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Bosnia Erzegovina, migranti climatici

Un’inchiesta giornalistica di Euronews fa il punto sulle alluvioni che hanno colpito il sud est Europa sei anni fa: la situazione in Bosnia Erzegovina e la conseguente migrazione climatica causata da quegli eventi. La proponiamo in occasione dell’EarthDay

Bosnia-Erzegovina-migranti-climatici

(Originariamente pubblicato da euronews il 5 marzo 2020)

"Quando nel 2014 l’alluvione ha distrutto il piano terra della nostra nuova casa, abbiamo iniziato a parlare sempre più spesso dell’ipotesi di trasferirci tutti in Germania".

Un giorno di sei anni fa, una giovane madre bosniaca e suo figlio hanno lasciato per sempre il paese di Domaljevac, al confine con la Croazia, completamente sommerso dalle acque del fiume Sava.

Ana (ci ha chiesto di non utilizzare il suo vero nome) ha raggiunto il marito a Francoforte e da allora vivono insieme in Germania. È stata più fortunata di molti altri bosniaci: cattolica e con il passaporto croato, ha potuto trasferirsi in un paese dell’Unione Europea senza richiedere un visto di lavoro.

"Quegli eventi mi hanno cambiata profondamente. Avrei voluto sempre restare a vivere qui. Ma, nel nostro caso, le alluvioni sono state un punto di svolta, la ciliegina sulla torta del nostro processo decisionale".

Nel maggio 2014, Ana è diventata una migrante climatica ed è partita per sempre. La sua storia è simile a quella di un’altra sua compaesana. Ce l’ha raccontata un’infermiera dell’ospedale locale.

"Il primo giorno di alluvione, il marito di una mia amica è venuto a prenderla dalla Germania. È salita in macchina e se ne è andata, e casa sua non era stata nemmeno allagata. Per lei è stato una sorta di detonatore. Non è mai più tornata".

Queste storie hanno ormai un proprio nome: si tratta di migrazioni climatiche europee. Vi abbiamo dedicato una serie esclusiva di reportage, Europe’s climate migrants. Questa è la seconda puntata.

Grandi cambiamenti climatici, drastiche conseguenze a livello locale

Le alluvioni che nel maggio 2014 hanno colpito i Balcani occidentali sono direttamente connesse con il cambiamento climatico. Come spiega Vladimir Đurđević, uno dei più noti climatologi locali, professore all’Università di Belgrado, "il pianeta è tutto connesso ad un enorme sistema climatico. Grandi cambiamenti in alcuni angoli del globo possono portare a conseguenze drastiche da tutt’altra parte".

Seguite il filo del suo ragionamento. Il riscaldamento del Polo Nord ha causato enormi modifiche alla circolazione atmosferica: in parole povere, l’aumento delle temperature in un luogo influenza il comportamento di venti e cicloni anche a migliaia di chilometri di distanza. Ebbene, nel maggio 2014 su Bosnia, Serbia e Croazia si è fermata una grande massa ciclonica per tanto, troppo tempo. Ha portato con sé piogge torrenziali per intere settimane. In alcune zone ha piovuto per 21 giorni consecutivi, causando una forte saturazione del suolo.

La conseguenza? Inondazioni improvvise, frane e smottamenti lungo piccoli e grandi corsi d’acqua. Il fiume Sava, il principale affluente del Danubio che segna il confine tra Bosnia ed Erzegovina e Croazia, ruppe gli argini seminando distruzioni "bibliche", termine usato dai giornali serbi all’epoca. Anche la Bosna, il Vrbas, la Una e la Sava strariparono; in Serbia la città di Obrenovac venne sommersa, le frane distrussero il paese di Krupanj e anche il fiume Kolubara esondò. L’acqua non se ne andò per tre giorni. Sul 70% dei territori inondati in Bosnia si riversarono le mine antiuomo mai bonificate dopo la guerra. Alcuni, nel centro del Paese, raccontano di interi condomini ridotti a scheletri ed infestati da serpenti, dopo il ritiro delle acque.

Nei giorni successivi agli eventi le autorità bosniache dichiararono che i danni economici potevano essere paragonabili a quelli lasciati dalle guerre degli anni novanta: 2 miliardi di euro, il 15% circa del PIL bosniaco. In Serbia non andò meglio: i morti furono 51, 1,6 milioni di persone colpite, per una cifra di danni pari al 3% del PIL.

Le prime migrazioni climatiche internazionali d’Europa?

La migrazione che ha fatto seguito a quegli eventi non è semplicemente una storia bosniaca, ma riguarda tutta l’Europa.

Una delle aree più colpite dagli eventi, al confine con la Croazia, è costituita da piccoli villaggi e paesi dove la comunità cattolico-croata è maggioritaria. Dopo le inondazioni, molti cittadini dotati di passaporto croato, sono partiti in cerca di maggior fortuna in paesi come Austria, Germania, Svizzera e Italia.

