Allargamento UE, come ripartire?
Far ripartire il processo di adesione dei Balcani occidentali all’Unione europea trasformandolo in un percorso a tappe? Ne abbiamo parlato con Michael Emerson membro del think tank CEPS e curatore di una recente proposta sulla riforma del processo di allargamento dell’UE
A inizio ottobre il think tank CEPS , in collaborazione con il CEP di Belgrado, ha pubblicato una proposta per riformare il processo di adesione all’Unione Europea dei Balcani occidentali: “A Template for Staged Accession to the EU ”.
L’idea base è la trasformazione del processo di adesione, de facto bloccato da anni, in un percorso in quattro tappe: “accesso iniziale” (stadio 1); “accesso intermedio” (stadio 2); “nuovo membro” (stadio 3); “adesione completa” (stadio 4). Un sistema che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe riuscire sia a incentivare maggiormente le classi dirigenti balcaniche ad attuare le riforme richieste da Bruxelles, che a offrire rassicurazioni agli Stati membri più ostili all’entrata di nuovi paesi nel club UE.
Fin dall’adesione di Romania e Bulgaria (2007), tra gli addetti ai lavori si parla infatti di “fatica da allargamento”, un’espressione che sintetizza la difficoltà di Bruxelles a integrare i sette paesi candidati – oltre ai sei dei Balcani occidentali, sulla carta anche la Turchia resta in lizza. L’ultima entrata, quella della Croazia, è avvenuta nel 2013 e al momento l’UE non prevede di riaprire le porte a breve.
Nonostante la maggior parte degli osservatori ritenga che le ragioni per l’opposizione di alcuni paesi siano essenzialmente di natura interna (obiettivi di consenso elettorale, l’involuzione autocratica di Polonia e Ungheria, timori del crimine organizzato), le istituzioni UE non possono che concentrarsi sulle performance dei paesi candidati, nel tentativo di guadagnare tempo aspettando che riemerga un clima più favorevole all’allargamento. Già nel febbraio del 2020 la Commissione europea aveva quindi presentato una nuova metodologia per la valutazione dei progressi degli Stati che aspirano a unirsi all’UE.
Quale potrebbe essere il valore aggiunto del processo a tappe delineato dal tandem CEPS-CEP?
Ne abbiamo parlato con il suo curatore del report, Michael Emerson (CEPS).
Partiamo dall’aspetto più critico. Come questo sistema potrebbe riuscire a convincere gli Stati membri più contrari alla prospettiva dell’allargamento?
Lo stadio 3 della nostra proposta prevede che lo Stato candidato partecipi a pieno titolo a tutte le attività dell’UE, inclusa la redistribuzione dei fondi comunitari, con due sole eccezioni: non godrebbe di potere di veto nelle discussioni in seno al Consiglio, e non avrebbe il diritto di esprimere un membro della Commissione europea. Questi due elementi sono esattamente quelli che più preoccupano gli Stati meno favorevoli a nuove adesioni. Negli ultimi anni la questione del potere di veto è diventata particolarmente controversa, come si può osservare nel caso delle violazioni dello Stato di diritto compiute dalla Polonia o nel caso dell’ostruzionismo della Bulgaria sull’inizio del processo di adesione della Macedonia del Nord. Per quanto riguarda la nomina di un membro della Commissione, può sembrare solo una questione tecnica. Tuttavia, già secondo i Trattati, il numero dei membri della Commissione dovrebbe essere pari a due terzi del numero totale degli Stati membri. È il Consiglio europeo che ha deliberatamente deciso di ignorare questa condizione.
Passando sull’altro versante, come questo sistema potrebbe rivelarsi un incentivo maggiore di quello attuale per spingere le élite politiche dei paesi candidati ad attuare le riforme, specie tenendo in considerazione che si prevederebbe anche una clausola di reversibilità, ovvero la possibilità di ritornare allo stadio precedente in caso di certificato regresso?
