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Bosnia: la campionessa di ping pong

Una storia familiare incrocia quella di un paese intero, la Jugoslavia degli anni sessanta. Due ragazze come tante diventano campionesse nazionali di tennis da tavolo e il ping pong assurge a simbolo di uno stile di vita ormai passato

26/07/2013, Azra Nuhefendić -

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A mia sorella Naida

Mancava un quaderno, una bambola, di quelle all’antica, di cartapesta che, se si lavano (come ho fatto io), si sciolgono come zucchero nell’acqua. Erano spariti i dolci fatti in casa e messi su un’alzatina in vetro. La porta della casa non era forzata. Fu stabilito che il ladro bisognava cercarlo nel vicinato. Infatti, mi hanno scoperto subito: giocavo con la bambola rubata, e poi quel giorno non avevo pranzato, sazia dei dolci che avevo divorato.

Avevo nove, forse dieci anni, quando tentai la professione di ladra. Era una giornata di noia mortale e, tornata da scuola, mi sono sporta fuori dal nostro balcone e ho scavalcato quello dei vicini che abitavano sullo stesso pianerottolo.

La casa dei vicini la conoscevo bene perché, una volta, tra vicini c’era molta familiarità, era un continuo entrare gli uni a casa degli altri per qualche favore: prendere in prestito un po’ di sale o due uova che ci mancavano… Nell’appartamento, identico al nostro e, a mio avviso, meglio arredato, giravo, toccavo e guardavo gli oggetti a me noti. A un certo punto ho sentito il campanello alla nostra porta, sono tornata indietro aggrappandomi alla ringhiera esterna dei due terrazzini, ho aperto la porta a Naida, la mia sorella maggiore che tornava da scuola e, non so come, l’ho convinta ad accompagnarmi in quell’avventura. Abbiamo scavalcato insieme il terrazzino e ci siamo messe a gironzolare nell’appartamento dei vicini. Poi siamo tornate a casa nostra, come se niente fosse.

La via che ho percorso per ben quattro volte, era al terzo piano, a un’altezza di circa 10 metri. Non mi ricordo di aver avuto paura, o terrore – cosa che, probabilmente, provarono i nostri genitori una volta saputo cosa avevamo combinato. Dalla pena capitale (presumo impiccagione, o almeno cento frustate sulle piante dei piedi) io e mia sorella ci siamo salvate grazie alla vicina, una maestra, che supplicò nostro padre di non essere severo con noi. Finì che per una settimana ci fu proibito di giocare fuori, e per tre giorni consecutivi dovevamo stare in ginocchio, per mezz’ora, su dei chicchi di mais.

A distanza di anni dall’evento, quando ci penso, il più grande mistero per me non è di come facessi a essere così spericolata passando da un terrazzino all’altro a un’altezza di 10 metri – ma come fossi riuscita io, più piccola, a convincere mia sorella Naida a seguirmi in quella disavventura. Non tanto perché lei era più grande di me, ma per il suo carattere – lei è sempre stata una persona tranquilla, riflessiva, equilibrata, molto sensibile verso gli altri, pacifica e, complessivamente, aveva qualcosa in sé di raffinato. Infatti, quella – che io sappia – è stata l’unica macchia legata al suo nome, che per anni è stato poi associato a quello di campionessa.

Alcune direttive del Partito comunista, quelle non strettamente politiche, erano realizzate dalla SSRN – l’Alleanza socialista del popolo lavoratore (Socijalistički Savez Radnog Naroda). Secondo la definizione ufficiale la SSRN comprendeva vari interessi del popolo: politici, culturali, sportivi, religiosi etc. ma, in effetti, doveva sostituire il multipartitismo. Era una sorta di palcoscenico, dove si poteva discutere, ottenere l’ascolto e magari l’appoggio alle proprie idee.

