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Berlino: comunque sia, di Balcani si parla

Assenti dalla competizione principale, i film dai Balcani hanno fatto comunque parlare di loro alla 70ma edizione del Festival del cinema di Berlino

09/03/2020, Nicola Falcinella -

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Lo scorso primo marzo si è chiusa la 70ma Berlinale. Nessun film targato sud-est Europa nella competizione principale ma ciononostante questi ultimi hanno smosso parecchia attenzione. In particolare ha vinto il premio del pubblico della sezione parallela Panorama, nonché il premio ecumenico, “Otac – Father” del serbo Srdan Golubović (conosciuto per “Krugovi – Circles”). Il premio del pubblico in Panorama documentari e il premio Amnesty International sono andati a “Welcome to Chechnya” dell’americano David France sulla comunità Lgbt in Cecenia. Nella nuova sezione Encounters premio per la regia al romeno Cristi Puiu (“La morte del signor Lazarescu” e “Sieranevada”) per il fluviale “Malmkrog”.

Il film di debutto greco “Digger” di Georgis Grigorakis, sempre presentato in Panorama, si è aggiudicato l’Art Cinema Award della Cicae.

Quanto al concorso principale “DAU. Natasha” dei russi Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel, una coproduzione tra Germania, Ucraina, Gran Bretagna e Russia, ha avuto l’Orso d’argento per il contributo artistico, assegnato al direttore della fotografia Jürgen Jürges. Un film spiazzante, tra i più originali tra quelli presentati in gara, parte di un progetto ampio e ambizioso tra cinema e arte comprendente pure “DAU. Degeneratsia” presentato nella sezione Berlinale Special. Natasha(interpretata da una bravissima Natalia Berezhnaya) è una cinquantenne che in epoca staliniana si occupa con la collega Olga della mensa di un istituto di ricerca. Il film è diviso in pochi episodi, suddivisi in scene molto lunghe con inquadrature camera a mano di durata prolungata. Si inizia con un momento ordinario di lavoro nel locale che prosegue con una discussione tra le due donne sull’amore che culmina in un litigio. La protagonista, complice una festa e l’ubriacatura, avrà poi una relazione con uno scienziato francese (con conseguente scena di sesso che i registi mostrano con grande realismo) che avrà conseguenze, perché i servizi segreti arresteranno e interrogheranno la donna. Un viaggio nelle profondità della psiche al tempo della dittatura, la cui presenza diventa sempre più evidente e opprimente, quasi un esperimento sociale condotto lasciando ampio spazio all’improvvisazione degli attori non professionisti.

Nella sezione Forum spiccava “Tipografic majuscul – Uppercase Print” di Radu Jude (che presentava pure “Ieşirea trenurilor din gară – The Exit of the Trains” codiretto con Adrian Cioflâncă). Un documentario ispirato allo spettacolo teatrale di Gianina Carbunariu e basato su documenti della Securitate. Un lavoro bello, molto teorico, su più piani e che implica impegno per lo spettatore. Tutto ha inizio il 13 settembre 1981 quando, sulla recinzione della sede del partito comunista a Botosani, compare la scritta “vogliamo giustizia e libertà” in stampatello (da qui il titolo) con il gesso blu. Nelle notti successive appaiono altre scritte in altre parti della città, contro il governo e anche in solidarietà alla Polonia. Subito parte l’indagine della Securitate cittadina che vuole trovare il colpevole. Qualche settimana più tardi fermano in flagrante il sedicenne Mugur, detto “l’allievo”, un ragazzo che compie sempre passeggiate serali per via della sua allergia. L’adolescente, al contrario di ciò che si aspettano gli investigatori, confessa di aver fatto tutto da solo, suggestionato dall’ascolto di Radio Free Europe. I servizi segreti registrano i suoi colloqui con i genitori e allestiscono un processo pubblico a scuola. Nei mesi successivi i voti di Mugur migliorano e il suo comportamento pure, ma la vicenda ha un epilogo tragico nel 1985. E si scopre che la Securitate reclutava anche tra i ragazzi. Nel film attori leggono, in primo piano e rivolti verso la macchina da presa, le dichiarazioni di testimoni e inquirenti. Intervallati a questi ci sono segmenti di filmati di propaganda, notiziari, programmi tv con Ceaușescu nei quali va tutto bene. Un contrasto tra l’immagine verso l’esterno e ciò che accade all’interno che dura per tutto il film e segna il conflitto tra storia segreta e pubblica, tra personale e collettiva. Una nuova e importante tappa del processo di riproposizione ed elaborazione della memoria della Romania compiuto da Jude.

 

Sempre in Forum era presente “Was bleibt – Šta ostaje – What remains | Re-visited” della tedesca Clarissa Thieme, che è tornata in Bosnia 10 anni dopo aver girato un documentario. La regista visita 19 luoghi dove sono stati compiuti crimini giudicati dal tribunale dell’Aja e che aveva filmato nel lavoro precedente. Stavolta riprende i luoghi che aveva fotografato con le stesse inquadrature e mostrando gigantografie delle vecchie foto per mostrare cosa è cambiato. Si tratta del susseguirsi di lunghe inquadrature, in alcuni casi necessarie per notare bene differenze che non risaltano a un primo sguardo, in altri eccessivamente protratte. Tra le tappe principali ci sono Sarajevo (il mercato di Markale, Skenderjia, la pista olimpica di slittino), Bijelina, Potocari e i dintorni di Vares. Capita che la regista o le sue collaboratrici inizino a parlare con i passanti, qualcuno riconosca chi era ritratto nell’immagine (come nella bella scena finale, che dà un po’ il senso all’insieme) e altri si lascino andare alla considerazione che oggi va un poco meglio rispetto a un decennio fa. In generale, dal confronto si osserva che molte case sono state rifatte e c’è più vegetazione. “What remains | Re-visited” è interessante come idea, ma raggiunge forse solo in parte il suo intento di fare il punto sulla Bosnia odierna rispetto al recente passato.

In Panorama è passato “Mare” della svizzera d’origine serba Andrea Štaka (già Pardo d’oro a Locarno con “Das Fräulein”) con Marija Skaričić, Goran Navojec, Mateusz Kościukiewicz e Mirjana Karanović, nel piccolo ruolo della madre che vive al villaggio. È il ritratto di una quarantenne inquieta, Mare (Skaričić), che vive nelle vicinanze di Dubrovnik. La donna si occupa dei tre figli, verso i quali è attenta e preoccupata, e vende erbe al mercato, ma vorrebbe tornare a un’occupazione più costante e regolare. Mentre il marito Duro lavora nella sicurezza dell’aeroporto, dove sono in corso lavori di ampliamento. La protagonista ha alle spalle un’esperienza di emigrazione in Svizzera e molti in paese sono emigrati all’esterno. In compenso a Dubrovnik e dintorno arrivano i turisti e i fan della serie “Game of Thrones” con effetti bizzarri. Štaka segue Mare, anche quando conosce e inizia una storia con l’operaio polacco Piotr, con empatia nei suoi dubbi esistenziali e con lei ritrae una comunità che non ha più un centro.

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