Azerbaijan, dove il petrolio non è trasparente
Grazie alle proprie risorse energetiche, l’Azerbaijan ha avuto per anni una crescita del PIL tra le più rapide al mondo (35% nel 2006). Un fondo nazionale è stato stabilito per gestire questi ingenti proventi. Iniziative internazionali a favore della trasparenza tengono sott’occhio la principale compagnia energetica del Paese. Ma opacità e corruzione sembrano dominare non quando si accumula ricchezza, ma quando essa viene spesa
Dopo il fisiologico crollo dei primi anni d’indipendenza, l’economia dell’Azerbaijan è cresciuta a ritmi impressionanti, inondata dai petrodollari. Negli anni Novanta, il passaggio chiave fu la firma dei grandi contratti petroliferi tra il Governo e il consorzio internazionale AIOC (Azerbaijan International Operating Company). Negli anni Duemila, la svolta fu invece rappresentata dalla costruzione dell’oleodotto più costoso di tutti i tempi, il Baku-Tbilisi-Ceyhan, passato anche alla storia come tassello centrale della pipeline war tra Occidente e Russia. Dal 2001 al 2009, la crescita media annua del prodotto interno lordo azero si è attestata su uno stupefacente 16%, con un picco del 35% nel 2006 (il tasso di crescita più elevato al mondo). Tra i fattori determinanti, un’espansione della produzione di idrocarburi, un aumento deciso dei loro prezzi, e un accrescimento della spesa pubblica. Le riserve di valuta estera avrebbero toccato la quota record dei 18 miliardi di dollari alla fine del 2008, ossia il doppio del debito estero. Secondo il Fondo monetario internazionale, il settore petrolifero rappresentava nel 2009 il 42% del valore aggiunto e il 91% delle esportazioni, e assorbiva l’84% dell’investimento estero. Gli esperti prevedono tuttavia un declino sostanziale di quest’ultimo, in linea con un superamento del picco della produzione petrolifera da attendersi nell’immediato, forse già nel 2012. Dopo tre anni di crescita ridimensionata, imputabili alla crisi finanziaria globale, la dipendenza dell’economia azera dal petrolio risulta ulteriormente accresciuta. Secondo il think-tank locale CESD, il settore petrolifero rappresenta quest’anno il 65% del valore aggiunto e il 92% delle esportazioni dell’Azerbaijan. Il 73% del bilancio statale del 2012, che ammonterebbe a oltre 16 miliardi di manat (poco più di 15 miliardi di euro), sarà di provenienza petrolifera. Il destino del piccolo Paese caucasico è insomma plasmato dall’oro nero.
Storicamente, solo i Paesi con sistemi efficienti, responsabili e democratici sono riusciti a tradurre la propria ricchezza petrolifera in ricchezza e benessere per la collettività, come mostrato dall’esperienza paradigmatica della Norvegia. Se si incamerano grandi introiti senza avere sistemi di governo trasparenti, d’altro canto, il risultato probabile è un aumento della corruzione, un rafforzamento delle autocrazie oligarchiche e, nel lungo termine, un risentimento sociale che può sfociare in manifestazioni violente. Nonostante eccezioni significative, le industrie estrattive tendono a produrre una ricchezza che ingrassa le tasche di pochi senza creare abbastanza lavoro per avere ricadute positive reali sulla società.
