Tipologia: Intervista

Area: Balcani

Categoria:

Balcani: un successo europeo?

Ciò che è funzionato in Europa centrale e orientale non sembra farlo nei Balcani. Perché? Una recente pubblicazione, dedicata al processo di integrazione europea del sud est Europa, cerca di dare alcune risposte. Ne abbiamo parlato con la curatrice Arolda Elbasani

24/05/2013, Marjola Rukaj -

Balcani-un-successo-europeo

Quale lo scopo del libro che recentemente ha curato?

Vi è una gran mole di letteratura accademica che analizza il ruolo dell’integrazione europea nell’incoraggiare riforme rapide e non conflittuali nei paesi post-comunisti dell’Europa centrale e orientale. Gran parte di questa letteratura sostiene che la politica UE dell’allargamento è stato uno strumento di gran successo per consolidare i principi della democrazia e del libero mercato nei paesi dell’est Europa, ora divenuti stati membri.

Le stesse aspettative entusiastiche hanno reso possibile le politiche di allargamento riguardanti i Balcani occidentali. Quando l’UE ha esteso, nel 2000, le sue promesse di allargamento ai Balcani occidentali nei circoli accademici ci si aspettava che l’allargamento avrebbe disciplinato ed affrettato il percorso di riforma – sino ad allora lento – in questi paesi, nello stesso modo in cui lo aveva fatto nell’Europa orientale e centrale.

Ciononostante, vari studi dimostrano come il contributo dell’UE sia stato meno efficace di quanto ci si aspettasse e, in alcuni casi, addirittura marginale. Il nostro libro prova a spiegare questo gap tra le alte aspettative nei confronti del ruolo dell’UE e gli scarsi risultati nella pratica.

Cosa c’è alla base di questa divergenza?

E’ una domanda da un milione di euro. Quello che abbiamo fatto è stato teorizzare lo spettro di fattori che causano questo gap e andarli ad analizzare in modo empirico in tutta una serie di riforme.

A livello teorico partiamo dalla considerazione che i Balcani occidentali sono casi difficili di democratizzazione, cioè che vi è un ampio spettro di condizioni negative che ostacolano le riforme. Questo non significa non abbiano speranze, ma certamente significa che gli attori locali – le loro élites, la società civile e in generale la società – dovranno affrontare quegli ostacoli e li dovranno superare.

Ostacoli spesso ereditati dal passato. E sono gli stessi ostacoli che mettono in discussione il ruolo dell’UE e che spiegano il gap. Tra tutti questi fattori il principale è quello dello “stateness”.

Cosa si intende per “stateness”?

In un capitolo teorico concettualizziamo il termine “stateness” attribuendogli due dimensioni: sentimento di appartenenza non contestata alla stessa comunità politica e capacità infrastrutturale nell’implementare le decisioni statali e far applicare le leggi.

In che grado è presente, o assente, la “stateness” nei Balcani?

I Balcani occidentali sono caratterizzati da stati deboli. Dove la “stateness” viene messa in dubbio e molta energia viene distolta dalle riforme per essere utilizzata nel contrastare movimenti secessionisti, controversie sull’identità nazionale, dispute confinarie, tensioni etniche.

E poi abbiamo la burocrazia, utilizzata per scopi privati e interessi clientelari. Per questo poco di quanto richiesto dall’UE viene in effetti implementato.

In questo contesto si può affiancare nell’analisi l’Albania agli stati sorti dalla disgregazione della Jugoslavia?

Può essere sicuramente paragonata per quanto riguarda la debolezza dello stato e nell’analisi della classe dirigente. Come in Albania infatti anche molti altri stati dei Balcani occidentali sono in difficoltà nel far emergere élites liberali, non compromesse con il passato. Hanno cambiato nomi, gruppi d’appartenenza o etichette ma i vecchi gruppi al potere sono riusciti a sopravvivere ai cambi di regime e a riadattarsi al nuovo sistema politico ed economico.

A quale passato si riferisce? Al comunismo, ai conflitti degli anni ’90?

Sicuramente al comunismo ma anche ai risvolti autoritari e alle guerre degli anni ’90 che sono il risultato di per se stesse della mancanza di attori e strategie democratizzanti.

Infatti dopo la caduta del comunismo in Jugoslavia le vecchie élites riuscirono a restare al potere attraverso l’isolamento e il nazionalismo. In modo simile l’Albania è collassata in un evidente autoritarismo sotto la guida di un élite con solidi legami con il passato comunista.

Ci sono nuove generazioni che stanno entrando in politica a vent’anni dalla caduta del comunismo?

Certo, c’è qualche giovane. Tutti i Balcani occidentali hanno fatto progressi se li si paragona a vent’anni fa. Anche se i democratici non costituiscono la maggioranza sono ora in grado di competere con i nazionalisti e i gruppi autoritari e sono riusciti a rafforzare le loro posizioni. E questo è positivo.

Lei ha fatto cenno alle capacità amministrative, significa che ad oggi non vi è una classe amministrativa all’altezza delle riforme richieste?

Le deficienze amministrative dipendono dalla mancanza di personale qualificato ma allo stesso tempo da una debolezza delle istituzioni.

Per avere un sistema che funziona occorre stabilire procedure efficienti per la selezione del personale, pagare bene quest’ultimo, assicurare carriere stabili e liberarsi di un sistema amministrativo politicizzato.

