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Banja Luka: la gondola bosniaca

Una barca, lunga e stretta, spinta con un bastone. Una tradizione che ha rischiato di scomparire negli anni ’90 e che ora, seppur a fatica, resiste. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

10/11/2017, Edvard Cucek -

Banja-Luka-la-gondola-bosniaca

Chi è capitato sulle sponde del fiume Vrbas, uno dei fiumi della Bosnia Erzegovina nord-occidentale e soprattutto chi è capitato nella città di Banja Luka, si è sicuramente accorto che lungo questo bel fiume verde e vivace navigano barchette strane e particolari.

Chi le guida sta in piedi come un gondoliere, anche se Venezia è molto lontana. Tra le mani non tiene né remi né pagaia, ma un bastone lungo a volte sino a quattro metri.

Il fiume è ampio e vi è spazio anche per grandi imbarcazioni, queste barche però sono strette e dal fondo basso. Larghe non più di un metro per una lunghezza di circa otto. Sembrerebbe una sproporzione. Sono “oggetti” che sembrano solo sfiorare la superficie del fiume e quando osservandoli ci si accorge che vanno controcorrente, allora le loro misure iniziano ad avere un senso.

La barca del Vrbas e il suo corteggiatore onnipresente, il dajak, il bastone che la governa, rappresentano una tradizione che ancora vive tra le mani di sapienti custodi.

Una delle poche tradizioni sopravvissute in Bosnia Erzegovina.

La barca e il dajak convivono sul fiume Vrbas ormai da secoli. Li conoscevano già gli Ottomani quando regnavano su tutta la Bosnia. Li hanno conosciuti anche gli Austroungarici quando da conquistatori arrivarono nel 1878.

In un documento dell’epoca si afferma che durante i primi anni dell’occupazione austriaca, precisamente nel 1879, in una notte di coprifuoco, “alcuni disobbedienti bosniaci si spostavano da una riva all’altra del fiume sulle loro barche lunghe, silenziose e poco visibili” violando gli ordini del governatore che aveva imposto un coprifuoco alle popolazioni locali

In lingua turca la parola dayak significa bastone, in senso lato. Quello bosniaco ha invece una lunghezza ormai standard con una punta in acciaio detta Stizza dalla forma simile alla lettera Y.

La tradizione della barca del Vrbas è a mio avviso paragonabile a quella più celebre dei tuffi dal Ponte vecchio a Mostar. Con la differenza che i tuffi portano nel capoluogo erzegovese numerosi turisti, mentre la nostra barca è quasi sconosciuta.

 

Non è adeguatamente promossa nell’offerta turistica della città di Banja Luka e la sua produzione non è sostenuta dalle autorità locali. Una tradizione che rischia così di morire per la seconda volta.

La prima volta è stata negli anni Novanta. Dal 1992 al 1995 delle 60 barche esistenti ne sono sopravvissute soltanto sei. Spesso finivano slegate e lasciate navigare senza controllo lungo il fiume fino alla Sava. Altre volte venivano utilizzate come legna da ardere o fatte a pezzi e bruciate su fuochi nelle spiagge ormai deserte mentre intorno si intonavano canti militari.

Storicamente la “Barca del Vrbas“ era custodita dalle famiglie le cui case erano affacciate sul fiume: la utilizzavano quotidianamente e per loro era normale vederla trasformarsi da anatroccolo nero, imbrattato di catrame [per via del trattamento che veniva applicato alle barche], in cigno bianco, slanciato e veloce. Erano oggetto del desiderio dei giovani pieni di voglia di essere visti, notati e apprezzati come ragazzi del fiume con il Daiak nelle mani.

Il caso vuole che sulle sponde di quel fiume in quell’epoca quelle famiglie erano di musulmani bosniaci. Con l’arrivo dell’Austria-Ungheria la composizione della popolazione locale si modificò. Ai nuovi abitanti – tra cui tanti imprenditori e industriali arrivati anche con un po’ di spirito d’avventura – quella strana barca su cui rilassarsi remando lungo il fiume piacque. Le loro condizioni economiche aiutarono a far sì che questa strana barca divenne “alla moda”. Per fare un giro con gli amici o con qualche bella ragazza. Presto divenne simbolo della borghesia, di una gioventù libera che era riuscita a trasformare un oggetto a prima vista semplice e insignificante in un simbolo della propria appartenenza e che non poteva essere descritto utilizzando la chiave etnica e religiosa. Un’appartenenza al “viale” più famoso e amato dei loro giorni felici, il loro caro fiume Vrbas.

Oggi non sappiamo però se a Banja Luka vi siano ancora abbastanza giovani entusiasti e desiderosi di salvare questa tradizione.

Se questo simbolo del fiume verde è ancora in vita lo si deve ad una famiglia, discendente da friulani arrivati fin qui per cercare fortuna e successo nelle terre appena lasciate dagli Ottomani.

E’ la famiglia Zamolo, originaria di Tavagnacco, in provincia di Udine. Negli anni ’60 e ’70 due fratelli, Mario e Antonio, furono rispettivamente il primo geniale costruttore e innovatore di barche ed il secondo imbattibile vincitore di tutte le gare svoltesi lungo la Vrbas in quegli anni. La tradizione è ora portata avanti dai figli di Antonio, scomparso nel 2006. Dario ed Andrej sono tra i pochi rimasti a dedicarsi, con passione e serietà, alla produzione e manutenzione di questi gioielli. Pressoché gli unici custodi di una tradizione plurisecolare.

E’ grazie a loro che si ha anche un “Daiak klub ” che insegna ai giovani come avventurarsi nel mondo delle veloci gondole bosniache. E trasmette loro l’amore ed il rispetto per una città che ha visto la propria identità mutilata e vede i suoi figli sparsi per l’Europa. Gli Zamolo in questo loro sforzo per ora sono lasciati soli, ma la speranza è che il loro impegno sia solo l’inizio di una riscoperta.

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