Belgrado: il cinema è morto, viva il cinema
L’occupazione del cinema Zvezda di Belgrado da parte di un gruppo di giovani registi, attori e studenti della settima arte ha aperto un dibattito sui processi di privatizzazione delle sale cinematografiche e sul ruolo della cultura in Serbia
Da qualche settimana nel pieno centro di Belgrado, al numero 40 di via Terazije, sventola una bandiera rossa con un pugno chiuso a stringere una pellicola cinematografica. E’ il simbolo scelto dal gruppo “Pokret za okupaciju Bioskopa” (Movimento per l’occupazione dei cinema) che il 21 novembre scorso ha occupato lo Zvezda (Stella), uno dei quattordici cinema chiusi dal 2007 a seguito del processo di privatizzazione della “Beograd film”, ex società a controllo pubblico che riuniva gli esercenti cinematografici belgradesi.
La storia sembra seguire un copione prestabilito: un’impresa statale – Beograd film – in difficoltà nel governare un serio processo di modernizzazione delle proprie strutture; la privatizzazione come panacea; l’entrata in scena del businessman londinese Nikola Đivanović (in passato consigliere del precedente governatore della Banca Nazionale Mlađan Dinkić) che nel 2007 ha rilevato il 70% della proprietà a un prezzo di 9,2 milioni di euro, per 18 mila metri quadrati tra sale e spazi esterni.
Đivanović nel 2008 ha venduto a un prezzo 18 milioni di euro cinque cinema di proprietà di Beograd Film a Ivica Todorić , proprietario della croata Agrokora e della catena di supermercati Idea. La procura belgradese nel 2011 ha aperto contro Đivanović un’inchiesta per malversazioni nella vendita delle cinque sale.
Arrestato il 28 marzo 2011 con l’accusa di aver danneggiato gli azionisti e lo stato con la privatizzazione di Beograd film, Đivanović ha patteggiato una condanna a tre anni di prigione e il pagamento di un risarcimento pari a tre milioni e centomila euro. Subito dopo il patteggiamento è stato rilasciato, e come garanzia ha firmato un’ipoteca sugli immobili di Beograd film, cui sono rimasti tre cinema: Zvezda, Jadran e 21 ottobre. Tutti i quattordici cinema sono chiusi, alcuni trasformati in locali, altri in sale da gioco, i restanti abbandonati a un triste destino di degrado.
La Spoon River dei cinema belgradesi
La biblioteca della Cineteca jugoslava, gloriosa istituzione che conserva tutt’oggi uno degli archivi cinematografici più grandi d’Europa, ha sede in un palazzo interno di Knez Mihailova. Accanto a Borislav Stanojević e Dragana Miljević sino al mese scorso vi lavorava anche Slobodan Žujević. La sua carriera iniziò negli anni cinquanta come maschera di sala in vari cinema belgradesi, poi a partire dal decennio successivo passò alla consegna delle pellicole da 35 millimetri nelle sale cinematografiche di mezza Jugoslavia, prima di diventare archivista della Cineteca. Negli ultimi anni, oramai anziano, Žujević ha scritto una serie di articoli per il sito della Cineteca raccolti poi nel libro Bio jednom jedan bioskop (C’era una volta un cinema). Guidato da una scrittura lucida e dolente, ha composto una serie di epitaffi per i cinema belgradesi, narrando la scomparsa di un mondo.
Al “Partizan”, situato nei pressi della stazione ferroviaria, nei primi anni cinquanta proiettarono “Riso amaro” di Giuseppe de Santis, che attirò centinaia di cittadini per la famosa scena di Silvana Mangano in pantaloncini corti, giudicata troppo osè dalla morale dell’epoca. Il cinema Zvezda prima del 1946 si chiamava Colosseo. Fu costruito dall’industriale Mihailo Šonda, proprietario di una fabbrica di cioccolato, nel giardino di un palazzo dove il fotografo di corte Milan Jovanović una decina di anni prima aveva aperto il proprio atelier. Il nome fu portato in dote dalla futura signora Šonda, originaria della cittadina bosniaca di Tuzla dove il fratello possedeva una sala cinematografica omonima. All’apertura ufficiale avvenuta verso la fine del 1911 venne anche il re Petar I Karađorđević, ad ammirare un cinema costruito seguendo le tecniche più all’avanguardia del tempo, “affinché tutta l’Europa ne desiderasse uno simile”. Durante la Seconda guerra mondiale fu preso in consegna dal governo di occupazione tedesco, e nel 1944 subì danneggiamenti a seguito dei bombardamenti alleati. Con la nazionalizzazione seguita alla fondazione dello Stato socialista jugoslavo, la maggioranza dei cinema cambiò nome, e così anche il Colosseo diventò Zvezda, “stella”. Alle proiezioni dei film “si arrivava in gruppi organizzati: collettivi, scuole, operai delle fabbriche …”.