All’inizio degli anni sessanta la direttiva era di sviluppare lo sport e coinvolgere più giovani possibili. Il tennis era considerato uno sport per borghesi e, come tale, scartato. Invece il tennis da tavolo (oppure ping-pong, che è il nome onomatopeico), andava bene. È uno sport per il quale non occorrono tanti soldi il che, forse, all’epoca, era stata la cosa decisiva. Però il tennis da tavolo richiede il massimo livello di abilità e concentrazione fisica e mentale, pazienza, nervi saldi, tenacia. Tutto quello che mia sorella Naida possedeva. Aveva dodici anni quando ha iniziato a giocare al tennis da tavolo. Discreta com’era, ci siamo accorti che era brava solo dopo che aveva vinto i vari campionati, e dopo che nei quotidiani erano apparsi i primi articoli sui suoi successi.

Per il tennis da tavolo la SSRN aveva messo a disposizione dei giovani una sala in una baracca. L’unica cosa che la faceva idonea per lo sport era la sua ampiezza. La sala era al pianoterra, senza riscaldamento, né bagni per lavarsi dopo aver sudato, due tavoli da tennis nel mezzo, e alcune sedie lungo la parete. All’inizio giocavano solo i maschi perché le ragazze non erano interessate. Il che non andava bene, secondo la politica ufficiale. Perciò, la direttiva fu modificata, e l’allenatore Asim Sakić, detto Aco, andò nella scuola locale “Boriša Kovačević” a cercare ragazze sportive. Delle quindici scelte se ne erano distinte due: Naida Nuhefendić e Slobodanka Kokotović. Ben presto, riuscirono a vincere tutti i campionati della Bosnia Erzegovina e, per un decennio, furono tra le migliori giocatrici nazionali del tennis da tavolo.

Le due campionesse erano anche carine, avevano la stessa età, portavano i capelli corti tagliati allo stesso modo, sembravano gemelle. Le lunghe gambe uscivano da una gonnellina corta, come un’abatjour. Quando si chinavano per raccogliere la pallina di celluloide lo facevano con tale grazia che i tifosi le applaudivano come quando segnavano un punto. La loro femminilità era in netto contrasto con l’abilità e la forza che mostravano da giocatrici. Ancora oggi mi echeggia nelle orecchie il suono del ritmo delle partite. Prima un suono regolare, piiiiing – poooong, piiiing – poooong, poi la cadenza accelerava per trasformarsi in una raffica di mosse e, infine, uno secco e decisivo: PONG.

Le due ragazze avevano contribuito alla popolarità del tennis da tavolo, in breve tempo era aumentato il numero dei giocatori e dei tifosi. Grazie alle due campionesse il nome del piccolo club “Grbavica”, che prima nessuno conosceva, fu lanciato nella classifica della Repubblica. Dopo i successi, la SSRN decise di finanziare il club. I soldi erano pochi, ma bastavano per pagare le trasferte e l’albergo.

La disciplina e la tenacia sono indispensabili per l’affermazione in qualsiasi ambito. Naida e Slobodanka le avevano. Forse queste due qualità, più del talento, furono decisive per il loro successo. Si alzavano prestissimo, tra le quattro e le cinque di mattina per allenarsi, si esercitavano anche nel pomeriggio, talvolta fino a sera tardi, e nel fine settimana viaggiavano per partecipare ai campionati. Dopo una serie di vittorie, si era deciso di premiare le due campionesse. Gli avevano comprato due tute, il massimo all’epoca.

A quel punto però le due campionesse non si presentarono più ai consueti allenamenti. Passò un giorno, due, tre… L’allenatore Aco andò a cercarle. Le due ragazze, così tenaci e disciplinate, avevano smesso di allenarsi, per una sciocchezza. La tuta avuta in regalo era così bella che volevano indossarla anche fuori dall’allenamento, per passeggiare in città, apportando però alcune modifiche. I pantaloni della tuta li avevano aggiustati, secondo la moda dell’epoca, facendoli stretti-stretti. Andavano bene per il viale, ma non per lo sport. Dopo aver fatto quell’esperienza nella moda, Slobodanka e Naida ebbero paura di mostrarsi dinanzi all’allenatore, e la cosa migliore era… sparire.

Una volta, almeno da noi, lo sport si faceva per passione ed entusiasmo, era gratis, nessuno guadagnava nel giocare o nell’allenare. Chi era bravo nello sport godeva la stima della società. L’ideale dei giovani era il grande campione, non il grande fratello.

