Bosnia: c’era una volta il Museo nazionale
Zatvoreno, chiuso. Due assi di legno impediscono l’ingresso al Museo Nazionale, a Sarajevo. Fondato nel 1888 non è sopravvissuto al "dopoguerra freddo" che mina ogni istituzione comune in Bosnia Erzegovina
Poche settimane fa OBC pubblicava un approfondimento sulle precarie condizioni in cui sopravvivono le istituzioni culturali “comuni” a Sarajevo. Fra questi anche il Museo Nazionale, fondato nel 1888: una delle più antiche istituzioni museali del paese e d’Europa. Per la triste serie delle sorprese annunciate, il museo ha chiuso al pubblico il 4 ottobre. Alla manifestazione che ha accompagnato la chiusura, hanno partecipato circa un migliaio di studenti rivolgendo ai quartieri generali della politica – che si trovano di fronte alla sede del Museo – cartelloni con lo slogan “Stidite se!/Vergognatevi!”.
La chiusura del Museo Nazionale è l’ennesima occasione per riflettere sulle politiche culturali attuate nel paese, in particolare quelle mirate al patrimonio condiviso e alle istituzioni comuni. Un pretesto anche per interrogarsi sulla situazione del paese, sull’effettività e sul ruolo dello stato centrale.
Molti gli aspetti che meritano attenzione in questa vicenda: proponiamo di seguito una selezione dei commenti apparsi sul web, fra i quali le dichiarazioni a caldo del direttore del Museo ma anche le considerazioni dissonanti provenienti da alcuni esponenti del mondo culturale.
Le ragioni della chiusura
Adnan Busuladžić, direttore del museo negli ultimi tre anni, spiega le ragioni della chiusura forzata chiamando in causa il progressivo assottigliarsi delle risorse a disposizione ed interrogandosi sulla volontà politica, a livello statale, di sostenere l’esistenza di istituzioni culturali comuni.
“Nel corso degli ultimi 15-16 anni abbiamo operato in un completo vuoto legale, sopravvivendo a fatica. Negli ultimi due anni, tuttavia, siamo scivolati in una lenta agonia. Nel 2011 abbiamo subito la mancata assegnazione di fondi dallo stato a seguito della crisi di governo. Oltre a ciò, il contributo pubblico che normalmente ammontava a 850.000 km (un marco convertibile corrisponde a 50 centesimi di euro, ndr) è stato inspiegabilmente ridotto a 350.000 km. Non ci resta altra scelta che dichiararci incapaci di lavorare in queste condizioni.
Non siamo un ente commerciale, e per noi è impensabile auto-sostenerci. È vero che possiamo contare in parte sulla vendita dei biglietti, sull’affitto degli spazi del museo e su sovvenzioni da enti non-statali, ma i costi generali di gestione devono essere garantiti e coperti dallo stato, come succede nel resto del mondo per istituzioni come la nostra.
Alcune fonti di stampa locale sostengono che la Direzione del Museo si sia ‘dimenticata’ di presentare la richiesta per accedere al summenzionato contributo. Non è questa la verità. Abbiamo deciso di non presentare la domanda in considerazione del fatto che il contributo è stato subdolamente ridotto a 350.000 km. Questa cifra non è sufficiente a coprire i costi base, e chi l’ha determinata lo sa bene.
Il nodo della questione consiste nel verificare se chi detiene il potere in questo paese voglia o no un Museo Nazionale della Bosnia Erzegovina a livello statale. Se lo vogliono avere, i ministeri responsabili devono procedere con gli adempimenti legislativi necessari, cioè la creazione di una proposta di legge sullo status di quest’istituzione e il suo modus operandi.”
Crisi culturale permanente
Muharem Bazdulj, giornalista, interprete e scrittore nato a Travnik, punta il dito sulle responsabilità politiche e sul rischio che la crisi culturale possa diventare permanente.
“Le cause di questa crisi sono chiaramente politiche. Sette istituzioni ‘di importanza nazionale’ si trovano in una sorta di no man’s land, una terra di nessuno, come effetto collaterale degli Accordi di Dayton. La causa dello stato di crisi permanente che paralizza il paese da diciassette anni è la mancanza d’indirizzi politici in molti ambiti, fra i quali quello culturale.
[…] In una situazione ideale, la questione di queste sette istituzioni avrebbe dovuto essere una priorità all’interno del processo di riforma costituzionale. Si è detto più volte che queste istituzioni dovrebbero essere tutelate dal ministero degli Affari Civili – almeno fino a quando non esiste un ministero della Cultura. Tuttavia, alla luce del fallimento di tutti i tentativi di riforma costituzionale finora intrapresi, quest’ipotesi appare non solo ottimista ma addirittura utopica. Si potrebbe quindi considerare la possibilità di finanziare queste istituzioni attraverso i governi locali, almeno per il momento. Questa soluzione potrebbe sembrare svilente, ma non è necessariamente così. Il Teatro Nazionale, a Sarajevo, è finanziato dal Cantone e a dispetto di ciò gode di rispetto analogo a quello di Zagabria.