La rinascita dello Zvezda
Incontriamo Marija Kuljanin e Jovan Jelisavčić, che assieme ad Hana Selimović, Luka Bursać e Mina Đukić hanno guidato l’occupazione, in una piccola stanza al primo piano del cinema trasformata in ufficio e sala riunioni. La sala di fronte è l’accampamento in cui dormono – una fila di materassi uno accanto all’altro sul pavimento, qualche stufa elettrica per riscaldarsi.
I sei ragazzi provengono tutti da percorsi di studi cinematografici. Alcuni come Marija Kuljanin devono ancora terminare la specializzazione in produzione, mentre Mina Đukić ha presentato il suo primo film “Neposlušni” (“I disobbedienti”) al recente festival del cinema d’autore di Belgrado , tenutosi proprio durante i primi giorni di occupazione.
“La preparazione dell’occupazione è durata pochi mesi. E’ stata più una rivolta istintiva che non un’azione freddamente pianificata. Semplicemente, le porte erano aperte e noi siamo entrati”.
In mezz’ora hanno allestito lo schermo ed organizzato la première di “Neposlušni”, cui hanno partecipato più di trecento persone, inaugurando la rinascita dello Zvezda. Quasi ogni giorno è possibile assistere a due proiezioni pomeridiane e una di mezzanotte, spesso accompagnate dall’incontro con i registi che concedono gratuitamente il proprio film. Cinema d’autore, vecchie pellicole del crni talas jugoslavo, sperimentatori come Guy Debord: una scelta di cura alla cui base si trova il rispetto.
Numerosi anche i momenti di riflessione pubblica, attraverso assemblee e tavole rotonde che hanno affrontato temi come la privatizzazione dei cinema o la cultura come bene pubblico: “Anche se non ne eravamo consapevoli al momento dell’occupazione, questo gesto ha portato a problematizzare una serie di questioni che non si esauriscono nella privatizzazione dello Zvezda ma toccano temi più ampi come il futuro stesso della cultura di questo paese, e il rapporto tra quest’ultima e la politica“.
Un futuro incerto
Senza un interlocutore con cui interfacciarsi, diventa difficile pianificare il futuro e gestire gli innumerevoli problemi strutturali dello stabile. Continuano Kuljanin e Jelisavčić: “Duemila metri quadrati di spazio, niente riscaldamento, corrente elettrica, acqua, hanno rubato persino caloriferi e altoparlanti… i volontari che ci aiutano nei lavori di pulizia e riparazione non mancano, ma finché non verranno chiarite le questioni proprietarie abbiamo le mani legate”.
Servirebbe un forte indirizzo pubblico, non tanto per una ri-nazionalizzazione giudicata da molti impraticabile ma se non altro per rivedere da capo il processo di privatizzazione.
Tornano alla mente le parole di Rina Durante quando parlava della “cultura come visione del mondo, e la politica lo strumento per realizzarla”. La fotografia che emerge è però l’assenza di una politica culturale, di una visione. Da settimane il ministro della Cultura ha promesso un incontro con gli occupanti, sempre disatteso. L’unico reale sostegno politico è giunto dalla circoscrizione in cui ha sede il cinema, altrove (Comune, Parlamento) per il momento solo qualche sporadica uscita pubblica da parte di singoli consiglieri o deputati.
L’occupazione dello Zvezda va letta coma la nascita a Belgrado di nuovo spazio di autonomia culturale, di differenza – nel cinema, nella società – non autoreferenziale o chiuso ma a suo modo cosmopolita nel lavoro di rete che sta nascendo con altre esperienze simili in Grecia, a Zagabria, Sarajevo o Roma. Come raccontano divertiti e un po’ sorpresi Kuljanin e Jelisavčić: “Settimana scorsa siamo stati contattati da un gruppo di ragazzi di Kosovska Mitrovica, anche loro vogliono occupare il proprio cinema cittadino!”.
Il vecchio archivista della Cineteca non ha fatto in tempo a essere testimone di questa occupazione. Ne sarebbe stato orgoglioso.
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