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Bosnia Erzegovina: l’onda della crisi

Sarajevo decide di riformare il sistema delle pensioni per i veterani di guerra, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. Una serie di scioperi, a partire dal settore dei trasporti, mostra che la situazione economica del Paese è drammatica

23/04/2013, Rodolfo Toè - Sarajevo

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La notizia potrebbe rappresentare un timido segnale di cambiamento nelle vicissitudini bosniache. Il 15 aprile, il Parlamento della Federazione di Bosnia Erzegovina, una delle due entità che compongono il Paese, ha votato il via libera alla revisione delle pensioni per i veterani.

Sarajevo sembra aver così deciso di affrontare una volta per tutte una delle questioni più controverse degli ultimi anni. La pensione media per 29.000 ex-combattenti della guerra 1992-95 verrà tagliata di circa 200 euro. La minima sarà di 158 euro, la massima di 845: queste le cifre della riduzione dei sussidi, che in totale – secondo quanto riferito da Balkan Insight – non potranno più eccedere nel budget il limite di 100 milioni di euro. La riforma approvata dalla Federazione dovrebbe essere accompagnata, nelle prossime settimane, da un provvedimento simile da parte di Banja Luka, per i veterani che combatterono nell’esercito dei serbi di Bosnia.

Riformare le pensioni, una nemoguća misija

Il provvedimento adottato la settimana scorsa è stato atteso a lungo. La Banca Mondiale, infatti, ha spesso puntato il dito contro il sistema previdenziale dei veterani bosniaci. Secondo un rapporto dedicato esclusivamente a questo tema, pubblicato nel 2009, la spesa sociale per i trasferimenti di questo tipo rappresentava il 4% del PIL bosniaco, ben al di sopra della media regionale.

A spaventare di più la Banca Mondiale, tuttavia, non era tanto l’ammontare complessivo delle pensioni, ma soprattutto il fatto che queste venissero attribuite senza nessun tipo di legame col reddito dei beneficiari. Risultato? Solo il 18% del totale andava a beneficio del quinto più povero della popolazione. Nella pratica, esse tendevano ad essere regressive: la maggior quota, cioè, era destinata a finire nelle tasche del quinto più ricco della cittadinanza. Un sistema che brutalmente il rapporto definiva “fiscalmente insostenibile, economicamente inefficiente, socialmente iniquo”.

Riformare questa legge era imperativo. Ma la sua modifica si era dimostrata, col tempo, una vera e propria nemoguća misija, una missione impossibile. Lo aveva spiegato a Osservatorio Muhamer Halilbašić, dell’Istituto Economico di Sarajevo, parlando della più generale crisi economica della Bosnia: “E’ impossibile toccare le pensioni dei veterani, sono una delle lobby più potenti della nostra società”, aveva detto, senza rinunciare ad attaccare l’opinione pubblica, incapace di capire il problema. “Ogni volta che le camere si riuniscono per discutere il problema, i giornali escono con titoli a effetto, che ricalcano tutti il noto leitmotiv del Paese che oggi tradisce gli eroi di vent’anni fa. Qui non si tratta di togliere il sostentamento a chi ha soltanto una pensione misera e deve viverci. Si tratta di eliminare i privilegi di chi, pur potendo disporre di risorse economiche proprie, continua a riscuotere una pensione di cui non ha, in fondo, bisogno”.

Ad obbligare il governo bosniaco ci ha pensato il Fondo Monetario Internazionale, lanciando un vero e proprio ultimatum: fino a quando il Paese non modificherà la legge, i prestiti saranno sospesi. Un dramma visto che, come ha sottolineato il premier della Federazione Nermin Nikšić dopo la votazione, “se non avessimo approvato la legge in tempo, a partire dal primo maggio avremmo dovuto ridurre il bilancio dell’entità del 30%”.

Un Paese appeso a un filo

La minaccia ha funzionato. Dopo due votazioni senza esito, il Parlamento federale ha adottato la riforma. L’evento, però, mostra la gravità dello stallo del sistema Bosnia. Il ricatto del FMI ripropone uno schema già visto altre volte, come nella formazione del Consiglio dei ministri nel dicembre 2011 : la classe politica indulge nel malgoverno, scuotendosi dalla propria passività solo quando il rischio è di perdere i fondi fondamentali alla sopravvivenza del Paese.