Mi ricordo che lungo il corso, dove ogni sera si radunavano i giovani di Sarajevo, a camminare avanti e indietro, per ore, i ragazzacci locali, che prendevano in giro tutti, spesso con un gesto o una parola mettevano in imbarazzo le ragazze, tiravano loro i capelli, mostravano i muscoli ai maschi. Però delle campionesse avevano riguardo, Naida e Slobodanka erano ammirate. Un certo Dževdo, un impulsivo, incontrollabile, ci faceva paura, era un provocatore e nei suoi dispetti non risparmiava nessuno, tranne le due campionesse. Capitava che Dževdo, ostentatamente, per strada fermasse tutti per farle passare.

Della fama di mia sorella, campionessa di tennis da tavolo, speravo di usufruire quando mi trasferii a Belgrado. Erano passati venti anni da quando lei giocava e vinceva, perfino il direttore della Radio e televisione di Belgrado, Nikola M., se la ricordava e mi aveva chiesto se ero parente di Naida. Sììì, dissi entusiasta sperando in un trattamento speciale.

Negli anni sessanta in Jugoslavia il tennis da tavolo era molto popolare. Circa ventimila persone lo praticavano. Per un paese piccolo come la Jugoslavia era molto, ma non era niente in confronto alla Repubblica Popolare Cinese, dove il numero dei giocatori si contava a milioni. La Cina, a metà del secolo scorso era la potenza mondiale del tennis da tavolo, e lo è ancora oggi. Ma una volta gli jugoslavi le stavano alla pari. Negli anni sessanta la squadra nazionale della Jugoslavia aveva messo in difficoltà i cinesi. Nei campionati le partite decisive si giocavano tra i giocatori cinesi e jugoslavi. Ancora oggi sappiamo a memoria i nomi dei nostri campioni di una volta: Dafinić, Palatinus, Stipančić, Gafić, Surbek.

La bravura dei nostri giocatori di ping-pong ci aveva portato un riconoscimento importante. Esattamente quarant’anni fa, nel 1973, Sarajevo aveva ospitato il campionato mondiale del tennis da tavolo (STENS). Fu la prima grande manifestazione svoltasi da noi. Il centro culturale sportivo “Skenderia”, appena costruito nel centro della città, era l’arena dove si sfidavano i più grandi.

All’epoca il mondo era, ideologicamente, diviso in due. Succedeva che nelle grandi manifestazioni sportive e culturali qualcuno rifiutasse di partecipare perché non voleva stare insieme agli avversari politici o ideologici. Invece, nei mondiali del tennis da tavolo, a Sarajevo, i giocatori venivano da tutte le parti del mondo polarizzato. Il che era un riconoscimento non solo per i nostri sportivi, ma affermava anche la posizione della Jugoslavia “tra i mondi”, non allineati.

Durante il campionato, da studentessa, per guadagnare un po’, facevo la giudice. Fu allora che per la prima volta potei usufruire della mia conoscenza della lingua russa per parlare con un americano. La studiavo da dodici anni e mi sembrava di imparare qualcosa che non serviva a niente. Quelli che studiavano inglese, francese o tedesco avevano molte occasioni per impratichirsi, noi con la lingua russa, mai, o quasi. L’americano era figlio di ebrei emigrati dalla Russia in America. Anche lui era contento di poter parlare nella sua madrelingua.

Il campionato mondiale da tennis da tavolo fu la prova generale per il successivo grande evento sportivo che ospitò Sarajevo: le Olimpiadi invernali del 1984.

Poi però sono arrivati quelli che allo sport preferivano i giochi di guerra. Nelle montagne olimpiche intorno a Sarajevo sono comparsi, nel 1992, dei vigliacchi armati fino ai denti. Un gruppo di questi si era piazzato alla partenza dello skilift a Jahorina e, con i kalashnikov in mano, incassavano i soldi da chi non aveva capito in tempo che la guerra era cominciata.

Contrariamente al principio del fondatore dei moderni giochi olimpici, Pierre de Coubertin, che dichiarava “l’importante non è vincere, ma partecipare”, quelli là contavano proprio di vincere. E per farlo hanno impegnato la quarta potenza militare d’Europa, l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) contro la società civile. In cinque anni hanno distrutto tutto quello che la popolazione jugoslava, di venti milioni, aveva costruito in mezzo secolo.

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