Bosnia Erzegovina: l’autunno di Dodik
Dopo la recente sconfitta elettorale, cresce in Republika Srpska l’opposizione al presidente Milorad Dodik. La fine del rapporto privilegiato con Belgrado, le accuse di corruzione e la pressione dei movimenti civici
Non è un bel momento per la Bosnia Erzegovina: l’economia è sempre più alle corde (recentemente è stato raggiunto un numero di disoccupati pari a 547.797 persone) e vecchie tensioni tornano a farsi sentire (a Mostar, nella notte del 14 gennaio, un monumento all’Armija – esercito della Bosnia Erzegovina – è stato fatto saltare in aria). La politica sembra ripiegarsi nuovamente su se stessa, lontano dalle esigenze della popolazione. In Federazione, una delle due Entità in cui il paese è diviso – l’argomento all’ordine del giorno è la creazione di una nuova emittente pubblica, per permettere ai croati di avere programmi "nella loro lingua materna". A Banja Luka, invece, la grande questione è ormai solo una: la possibile uscita di scena di colui che più di ogni altro ha segnato gli ultimi sette anni di governo, Milorad Dodik.
Come un pugile suonato, il deus ex machina della Republika Srpska (RS), la seconda entità del Paese, ha lanciato recentemente i suoi ultimi colpi buoni, nel tentativo di riconquistare il cuore del proprio elettorato, battendo là dove la ‘serbitudine’ è più viva: prima ha proposto ai serbi del Kosovo l’accoglienza in RS; poi è tornato a tuonare ammonizioni sul fatto che "la Bosnia Erzegovina non durerà più di altri dieci anni". Infine, ciliegina sulla torta, la follia mediatica del ‘complotto’ contro i serbi di Bosnia: "So per certo che dieci milioni di dollari sono stati pagati a organizzazioni non governative della Republika Srpska dall’Occidente, al solo scopo di organizzare delle rivolte di piazza, una ‘primavera di Banja Luka’ a bella posta", ha dichiarato Dodik al Večernje Novosti di Belgrado il 31 dicembre scorso. Lo scopo? Detronizzarlo, instaurare un governo fantoccio filo-atlantista, distruggere la RS.
Questa volta però, a differenza di un passato in cui Dodik sembrava trionfare e capace di dettare le regole del gioco nel meccanismo di Dayton, la magia sembra essersi esaurita. L’opinione pubblica non lo sostiene più, il suo isolamento internazionale è aumentato. La crisi nell’entità galoppa e ogni settimana porta nuove proteste a Banja Luka. L’elettorato, come già ampiamente dimostrato dalle elezioni locali di ottobre scorso, sembra non cedere più alle sue lusinghe.
L’imperatore è nudo
Solo un anno fa, in occasione del ventesimo anniversario dell’indipendenza della RS, le celebrazioni del 9 gennaio sembravano preludere ad un roseo avvenire per l’entità serba di Bosnia Erzegovina. Del resto lo stesso Dodik non mancava di rimarcare costantemente le potenzialità di Banja Luka, "già pronta per entrare in Europa", ma "tenuta al laccio dall’inefficienza di Sarajevo".
Con l’estate 2012, però, il vento è cambiato. I primi segni che forse le sponde della Vrbas non erano la terra del latte e del miele si erano già avuti con il risveglio cittadino del movimento "Park je naš " (il parco è nostro). Una manifestazione spontanea, nata su facebook, che si proponeva di difendere il ‘Picin Park’ di Banja Luka dagli abusi edilizi perpetrati dall’élite del partito di Dodik, l’SNSD. Per mesi i cittadini hanno marciato contro i propri rappresentanti, ed era inevitabile che le parole d’ordine della manifestazione gradualmente si radicalizzassero per dare vita ad una sorta di movimento di "indignati" contro la corruzione e l’inettitudine dell’élite al potere.
In autunno, alle proteste di massa dei lavoratori, soprattutto di quelli impiegati nel settore pubblico, facevano da contorno le prime allarmanti notizie sullo stato dell’economia: "In RS il pane raffermo si vende più di quello fresco", scriveva per esempio Nezavisne Novine ad ottobre. "La gente fa la coda per comprarlo, e ogni tanto scoppiano persino delle risse per aggiudicarselo, dato che è molto più economico".
"Dove sono i miliardi, Milorad?"