Sono movimenti che si inseriscono in un quadro migratorio già endemico e complesso, ma non c’è dubbio che proprio la tragedia del maggio 2014 abbia velocizzato il processo in molti di questi casi.

Miroslav Lucić, vicesindaco di Domaljevac-Šamac, le chiama con il loro nome. "Si tratta di migrazioni climatiche". Dal suo ufficio, di fianco a un poster della Dinamo Zagabria, una finestra lascia intravedere l’argine che venne sfondato dall’acqua della Sava. Non ci sono dati certi, aggiunge, ma "se negli anni ’90 abbiamo avuto migrazioni provocate dalla guerra – parte della nostra comunità locale è stata sostanzialmente annientata -, negli anni successivi la gente è tornata e ha ricominciato a vivere normalmente. Con le inondazioni siamo tornati cinque passi indietro: le persone non si sentivano più sicure a vivere qui con le loro famiglie".

Da questa zona l’esodo "è iniziato non appena è stata dichiarata l’emergenza per catastrofe naturale", spiega Tihomir Bijelić, direttore di Radio Orašje e autore di un documentario sull’accaduto . "Spesso i membri maschi delle famiglie erano già all’estero per lavoro. Dopo l’alluvione, li ha seguiti anche il resto della famiglia".

Le autorità della Bosnia ed Erzegovina non hanno modo di calcolare il numero di persone che emigrano ogni anno dal paese, complice un sistema politico-amministrativo intricato e disfunzionale. Tuttavia, la Banca Mondiale stima che il numero di bosniaci che già vivono all’estero sia pari alla metà dell’intera popolazione. Nel 2014, le agenzie stampa internazionali scrissero che il disastro scatenò "il peggior esodo dai tempi della guerra".

Ivo Marković, presidente del comune di Kopanice, stima che dopo l’alluvione il 15-20% della popolazione abbia abbandonato le proprie case. A Kopanice oggi non restano che 280 abitanti. Camminando per le sue strade, più della metà delle case hanno le tapparelle serrate, molte sono in abbandono, alcune riaprono solo durante le vacanze, quando gli emigrati tornano a trovare i pochi parenti rimasti. Per tre quarti dell’anno, però, il villaggio rimane svuotato. Rimangono un panificio e tre bar. In uno di essi, una coppia di anziani guarda la TV e scommette stancamente sui cavalli, nella penombra.

Non tutti però se ne sono andati. Chi è rimasto ha ricevuto poco o nulla dallo Stato, in termini di aiuti.

Dražen Mikić, responsabile della Croce Rossa di Orašje: due dei suoi tre figli si sono trasferiti all'estero dopo l'alluvione. Magdalena "oggi assiste gli anziani in Germania. Mi fa ancora male" - Foto: Lillo Montalto Monella

Dražen Mikić, responsabile della Croce Rossa di Orašje: due dei suoi tre figli si sono trasferiti all’estero dopo l’alluvione. Magdalena "oggi assiste gli anziani in Germania. Mi fa ancora male" – Foto: Lillo Montalto Monella

Mara, pensionata che vive nel villaggio accanto, Vidovice, ha otto figlie che vivono tutte all’estero. Ci racconta di non aver ricevuto "un solo marco" per la ricostruzione di casa propria.

A Orašje, una delle principali cittadine della regione a pochi chilometri di distanza, dal municipio indicano a Euronews che non esistono dati certi sul fenomeno migratorio dopo il 2014. "Probabilmente metà della popolazione in età lavorativa se n’è andata. Le inondazioni sono state solo un fattore scatenante", afferma Dražen Mikić della Croce Rossa locale.

Anche a causa del complicato sistema istituzionale – con presidenze a rotazione e obbligo di rappresentanza di tutti i gruppi etnici del paese – è difficile per la Bosnia ed Erzegovina affrontare con misure efficaci a lungo termine la grave crisi demografica che la sta stritolando, scrive Balkan Insight. Guidando su e giù per il Paese, è impossibile non notare la gran quantità di case vuote o mai terminate, i balconi lasciati senza ringhiera di protezione.

Vivere da sfollato interno: "Mi sento migrante nel mio Paese"

Sulle montagne della Bosnia-Erzegovina centrale e orientale, dove le comunità sono in maggioranza bosgnacche, o bosniaci musulmani, gli stessi eventi meteorologici estremi hanno provocato frane e colate di fango che hanno distrutto interi villaggi.

Piccole città come Maglaj, 25mila abitanti, hanno dovuto affrontare progetti di ricostruzione costati circa 85 milioni di euro. Per contestualizzare il dato, il budget annuale del comune è di soli 4 milioni di euro.

Lo sfollamento in queste zone è stato principalmente interno, in pochi sono emigrati all’estero. La mancanza di un passaporto UE, l’impossibilità di spostarsi, la situazione di povertà o l’aver ricevuto qualche donazione privata – o qualche rimessa dall’estero – hanno fatto sì che le famiglie colpite siano rimaste nell’area, spostandosi solo di qualche chilometro.