Se tutte le degenerazioni descritte dalla teoria trovano riscontro pratico in Azerbaijan, particolare attenzione va rivolta all’annosa piaga della corruzione – al centro dell’agenda presidenziale e a monte di enormi sprechi di ricchezza petrolifera. Secondo David Hoffmann, se l’opinione pubblica azera non si è finora ribellata a tali sprechi è soprattutto perché i media ne hanno saputo convogliare l’attenzione altrove, segnatamente sul Nagorno Karabakh. Se il governo commettesse gravi errori sul Karabakh, tuttavia, anche le critiche alla gestione del patrimonio petrolifero esploderebbero. L’equilibrio è dunque precario e la strategia mediatica potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Un problema tipico dell’Azerbaijan, che aumenta ulteriormente i rischi già descritti, è l’accentramento della ricchezza petrolifera. La posizione geografica dei giacimenti corrisponde al fulcro del potere politico, ossia la capitale Baku e la penisola su cui questa sorge. Se gli idrocarburi fossero stati maggiormente distribuiti in diverse parti del territorio, sarebbero forse potuti emergere dei contropoteri nella forma di élite locali. Attualmente invece, sia il potere politico che le rendite petrolifere appaiono concentrati nelle mani del compatto clan dei Naxçivani – raccolto attorno alla famiglia presidenziale. Esiste un network informale che controlla Socar (la compagnia petrolifera di Stato azera) e che costituisce l’interfaccia tra l’azienda e le istituzioni statali. I legami di Socar con l’apparato presidenziale sono più saldi di quanto non accada in altre autocrazie petrolifere. L’attuale capo di Stato Ilham Aliyev, ad esempio, è stato il vicepresidente di Socar negli anni in cui il padre era presidente dell’Azerbaijan. I conflitti di interesse sono sempre stati palesi e le rivalità politiche hanno sempre fatto da sfondo alle maggiori decisioni prese in ambito petrolifero, a partire da quando, già nel 1996, Rasul Guliyev fu esiliato in quanto accusato dagli Aliyev di appropriazione indebita nella gestione della principale raffineria del Paese.
Socar
I sospetti sull’opacità di Socar sono confermati dal monitoraggio internazionale. Il Promoting Revenue Transparency in Oil and Gas Companies – studio effettuato annualmente dal Revenue Watch Institute e da Transparency International – valuta le compagnie secondo i risultati pubblici delle loro campagne anticorruzione e la loro trasparenza a livello organizzativo-strutturale. Il report 2011 annovera Socar tra le otto società su quarantaquattro totalizzanti zero punti nel primo indicatore. Come Gazprom (Russia), GEPetrol (Guinea Equatoriale), Nioc (Iran), Nnpc (Nigeria), Snpc (Congo), Sonangol (Angola) e Sonatrach (Algeria), la Socar non ha infatti intrapreso alcuna iniziativa pubblica per contrastare la corruzione petrolifera. L’opacità di Socar si manifesta anche a livello organizzativo-strutturale (informazioni sulle sussidiarie, sulle partnership, sugli scenari operativi e sui conti), dove la compagnia azera occupa il trentatreesimo posto, sensibilmente peggio delle omologhe russe e kazache.
Lo studio rivela una forte correlazione tra proprietà pubblica delle compagnie petrolifere, la loro mancata quotazione azionaria e la loro opacità organizzativo-strutturale. Molti analisti sottolineano tuttavia che l’adesione dell’Azerbaijan all’Iniziativa per la Trasparenza dell’Industria Estrattiva (EITI) ha comportato grandi miglioramenti. Dopo anni di inadempienza, la Socar si è allineata agli standard internazionali pubblicando il bilancio e acconsentendo a una revisione contabile indipendente. Di conseguenza, l’Azerbaijan è stato il primo Paese al mondo ad essere dichiarato completamente in regola con l’EITI nel 2009. Khadija Ismayilova, combattiva giornalista d’inchiesta già responsabile di RFE/RL Azerbaijan, denuncia però che si sarebbe dovuto intraprendere l’iniziativa tempo addietro o se non altro renderla retroattiva, in modo da coprire le transazioni effettuate nel periodo precedente al suo lancio. “Nessuno conosce l’entità dei pagamenti effettuati dalle compagnie petrolifere straniere al Governo dell’Azerbaijan negli anni ’90, quando cioè vennero siglati i contratti decisivi” – racconta la Ismayilova a Osservatorio. Le aree grigie riguardano soprattutto i bonus e gli anticipi. “Chi ha concepito e applicato l’EITI” – rilancia la giornalista – “ha insomma deciso di indulgere alle malefatte precedenti”. In ogni caso, anche dopo l’adesione, sono di pubblico dominio i flussi totali, che però non vengono scomposti nelle singole voci di pagamento. Molte compagnie rivelano volontariamente dati più precisi, ma altre perseverano in un atteggiamento di segretezza, specialmente le più piccole.