Questo non sembra essere avvenuto nei Balcani occidentali.

Come influisce il processo della costruzione della nazione sulla scarsa implementazione delle riforme perorate dall’UE?

Consideriamo la costruzione della nazione come uno dei primi elementi della “stateness”. Quando non vi è accordo sull’unità nazionale, la maggior parte dell’energia politica viene impiegata a risolvere questa tipologia di tensioni: chi includere, chi escludere e cosa fare di tutto questo. E’ chiaro che se uno stato è omogeneo dal punto di vista etnico raggiunge più facilmente il consensus sull’unità nazionale.

A volte vi sono identità regionali che nutrono il clientelismo politico…

Questo è un problema comune dove vi sono divisioni etniche e uno dei capitoli del nostro libro – che analizza il ruolo dell’UE nel promuovere elezioni democratiche e libere in Macedonia – si occupa esattamente di questo.

Nel capitolo si mostra come anche se l’Unione europea ha richiesto alla Macedonia – per poter procedere lungo il cammino UE – elezioni libere e democratiche, non è riuscita ad occuparsi del voto clientelare che è un fenomeno molto diffuso in aree divise dal punto di vista etnico.

Le autorità macedoni hanno riformato tutte le leggi possibili ma ugualmente la gente vota per i partiti del loro gruppo etnico, che promettono loro lavoro e altri benefici. L’UE è riuscita a far cambiare le leggi ma non le strategie clientelari.

Ma avviene lo stesso in Albania, anche se non vi sono divisioni etniche…

Occorrerebbe studiare nello specifico il voto clientelare in Albania per capire quante siano o meno le somiglianze. In questo libro analizziamo un altro aspetto dell’Albania: la pubblica amministrazione. E in questo abbiamo trovato molte somiglianze con il resto dei Balcani occidentali.

La legislazione è stata messa letteralmente sottosopra per rispondere alle richieste UE, per creare una burocrazia professionale e stabile ma tutto questo non ha portato alcun reale cambiamento nel controllo che i partiti continuano ad esercitare sulle istituzioni statali, sul loro piazzare personale di fiducia e non può esservi solo la questione della divisione etnica come spiegazione delle varie strategie clientelari in varie aree di riforma.

Potremmo quindi dire che le classi dirigenti non prendono sul serio le riforme UE? Cosa significa l’UE per i Balcani occidentali oggi?

Non è vero, le prendono molto sul serio perché è l’opinione pubblica a prendere l’UE molto sul serio. Nella maggior parte dei paesi l’opinione pubblica è in grande maggioranza a favore dell’integrazione nell’UE. In Albania, a dire il vero unica in quest’aspetto, lo è più del 90% della popolazione.

Quindi i partiti politici, per essere premiati elettoralmente, devono dimostrate passi avanti in questo processo. O meglio: diciamo che tendono a fare le riforme minime necessarie per dimostrare di adempiere ai criteri UE.

Il sostegno all’UE avviene a tre livelli: verbale, con una retorica pro-UE; legale, con l’adozione di riforme legislative richieste dall’UE; sostanziale, con l’implementazione delle leggi riformate. Abbiamo molto dei primi due punti, poco del terzo. E questo è il gap di cui parliamo nel libro.

Quindi il mostrarsi pro-UE rischia d’essere solo una strategia di legittimità per rimanere al potere…

Lo diciamo in uno dei capitoli del libro: riforme legislative molto rapide rischiano di avere come paradossale contraltare la stagnazione della riforme effettive. Le élites mettono in campo la retorica e l’adozione di nuove normative, ma non le implementano, per lasciare immutato il sistema da cui traggono beneficio. In questi termini l’UE viene utilizzata per stare al potere.

L’opinione pubblica quando ne è consapevole?

Non sono in grado di dirlo. Non era lo scopo della ricerca approfondire quest’aspetto. Io personalmente ritengo che la gente è ben consapevole del fatto che i politici dicono molto più di quanto poi fanno.

Quali sono le riforme a suo avviso più “traumatiche” che le classi dirigenti si trovano ad implementare?

Dipende da caso a caso. In alcuni paesi si tratta di riuscire a tenere elezioni giuste, in altri, come in Croazia, la priorità è stato lo stato di diritto, tant’è che si è arrivati a riforme molto costose dal punto di vista politico, con un’intera classe dirigente politica finita davanti alla magistratura.

Si sta procedendo molto lentamente verso l’UE. Quale la prospettiva europea di questi paesi?

Di sicuro non vi sarà nessuna ondata di allargamento che riguarda l’intera regione. Ogni paese procederà al suo passo. Per molti sarà un percorso molto lungo e l’UE stessa sta attraversando una certa fatica da allargamento e una propria crisi, quindi ci penserà due volte prima di integrare paesi problematici. Per farla breve: servirà tanto tempo e molti sforzi per fare i compiti a casa assegnati dall’UE a questi paesi.

Vi è il rischio che la lentezza nei progressi alimenti l’euroscetticismo e dia linfa a populismo e nazionalismo nei Balcani?

Non è stato oggetto della nostra ricerca. Ma ritengo che gli scarsi progressi non scivoleranno nel populismo e che in ogni caso sia una questione che debba essere affrontata dall’UE. E’ compito delle élites locali, degli intellettuali locali, dei giornalisti locali occuparsene e comprendere che con il populismo non vanno da nessuna parte.

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