"Il sostegno finanziario delle autorità è stato molto debole, una simile eventualità non era stata prevista", afferma Alen Ćosić, rappresentante locale della missione dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). "Mai avrebbero potuto prevedere un disastro di questa portata. Semplicemente, nessuna autorità in Bosnia ed Erzegovina ha disponibilità economica così elevata".

Un residente della zona ci racconta di essere riuscito a ricostruire casa, distrutta dagli smottamenti, solamente grazie alle "donazioni private di ricchi privati cittadini di Mostar", nel sud del Paese.

A Željezno Polje, su per la montagna, un intero quartiere è andato perduto. Un villaggio fantasma vero e proprio, solo gli animali si aggirano tra gli scheletri delle case.

Muhamed Jusufović, presidente del consiglio comunale locale nella municipalità di Žepče, indica a Euronews che una pensione media è di 4-5mila marchi bosniaci (l’equivalente di 2.500 euro). Alcuni residenti, tuttavia, hanno dovuto far fronte a danni per 50-100mila marchi (circa 50mila euro).

Šefik Čolić, 68 anni, viveva nell’area franata di Željezno Polje prima del 2014. Dopo gli smottamenti, grazie alle donazioni internazionali si è potuto trasferire a valle, in una new town di recente costruzione sulle rive del fiume Bosna. Questo nuovo villaggio e le sue casette prefabbricate sono però distanti da qualsiasi forma di servizio o centro abitato. Ha cambiato casa tre volte prima di trovare la sistemazione definitiva. "Ora va tutto bene, ma no è più come una volta", racconta. "Io e mia moglie abbiamo avuto bisogno di assistenza psicologica per un bel po’ di tempo".

In altre zone della Bosnia ed Erzegovina, come a Kalesija, si sono avuti meno problemi per la ricostruzione anche grazie allo sforzo congiunto della Croce Rossa, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per le Migrazioni (OIM) e ai finanziamenti del governo federale. E, di nuovo, grazie alle rimesse dei residenti all’estero.

"Mi sento una migrante perché ho dovuto lasciare casa mia, anche se sono se sono rimasta nel mio Paese", ci dice Zekira Ikanović. La sua abitazione di Hrasno Gornje è stata distrutta da una frana il 15 maggio 2014. Con la famiglia ha dovuto alloggiare in una caserma militare per sei mesi; quindi le è stato assegnato un alloggio collettivo per due anni prima di poter trasferirsi nella nuova casa di Memići – a 40 km di distanza.

Oggi Zekira è disoccupata. Suo marito era un contadino, ma ha dovuto reinventarsi e oggi lavora come tuttofare a Orašje, a due ore di macchina da casa. Ritorna dalla famiglia solo nei weekend, o quando non c’è lavoro per lui.

"Avevamo fatto un mutuo per poterci costruire la casa. Anche dopo che è stata distrutta, ho dovuto continuare a ripagare il prestito fino alla sua estinzione. Sono venuti a cercarmi per i pagamenti", continua Zekira.

"Prima del 2014, non avevo mai sentito di nessuno costretto a migrare per un disastro naturale", aggiunte Zekira. "Tremo al solo pensiero che una cosa del genere possa accadere di nuovo".

Eppure, la possibilità che un altro disastro su larga scala – simile a quello del 2014 – colpisca la Bosnia ed Erzegovina è tutt’altro che remota.

"La gente qui mette il cambiamento climatico in fondo alla lista dei problemi. Quando le autorità ricostruiscono, cercano solo di far tornare tutto come prima invece di alzare gli argini o migliorare le infrastrutture per farle resistere agli impatti futuri del clima, che saranno più violenti", avverte il climatologo Vladimir Đurđević. "Ci dobbiamo aspettare sempre più eventi meteorologici estremi, in grado di provocare danni enormi ed enormi sofferenze della popolazione, e per di più con ampiezza maggiore che in passato".

"Le aree rurali sono ancora più sensibili ai cambiamenti climatici rispetto alle città: qui non si ha la forza di riprendersi quando una casa viene spazzata via", dice Gianmaria Sannino, responsabile del Laboratorio di Modellistica Climatica e Impatti dell’ENEA.

In Bosnia ed Erzegovina, la certezza è che né lo Stato, né le autorità locali né i residenti abbiano i mezzi – finanziari o emotivi – per affrontare di nuovo una simile tragedia.

"La gente qui dice di non riuscire a reggere un’altra alluvione, alcuni mi dicono che preferirebbero dare fuoco alla propria casa piuttosto che riprendersi da una nuova inondazione", conclude il rappresentante dell’OSCE, Ćosić. "Se le giovani famiglie dovessero trovarsi a pesare le due opzioni – ricostruire una casa o una vita in questo paese, chiedere un prestito bancario e indebitarsi per i prossimi anni – oppure lasciare la Bosnia per andare in Germania e cercare lavoro – credo che sceglierebbero questa seconda possibilità".

L’inchiesta transnazionale Europe’s Climate Migrants è stata realizzata grazie al supporto di Journalismfund.eu

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