"Il governo attuale", sostiene Ognjen Tadić, vicepresidente dell’SDS (Srpska Demokratska Stranka, Partito Democratico Serbo), intervistato da Osservatorio, "è il primo responsabile dell’attuale crisi economica, alla prova dei fatti si è dimostrato incompetente".
In sei anni, poco è cambiato nella vita dei cittadini della RS, e non certo per il meglio. Il debito pubblico continua a crescere, così come la disoccupazione. Alla fine del 2012, per la prima volta, la popolazione dell’entità conta più pensionati (578.000) che lavoratori (577.000).
Proprio l’SDS, secondo Tadić, potrebbe essere la prima ad avvantaggiarsi della crisi dell’SNSD. Un primo segnale lo si è avuto già alle ultime amministrative, quelle dell’ottobre scorso. "Ma dovremo insistere sui temi centrali del nostro programma, soprattutto la lotta alla corruzione".
In questo, un ruolo centrale è svolto dalla polemica cresciuta negli ultimi mesi sul pessimo uso fatto dei soldi derivati da un’ondata di privatizzazioni portata avanti da Dodik. "Il governo ha avuto la possibilità di usare i soldi derivanti dalle privatizzazioni per risollevare la situazione economica della Republika Srpska", ha sostenuto il presidente dell’SDS, Mladen Bosić, in un intervento televisivo rilasciato negli studi televisivi di TV1, "ma non l’ha fatto, gettandoli in progetti che poi non hanno dato alcun frutto".
"Gdje su milijarde, Milorade?", dove sono i miliardi, Milorad? È il nuovo slogan dell’opposizione. Il governo ha venduto negli ultimi anni alcune proprietà strategiche, tra cui la raffineria di Brod e il 49% di Telekom Srpska. Ma cosa ne è stato dei soldi non è chiaro. Molti sono stati usati per ‘drogare’ innaturalmente l’economia dell’entità, per le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Ma una parte è servita anche per consolidare la posizione di Dodik. Un’inchiesta della giornalista Valerie Hopkins , pubblicata l’anno scorso, rivelava come, dal 2007 al 2011, la Republika Srpska abbia investito ben tredici milioni di dollari per attività di lobby negli Stati Uniti.
"Cifre che non hanno portato alcun risultato concreto in termini di turismo, o di investimenti", dichiara ad OBC Kurt Bassuener, analista politico a Sarajevo, "ma che sicuramente hanno per così dire aiutato Dodik nei confronti della giustizia internazionale". Nel 2009, in effetti, gli Stati Uniti hanno deciso di non proseguire le indagini sul crimine organizzato in Bosnia, interrompendo una serie di processi che vedevano il politico accusato di frode, corruzione e conflitto di interessi.
La fine di un’era?
"E’ un dato di fatto che Dodik oggi sia in profonda crisi", continua Bassuener. "Soprattutto nei confronti della comunità internazionale. L’Unione europea ha avuto spesso in passato un atteggiamento eccessivamente compiacente nei suoi confronti, perché avevano un obiettivo comune: chiudere l’ufficio dell’OHR, o comunque limitarne i poteri. Anche la Russia ha storicamente sostenuto Banja Luka, ma sembra che entrambi non siano più disposti a dargli corda. Dodik ormai prova che Dayton non serve ad arginare il nazionalismo, anzi: oggi come oggi, lo alimenta. Anche a Belgrado Dodik fatica a trovare nuovi partner: la sua alleanza privilegiata, quella con Boris Tadić, è finita il giorno della vittoria di Nikolić alla presidenza serba. Il giorno che si sono incontrati a Belgrado, Nikolić ha fatto aspettare Dodik quarantacinque minuti prima di riceverlo. Un’umiliazione inflitta di proposito, che spiega molte cose".
Anche Tanja Topić, politologa di Banja Luka, condivide questa visione. Tra Dodik e Belgrado non corre più buon sangue: "I nazionalisti, al potere a Belgrado dopo la recente vittoria elettorale, sostengono molto più volentieri l’opposizione [della RS] e il Partito Democratico Serbo. Non è un caso", ha dichiarato la Topić ad Osservatorio, "che la battaglia contro la corruzione di Dačić abbia mietuto tra le sue vittime più illustri alcuni tra i principali sponsor di Dodik", tra cui il magnate Miroslav Misković. "La leadership della Republika Srpska è in questo momento più isolata che mai".
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