpreti (del resto Emmanuele Riva commuovente nel film Palma d’oro non poteva essere premiata ai sensi del regolamento), forzato quello per la sceneggiatura, che non è l’elemento migliore del film.

Mungiu conferma di saper creare situazioni tese, di raccontare ambienti chiusi, rapporti ambigui di amicizia tra ragazze, di avere forza nel raccontare. E di saper trasformare una “piccola” storia un apologo morale con un gran finale e una trovata meravigliosa: il fango che schizza sul parabrezza dell’auto della polizia, intervenuta sul luogo della morte di una delle protagoniste, a indicare che la sporcizia arriva ovunque.

“Sono contento di essere di nuovo qui a ritirare un premio – ha dichiarato Mungiu – Il mio film è ispirato a una storia vera, ci sono persone che hanno sofferto in quella situazione. Spero che si possa rendere la vita un po’ migliore ed è quello che cerco di fare con i miei film”. Cristina Flutur si è limitata a un “grazie Cannes, grazie a chi ha guardato il film con passione. Grazie a Cristian Mungiu per il suo bellissimo modo di lavorare con gli attori”.

Il film ha tra i suoi meriti anche l’essere una delle poche storie di donne tra i 22 titoli in concorso, tutti con la regia di uomini. Da notare che il bravissimo direttore della fotografia di Mungiu, Oleg Mutu, lavora anche con Loznica.

Corti

Palma d’oro per il miglior cortometraggio al turco “Sessiz-be Deng – Silence” di L. Rezan Yesilbas. La storia, ambientata nel 1984 a Diyarbakir, di una donna curda che va a trovare il marito detenuto.

Ha ottenuto la menzione speciale della sezione Un certain regard “Djeca – Children of Sarajevo”, secondo film di Aida Begić. La regista di Sarajevo, che aveva esordito con il bel “Snijeg – Snow”, ha firmato una pellicola completamente diversa. Dalla campagna colorata e filmata in modo calmo si passa alla città invernale dai colori lividi e quasi sempre ripresa in periferia e in notturna. E la protagonista Rahima, 23 anni, aiuto cuoca in un ristorante, è pedinata in maniera nervosa dalla macchina da presa.

Sembrerebbero film di due registi diversi. A unire i due film i protagonisti, donne e ragazzini, i dilemmi sul futuro mentre si avverte il peso del passato (e le assenze: in Snijeg del padre e marito, qui della madre), il velo indossato della protagonista, che nell’Islam avrebbe trovato un suo equilibrio.

Children of Sarajevo

Rahima vive con il fratello Nedim, 14 anni, diabetico e con frequentazioni nella piccola delinquenza. Loro madre è stata uccisa dai cecchini durante l’assedio di Sarajevo e i ricordi appaiono alla memoria con immagini d’archivio del tempo di guerra.

I guai iniziano quando l’adolescente danneggia l’i-phone al compagno di scuola, figlio di un ministro. La scuola convoca la sorella per ripagare il danno. Rahima ha bisogno di una cifra importante e la chiede al proprietario del locale, senza riuscire a ottenerla. In un crescendo di ansia e isteria, la ragazza danneggia l’auto del ministro in un posteggio.

Rahima sembra emarginata perché indossa il velo, ma la sua vita, i suoi gusti non sono diversi da altri coetanei: fuma, ascolta musica occidentale, fa valere i propri diritti. E se rifiuta (forse) l’amore di un amico più grande è solo perché si deve occupare del fratello. Al ristorante lavorano altre persone non ordinarie, cominciando dal gestore Davor, croato e omosessuale, mentre Vedrana è nei guai con il marito fondamentalista wahabita che le ha portato via i figli.

Un film coraggioso e diretto, che non fa mediazioni, che accusa la classe politica e dirigente di corruzione e di farsi gli affari propri e chi sta attorno a loro di alimentare questo clima di scambio di favori e di sottomissione. Un quadro cupo di Sarajevo e della Bosnia, come se la guerra non fosse mai finita, che provocherà qualche polemica in patria. Tanto più che il film della Begić inaugurerà la prossima edizione del Sarajevo Film Festival, in programma dal 6 al 14 luglio.

Nella stessa sezione è passato “Trois mondes” di Catherine Corsini, storia di un pirata della strada parigino che investe di notte un immigrato moldavo sotto gli occhi di una studentessa di medicina. I tre mondi sono quelli del giovane (pronto a sposare la figlia del padrone della concessionaria di auto dove lavora), la testimone e la moglie della vittima, Vera. Un film senza infamia e senza lode, prevedibile nello sviluppo, con l’immigrata che, rimasta vedova, pensa di poter ottenere denaro. La scena più interessante è il colloquio di Vera con i medici per la donazione degli organi: i dottori cercano inutilmente di convincerla che è un atto gratuito, mentre lei vorrebbe venderli e fa un elenco dei prezzi degli organi “al mio Paese”. Nella parte di Vera la convincente attrice kosovara Arta Dobroshi, la Lorna de “Il segreto di Lorna” dei fratelli Dardenne.

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