Un gioco che la Bosnia Erzegovina difficilmente può pensare di continuare. Il 2013 è cominciato nel peggiore dei modi per la popolazione, tra proteste e manifestazioni. A inizio aprile, uno sciopero di otto giorni ha paralizzato l’intero cantone di Sarajevo: i lavoratori dell’impresa pubblica di trasporti GRAS hanno incrociato le braccia per denunciare il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Per più di una settimana, nella capitale bosniaca non sono circolati né autobus né tram. Lo sciopero è stato totale e selvaggio, al di fuori di ogni contrattazione, tanto che persino i sindacati hanno preso le distanze dai lavoratori per condannare risolutamente quella che è stata definita “un’usurpazione della proprietà pubblica ai danni della cittadinanza”.

I lavoratori della GRAS percepiscono uno stipendio di circa 800 marchi convertibili, poco meno di 400 euro, in linea con la media del Paese. Il loro è stato solo il più eclatante di una lunga serie di scioperi che si protraggono, senza soluzione di continuità, da parecchi mesi. Negli stessi giorni, anche le ferrovie della Federazione erano in sciopero per chiedere il pagamento degli stipendi di febbraio e marzo. Questa settimana toccherà ai loro colleghi della Republika Srpska. I salari vengono regolarmente non pagati e così ai lavoratori non resta altra opzione: solo negli ultimi dieci giorni hanno scioperato i vigili del fuoco e le scuole materne di Mostar; i duecento impiegati di BIRA, una delle più importanti imprese del Paese sita a Bihać, gli impiegati comunali di Sanski Most, nel cantone Una-Sana…

Le difficoltà economiche pesano sempre più su una popolazione ormai in situazione disperata. Il portale economico “Business Insider” ha inserito la Bosnia Erzegovina nella lista delle venti nazioni più povere del pianeta, tra la striscia di Gaza e lo Yemen.

Le cifre della Caritas

“Il 40,6% delle famiglie in BiH afferma di avere bisogno di un aiuto economico”, dice a Osservatorio Daniele Bombardi, portavoce della Caritas per Bosnia Erzegovina e Serbia, che ha recentemente pubblicato un rapporto sullo stato della povertà nel Paese. “Tuttavia, solo il 5,4% di loro riceve una qualche forma di aiuto, pubblico o privato. Ci sono quindi moltissime famiglie che hanno bisogno, e alle quali non giunge nessun supporto. Forse così si spiega un altro dato, ancora più significativo: il 60,1% degli intervistati si dicono pronti ad aiutare un membro della propria comunità se in difficoltà. Circostanza che se da un lato sottolinea una grande solidarietà, dall’altra fa capire che ormai i cittadini non possono più permettersi di aspettare lo Stato”.

La politica non sembra intenzionata a impegnarsi per migliorare lo stato delle cose. Nessun passo in avanti è stato compiuto negli scorsi mesi: in Republika Srpska, il presidente Dodik ha deciso un rimpasto di governo, ma si è trattato più che altro di un’operazione cosmetica che non ha risolto nulla; nella Federazione non esiste una maggioranza capace di governare le istituzioni; Mostar è sempre in preda alla crisi sulla riforma dello statuto e della legge elettorale e – per il momento – sta “funzionando” in assenza di un bilancio pubblico, nonostante i tentativi di mediazione dell’Alto Rappresentante della comunità internazionale, Valentin Inzko.

Il futuro appare impervio. Il percorso verso l’integrazione nell’UE è ancora fermo al palo: un compromesso per risolvere la controversia Sejdić-Finci, i due cittadini che hanno vinto un ricorso alla Corte Europea per i Diritti Umani protestando contro la discriminazione nelle istituzioni bosniache, non si trova. Štefan Füle, Commissario europeo per l’allargamento, ha minacciato di congelare i negoziati con Sarajevo e di non riconoscere l’esito delle prossime elezioni politiche (previste nel 2014) se i diritti delle minoranze continueranno a essere calpestati. L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’UE, Catherine Ashton, ha visitato Sarajevo solo qualche giorno fa per lamentare, ancora una volta, l’inettitudine dei politici locali: “Sono venuta qui sei mesi fa con Hillary Clinton”, ha detto Ashton nel suo discorso, “credo non vi sorprenderà sapere che sono molto contrariata per il fatto che da allora nel Paese non c’è stato alcun progresso reale”.

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