Sofaz
L’EITI non è l’unico frutto della consulenza internazionale. Per scongiurare gli scompensi provocati dall’immissione subitanea di capitali nell’economia, descritti dalla teoria della “Sindrome Olandese”, l’Azerbaijan ha accolto le direttive di Banca Mondiale e FMI dando origine al fondo petrolifero “Sofaz” nel 1999. Decisione assennata in economie imperniate sulle commodity, l’istituzione di un fondo sovrano contribuisce ad attutire le distorsioni innescate dalla volatilità di queste ultime. Tale veicolo d’investimento stabilizza i bilanci pubblici isolandoli dalle fluttuazioni, modula l’allocazione delle risorse in base alle esigenze macroeconomiche e costituisce una fonte di liquidità preziosa in momenti di crisi. Al fine di inibire un apprezzamento eccessivo della valuta locale, che deprimerebbe le esportazioni dei settori non petroliferi, i fondi sovrani investono abbondantemente in valuta estera – acquistando asset di provenienza diversificata in portfolio finanziari di ampio respiro. Il ricorso, seppur giustificato, a strumenti così complicati, non favorisce certo il compito di chi vuole controllare la destinazione dei proventi petroliferi. Mentre la voce delle entrate del Sofaz è globalmente trasparente, le spese non lo sono. Come sostiene Galib Efendiyev, “non c’è una chiara strategia su come utilizzare le risorse né un modo democratico per deciderlo […] non c’è nessun input da parte della società su come allocare le enormi risorse del Sofaz, ed è tutto controllato da una persona, il Presidente”. Contro la legge, tutto ciò che il Sofaz riceve viene sistematicamente speso, e questo accadrà anche nel 2012. Una parte consistente degli investimenti del fondo è diretta verso le opere infrastrutturali, alimentando così il settore più torbido dell’economia azera. La corruzione è sistemica a tutti i livelli nei lavori viabilistici e nelle colossali opere di abbellimento che stanno cambiando il volto della capitale. Solo per citare un esempio, l’impresa a cui è stata affidata la realizzazione del nuovo aeroporto è legata alla famiglia presidenziale. Mancano completamente informazioni sui criteri di assegnazione degli appalti e gli annunci d’asta non sono pubblici. Non si salvano nemmeno i progetti umanitari in favore dei rifugiati del Nagorno-Karabakh: “la costruzione di immobili popolari per i profughi, finanziata quasi completamente dai petrodollari” – rivela la Ismayilova a Osservatorio – “è stata segnata da pesanti episodi di corruzione”. Persino il programma per l’incoraggiamento dell’istruzione all’estero è mal gestito, tanto che non si conoscono i nomi dei beneficiari delle borse di studio.
Nonostante la performance dell’economia azera sia innegabilmente incoraggiante, pare che gli indicatori non riescano a catturare l’enorme spreco di ricchezza petrolifera indotto da una corruzione soffocante. Da quanto si è detto, si può dedurre che gli episodi di corruzione più clamorosi non si verificano nella compravendita di idrocarburi o nelle trattative per gli accordi di sfruttamento, bensì a uno stadio successivo – quando cioè i proventi petroliferi vengono investiti in settori non petroliferi. Occorre tuttavia usare prudenza nell’assolvere il settore petrolifero, in quanto la mancanza di grandi scandali può dipendere da una maggiore abilità degli attori coinvolti nell’occultare le prove o da un ricorso a metodi più raffinati di corruzione. Data l’importanza dell’industria estrattiva per l’Azerbaijan, è auspicabile che il giornalismo d’inchiesta approfondisca le proprie indagini.
*Il nome dell’autore è stato oscurato per motivi di sicurezza
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