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Armenia-Azerbaijan, si torna a sparare

Il 16 novembre Armenia e Azerbaijan sono tornati a spararsi lungo la linea di confine. Si conferma quindi la situazione esplosiva tra i due stati. Il 17 novembre si è arrivati ad un nuovo (il terzo in un anno) cessate il fuoco, concordato con la mediazione russa

19/11/2021, Marilisa Lorusso -

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Fra Armenia e Azerbaijan è di nuovo scontro e di nuovo un cessate-il-fuoco che probabilmente avrà ripercussioni sui processi di normalizzazione regionale. A luglio scorso, dopo scontri sul confine, si erano interrotti i gruppi di lavoro per l’apertura delle comunicazioni e dei trasporti regionali, solo recentemente erano ripartiti. Fino a questa nuova escalation di violenza.

Cosa è successo

Le notizie hanno cominciato a circolare da ambo i lati del confine il 16 novembre confermando spostamenti di truppe, scontri in vari tratti del confine armeno – azero, che abbiamo più volte indicato come la nuova mela della discordia, ma in particolare vicino al lago Sev a Sjunik, area sensibile dove è iniziata la crisi transfrontaliera. Dalla mattina alla sera si sono rincorsi i comunicati stampa dei ministeri degli Esteri armeni e azeri su vari incidenti a Kalbajar, Lachin, Gadabay, Tovuz e Aghstafa, con accuse reciproche : secondo Baku una serie di provocazioni armate armene che stavano causando feriti, secondo Yerevan un avanzamento azero in territorio armeno che stava causando morti e feriti e la perdita di due posizioni dell’esercito armeno.

In serata a Yerevan la parola è passata dal ministero della Difesa al ministero degli Esteri. L’Armenia in affanno ha messo sul piatto l’internazionalizzazione del conflitto cercando di attivare i canali che ha a propria disposizione per imporre un arretramento dell’Azerbaijan. I canali che Yerevan può percorrere, per la propria statura internazionale, sono fondamentalmente tre e tutte e tre le strade portano a Mosca.

La Russia è la cofirmataria della dichiarazione congiunta che ha dato uno stop alle ostilità il 10 novembre 2020, è il cuore dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, quanto rimane del Patto di Varsavia, di cui fa parte l’Armenia ma non l’Azerbaijan), ed è co-presidente insieme a Stati Uniti e Francia del Gruppo di Minsk, che ad oggi è l’unico formato che si propone di trovare una soluzione politica al conflitto in Nagorno Karabakh. Il Gruppo di Minsk non prevede nel proprio mandato la risoluzione delle questioni frontaliere Armenia-Azerbaijan, ma di fatto i pochi incontri (2 in tutto) che ci sono stati nell’ultimo anno fra i ministri degli Esteri di Baku e Yerevan si sono tenuti grazie e con i 3 co-presidenti, per cui questo formato rimane un punto di contatto fondamentale fra le parti.

Sotto il profilo militare Yerevan si è appellata al diritto di respingere un’aggressione sul proprio territorio, che implica la possibilità di richiedere l’intervento dell’OTSC.

La gravità della situazione è resa evidente per il fatto che Yerevan ha messo tutte le carte sul tavolo: il Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale A. Grigoryan – figura molto attiva sia mediaticamente che nei rapporti internazionali in tutto il periodo del dopoguerra – si è appellato direttamente agli accordi armeno-russi del 1997 e ai mutui obblighi per la tutela dell’integrità territoriale dei due paesi alleati.

Il giro di telefonate

Vivissima preoccupazione non solo nelle società investite solo fino a un anno fa dal conflitto, ma anche nelle fila dell’esercito russo presente sul territorio e in quelle della diplomazia internazionale. Si sono mossi tutti, e tutti con l’intenzione di impedire gli automatismi di intervento che gli accordi evocati da Yerevan imporrebbero.

Mentre la base militare russa di Gyumri entrava in allerta, anche a causa di una non chiara esplosione nelle proprie vicinanze, il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha espresso la piena disponibilità a contribuire a una normalizzazione della situazione al telefono con le parti, più una telefonata al ministro della Difesa turco Hulusi Akar, a riprova di come siano cambiati gli equilibri militari nella regione.

L’Azerbaijan ha aperto le porte alla presenza militare turca, e ora c’è un attore in più da considerare in un conflitto che partito dalla questione del Karabakh si sta allargando, coinvolgendo aree fisiche più larghe e un maggior numero di attori primari coinvolti. La Turchia ha dichiarato l’episodio frutto del terrorismo armeno.

Dal Cremlino non sono partite telefonate, ma in serata il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha chiamato direttamente il presidente russo Vladimir Putin.

È partita invece la telefonata da Bruxelles : il segretario Charles Michel ha parlato sia con Pashinyan che con il presidente azero Aliev.

L’ennesimo cessate-il-fuoco

Da quando il conflitto a bassa intensità – quale era negli ultimi anni quello per il Nagorno Karabakh – si è incendiato il 27 settembre 2020 sono numerosi i cessate-il-fuoco concordati. Per ora sono tre, quelli che hanno funzionato: quello del 10 novembre, quello del 28 luglio 2021 che ha messo fine a un altro scontro simile a quello di questa settimana, e quello di ieri.

Alle 21.50 ora di Yerevan è stato reso noto che dalle 18.30 era entrato in vigore un cessate-il-fuoco per le zone che erano state interessate dai combattimenti. Il cessate-il-fuoco è stato concordato con la mediazione russa.

I due cessate-il-fuoco di luglio e novembre 2021 sono stati necessari per placare combattimenti che non riguardano i territori del Karabakh, ma prevalentemente il confine armeno-azero che si conferma quindi origine di contenziosi esplosivi. Il bilancio di questa nuova escalation è – nel campo armeno – di un morto armeno e numerosi dispersi, da parte azerbaijana di 7 morti e di diversi feriti da ambo le parti. infine vi è un nuovo gruppo di prigionieri di guerra. Una dozzina di armeni sarebbero stati catturati durante l’avanzata azera. Dal 12 maggio 2021, quando la questione di Sjunik è iniziata, sarebbero in tutto 41 i km di territorio che l’Armenia accusa l’Azerbaijan di aver occupato.

Con questo nuovo cessate-il-fuoco si ritorna alla non-pace armata del 15 novembre, con tutti i contenziosi esacerbati da un nuovo scontro e da un livello di fiducia reciproca sempre più minato dall’assenza di un coerente piano di pacificazione negoziale e politica.

L’Azerbaijan lamenta continue provocazioni da parte armena, come la visita del ministro della Difesa di Yerevan in Karabakh e il rafforzamento militare delle postazioni militari nella regione.

L’Armenia accusa l’Azerbaijan di una strisciante annessione accompagnata da dichiarazioni di revanscismo territoriale. E sul terreno, a parte i peace-keeper russi in un’area circoscritta e le guardie di frontiera russe non c’è nessuno e nessun meccanismo per evitare che episodi come quelli di questa settimana si ripetano.

Cade per il momento nel vuoto la proposta di Pashinyan di demilitarizzare da ambo i lati i confini e attivare una missione di monitoraggio internazionale in attesa di una accordo comprensivo o a tappe sulla delimitazione e demarcazione dei confini di stato. I confini per il momento si stanno delimitando a suon di posizioni militari, nella fretta di precedere l’arrivo della neve che renderà gli spostamenti nell’area più difficoltosi. Non stupisce che le principali crisi si siano avute quindi da maggio ad oggi, i mesi ideali per mettere la controparte e la comunità internazionale davanti a una situazione di fait accompli.

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