Per quanto riguarda la mancanza d’iniziativa dei vertici di queste istituzioni, le accuse di gestione incompetente sono infondate. Chi lavora in una simile situazione ha le mani legate. Ovunque nel mondo istituzioni di questo genere funzionano soltanto se la maggior parte dei loro bisogni economici è garantita da fondi pubblici. Il rischio è che il pubblico del paese si abitui a questo stato di cose, finendo per accettarle come normali”.
A che servono?
L’artista concettuale Damir Nikšić, dalla piattaforma cultureshutdowm , allarga il campo al ruolo delle istituzioni culturali nel paese. Pur riconoscendo che la crisi in corso è in parte associata alla crisi del governo centrale protrattasi per tutto il 2011, Nikšić alza la posta in gioco interrogandosi sul ruolo delle istituzioni culturali comuni.
“Il nodo del problema non riguarda le fonti di finanziamento. All’origine sta la questione relativa alla rilevanza sociale da attribuire a queste istituzioni, che si riflette sul loro funzionamento anche quando stipendi, riscaldamento e altri costi fissi sono garantiti. Prima di puntare il dito contro le inadempienze dei dipendenti del museo, sarebbe bene riflettere sulla scarsa consapevolezza da parte di molti di noi per quanto riguarda il significato di queste istituzioni, specialmente se rapportato al presente clima”.
Sarebbe riduttivo, secondo Nikšić, attribuire un valore meramente simbolico a queste istituzioni. E’ però altrettanto problematico giustificare la loro esistenza solo in termini di efficienza economica, concentrandosi esclusivamente sulle loro potenzialità in termini di attrattiva turistica.
“Molti fanno riferimento al turismo per giustificare l’esistenza di musei e gallerie, individuando nel circuito turistico anche una potenzialità di autofinanziamento. Il presupposto latente di questa visione e che il paese abbia una conoscenza consolidata del proprio patrimonio culturale. Se così fosse basterebbe confezionarlo in modo accattivante e servirlo agli altri, in primo luogo ai turisti che visitano il paese e la capitale”.
Fra questi due poli – valore simbolico e funzionalità turistica – Nikšić suggerisce una terza via, che si basa sulla creazione di sinergie fra istituzioni culturali e sistema educativo. “La totale assenza di strategie in ambito culturale e educativo è evidente. Questo fa sì che musei, gallerie e biblioteche siano scarsamente utilizzati all’interno dei percorsi educativi. Se l’università svolgesse il proprio ruolo di ricerca e formazione d’eccellenza, sarebbe in grado di creare sinergie con le istituzioni culturali, che potrebbero così esprimere il loro ruolo. Inoltre, se l’università stessa riconoscesse il valore formativo di queste istituzioni, gli appelli per salvarle arriverebbero non solo da cittadini nostalgici ma in primo luogo da parte di studenti universitari per i quali esse dovrebbero essere un punto di riferimento”.
E ancora, sulla strumentalizzazione politica del patrimonio culturale e sulla mancanza di un ministero delle Cultura a livello statale. “Il patrimonio culturale del paese è oggetto ancora oggi di un approccio ideologico e se ne enfatizza quasi esclusivamente la dimensione folkloristica. Il risultato è la strumentalizzazione del patrimonio culturale che ricorda quella messa in atto dall’Accademia delle Scienze e delle Arti alla fine del secolo scorso. Quest’approccio ideologico al patrimonio culturale è stato uno dei motivi per lo scoppio del conflitto armato in ex-Jugoslavia. Se gli illustri fautori degli Accordi di Dayton avessero considerato queste cose, non avrebbero potuto esimersi dallo stabilire un comune ministero della Cultura e dell’Educazione”.
Nessuna replica
Molti gli spunti di riflessione lanciati, ma purtroppo nessuna replica da parte delle autorità competenti.
Il taglio dei fondi pubblici alla cultura investe la maggior parte dei paesi europei e non solo. In questa spirale al ribasso ispirata dal principio di efficienza economica e dalle leggi di mercato, si innescano processi collaterali che non possono certo dirsi esempi d’efficienza.
Chi lavora in queste istituzioni, così come chi ha impostato la propria formazione in modo da poterci lavorare in un futuro non troppo distante, viene privato di un orizzonte occupazionale. Se questo accade in un paese come la BiH in cui la disoccupazione giovanile sfiora il 60% è facile immaginare come le conseguenze possano risultare particolarmente mortificanti. Dirottando giovani qualificati su altri impieghi, si disperdono proprio quel capitale umano e quelle competenze gestionali che sono spesso invocate come il rimedio per risollevare le istituzioni in crisi.
Queste ricadute negative colpiscono la Bosnia Erzegovina così come molte altre realtà europee. Ciò che rende più preoccupante la situazione bosniaco-erzegovese è che a essere a rischio non siano solo elementi quantificabili nel computo economico, ma anche il valore simbolico del patrimonio culturale condiviso.
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