Bosnia Erzegovina, la posizione della società civile
Dopo i disordini di venerdì scorso la situazione in Bosnia Erzegovina cerca lentamente di tornare alla normalità. Le proteste continueranno anche nei prossimi giorni, intanto i manifestanti ottengono le dimissioni di vari premier cantonali
C’è aria di temporale in una Sarajevo domenicale che cerca, un po’ come tutto il resto del paese, di tornare alla normalità dopo le violenze di venerdì. Sabato pomeriggio in molti sono tornati in strada. Un po’ per la necessaria curiosità di seguire gli sviluppi della più importante protesta della storia della Bosnia Erzegovina indipendente, un po’, anche, per dare una mano a pulire. Nella capitale, così come a Tuzla e a Zenica, piccoli gruppi di cittadini si sono organizzati spontaneamente per ripulire le strade e nascondere, per quanto possibile, i segni delle violenze dei giorni scorsi.
È il lato buono di una protesta che non è stata scevra di momenti drammatici. A Sarajevo, nell’incendio della presidenza, i manifestanti hanno distrutto anche l’archivio nazionale di Bosnia Erzegovina , che era custodito nello stesso edificio. È forse questo il danno maggiore inflitto alla città durante questa rivolta.
A fuoco l’Archivio nazionale della Bosnia Erzegovina
“È bruciato uno dei nostri depositi”, ha constatato immediatamente dopo i disordini di venerdì il direttore dell’istituzione, Šaran Zahirović. “Con esso” – ha dichiarato al portale ‘klix.ba ‘ – “sono bruciati purtroppo alcuni dei documenti più preziosi in nostro possesso”.
Anche se le stime dei danni verranno fatte in modo più accurato soltanto nei prossimi giorni [una parte della società civile sarajevese sta sostenendo che in realtà non ci sono stati danni all’archivio , NDE], è già possibile constatare la perdita definitiva di alcuni documenti di grande valore storico, tra i quali, ad esempio, gli atti della commissione creata dopo la fine del Secondo conflitto mondiale per indagare sui crimini di guerra, oltre che una sezione contenente diari, lettere, memorie personali in alcuni casi risalenti alla fine dell’Ottocento.
“In gran parte”, continua Zahirović, “si tratta di materiale che era riuscito a salvarsi nel corso delle due guerre mondiali e dell’ultima, negli anni novanta, ma che è stato distrutto in questa rivolta”. Memorie sopravvissute agli orrori del Novecento, e che ora, semplicemente, sono andate perdute. “È un’enorme vergogna culturale”.
Bruciano i libri, in un modo che ricorda sinistramente uno degli eventi simbolicamente più famosi dell’assedio di Sarajevo, la distruzione della grande biblioteca nazionale nell’agosto del 1992. Se un nesso tra i due avvenimenti può sembrare forzato, è del resto vero che questo non è l’unico episodio che fa rivivere, nelle menti dei sarajevesi, la memoria della guerra. E sono gli abitanti stessi a sottolineare questa continuità.
Sabato mattina, dopo la devastazione di un’ampia area del centro cittadino che va dal quartiere di Skenderija a via Maresciallo Tito, in molti hanno osservato come le immagini delle auto e degli edifici carbonizzati, delle vetrine sfondate sembrassero uscite direttamente da un altro tempo, da giorni in cui la città era preda di colpi di mortaio, granate e cecchini.
Forse, in un certo senso, è proprio anche per questo riscoprirsi immediatamente così vulnerabili che i cittadini hanno risposto, in modo deciso, alla violenza. L’atto stesso di mettersi a disposizione della comunità, di ripulire le strade, di raddrizzare i danni ha un’importanza simbolica decisiva.
I contestatori hanno dichiarato solennemente che “non lasceranno più spazio ai vandali e agli hooligan”, al tempo stesso però riconfermando che la volontà di proseguire le proteste è più salda che mai. Diverse centinaia di cittadini sono tornati in piazza sabato, in modo pacifico.
Nel momento in cui scriviamo questo articolo, un corteo di cittadini sta protestando davanti alla presidenza. È vero che manca, tuttora, un’organizzazione, un coordinamento.
La mobilitazione è in gran parte spontanea, senza portavoce, ma circolano comunque dei volantini con evidenziate le ragioni di chi è sceso in piazza: “Ci rammarichiamo per le vittime e per i danni subiti durante la protesta di venerdì”, si può leggere nel comunicato, “ma questo nostro rammarico va esteso alle fabbriche, agli spazi pubblici, alle istituzioni culturali e scientifiche, alle vite umane della cui distruzione sono invece direttamente responsabili coloro che, da vent’anni, governano il nostro paese”.
La società civile: cittadini prima di tutto
Una delle caratteristiche più interessanti della protesta, fino a questo momento, è probabilmente proprio il fatto di essere così atomizzata e priva di un programma definito e di gruppi organizzati.
I sindacati, che pure avevano simpatizzato in un momento iniziale con la protesta, hanno immediatamente ritirato il loro supporto ai primissimi segni di violenza.
Altro grande assente è la società civile, che invece aveva avuto un ruolo di primo piano nella stagione del ‘risveglio civico’ del 2013. Un’assenza che è, soprattutto, mediatica.
“Gli attivisti e le attiviste sono in campo, ma la nostra posizione è che siamo, innanzi tutto, dei cittadini e delle cittadine”, spiega a Osservatorio Balcani e Caucaso Valentina Pellizzer, direttrice di ‘One world see ‘ e caporedattrice del portale ‘Ženska Posla ‘.
“La situazione è più complessa di quanto potrebbe apparire a una prima, superficiale occhiata: esiste una parte del mondo delle ONG bosniache che obiettivamente sta temporeggiando, chiedendosi quale sia il modo migliore per trarre vantaggio dalla situazione che si è creata. In più, non è secondaria la circostanza che buona parte di queste organizzazioni si è fortemente sbilanciata a favore dell’SDP nel corso delle elezioni del 2010, quindi questa situazione li mette in imbarazzo, da un punto di vista pubblico, hanno perso credibilità”.
“In compenso, ci sono associazioni più ‘sul terreno’, come Akcija Gradjana , che dal primo momento hanno dato il loro pieno supporto alla manifestazione”.
“La partecipazione della società civile, insomma, è molto variegata, anche se avviene prima di tutto attraverso il nostro sostegno personale. Ho alcune amiche di un’organizzazione per i diritti della comunità LGBT che in questo momento stanno partecipando alla manifestazione, anche se sappiamo benissimo che tra chi protesta ci sono anche gli estremisti che in passato ci hanno minacciato. Quindi vedi, ci sono vari livelli di partecipazione, ecco tutto, e diversi gradi di esposizione. Tutti però sostengono quello che sta accadendo, per esempio attraverso le proprie pagine facebook”.
Darjan Bilić, attivista e presidente proprio di Akcija Gradjana, è in effetti uno di quelli che si è affidato ai social network per fare conoscere la propria posizione. In un intervento intitolato “Sarajevo è anche la mia città”, Bilić scrive: “Il punto, signori, non sono gli incendi, gli edifici devastati, le auto capovolte; il punto è, piuttosto, l’incuria decennale di un sistema che ha prodotto esso stesso violenza”. E, rivolgendosi ai politici: “Posso capire che siate orripilati, sconvolti dal fuoco e dall’odore dei lacrimogeni, di come possa essere rovinata la città, agli occhi dei turisti e del pubblico mondiale … ma non vi ho mai visti preoccuparvi di come stesse Sarajevo, prima”.
La protesta è politica
Al di là delle violenze, dei disordini, dei saccheggi portati avanti durante le manifestazioni di venerdì, soprattutto da parte di persone giovanissime, la protesta si presenta come politica.
I manifestanti hanno cominciato a fare le prime richieste: tra di esse, prima di tutto, le dimissioni da parte della classe politica. Una richiesta che, fino ad ora, ha dato i primi frutti proprio a Sarajevo.
Il primo ministro cantonale Suad Zeljković infatti, è stato costretto a dare le dimissioni, proprio dopo che lo stesso si era trovato a insultare una giornalista che gli chiedeva se avesse l’intenzione di farlo.
A Bihać Hamdija Lipovača, il contestatissimo premier del cantone Una-Sana si è dimesso domenica poco prima di mezzanotte. Le dimissioni sono state rassegnate anche dai premier dei cantoni di Tuzla e di Zenica-Doboj. Sempre domenica si è dimesso anche Himzo Selimović, direttore della Sezione per il coordinamento degli organi di polizia della BiH.
La protesta sta avendo i suoi primi effetti. E anche se è troppo presto per riuscire a capire se saranno degli effetti positivi, per la prima volta la classe politica bosniaca sembra temere davvero l’opinione del proprio elettorato.
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