Partiamo da un presupposto: il sistema attuale è bloccato, non pare in grado di fornire questi incentivi alla classe politica locale. I paesi candidati sono disillusi, non credono più che l’UE sia intenzionata ad accoglierli. Questa la loro percezione, che mi pare abbastanza fondata. La nostra idea punta a far ripartire il processo di allargamento, razionalizzandolo e ponendolo su basi più plausibili e pratiche, che potrebbero aggirare l’impasse che viviamo oggi.
A mio modo di vedere, la concreta minaccia portata dalla reversibilità del processo è un incentivo ulteriore per varare riforme efficaci e dagli effetti duraturi. La clausola di reversibilità può essere interpretata in due modi diversi. Primo, come un meccanismo di salvaguardia da attivare nel caso in cui degli Stati si pongano apertamente al di fuori del perimetro valoriale dell’Ue (democrazia, diritti umani, Stato di diritto). Le istituzioni europee vivono l’attuale crisi con la Polonia sul primato della legge comunitaria come una questione esistenziale per il funzionamento dell’UE. Credo che introdurre la possibilità di privare uno Stato di alcune prerogative in risposta a violazioni del genere sarebbe un’opzione sostenuta da molti. Secondo, come un altro processo altamente burocratizzato, dove a un minimo ritardo nell’applicazione di una specifica riforma scatta automaticamente la retrocessione allo step precedente. A nostro avviso, la concreta declinazione della reversibilità andrebbe discussa apertamente con i paesi candidati.
Rispetto all’attuale modello, che nel report definite “binario”, il sistema a stadi porterebbe alla frammentazione del processo di adesione, che verrebbe spacchettato in più componenti (“cluster”). Come funzionerebbe concretamente?
Nel nostro modello sarebbero delle valutazioni su base quantitativa a venire impiegate per giudicare il progresso raggiunto nei vari ambiti (politico, legale, economico). Alla fine del processo di valutazione ogni Stato riceverebbe un giudizio complessivo, una media dell’avanzamento realizzato nell’implementazione dei trenta e più capitoli dell’acquis communautaire. Per passare alla fase successiva il paese candidato dovrebbe ottenere una media complessiva alta, ma anche buoni risultati in alcuni ambiti specifici giudicati di maggiore importanza, come per esempio lo stato di diritto. Quindi sì, avverrebbe una frammentazione del processo di adesione, ma alla fine sarebbe comunque l’avanzamento nel suo complesso a venire valutato, solo in modo più accurato.
Già oggi abbiamo un certo livello di frammentazione interno all’UE, con alcuni Stati che non appartengono all’Eurozona o all’area Schengen. Quindi non credo che sarebbe una novità traumatica.
Quale sarebbe la finalità dell’introduzione di giudizi numerici, uno dei punti chiave della vostra proposta?
Il vantaggio principale sarebbe l’introduzione di una base più formale per la valutazione dei progressi di qualunque Stato che ambisca a entrare nell’UE – oggi parliamo di Balcani occidentali, domani forse di Europa orientale. Questo permetterebbe di valutare in modo più credibile ed oggettivo l’applicazione del principio “more for more”, che lega l’efficacia delle riforme varate all’aumento dei fondi messi a disposizione da Bruxelles.
A pagina 5 del vostro report si legge: “Invece che essere visti come membri di serie B, i nuovi Stati membri [allo stadio 3] sarebbero visti come delle avanguardie, in quanto la non concessione del potere di veto li avvicinerebbe già a quello che l’UE probabilmente sarà divenuta nel frattempo. La centralità del requisito di unanimità verrà progressivamente ridotta”. Cosa significa?
Noi ipotizziamo che, quando uno dei paesi candidati sarà effettivamente arrivato allo stadio 3, l’Unione europea avrà già attuato questa riforma, un’evoluzione evidentemente necessaria, come emerge da molti dibattiti odierni. Di fatto, secondo noi, lo stadio 3 diventerà l’ultimo stadio, tutti gli Stati membri si ritroveranno a questo livello: votazione a maggioranza qualificata ma nessun potere di veto. È uno scenario che, da un lato, auspichiamo, dall’altro, diamo già per scontato.
Un’ultima domanda specifica sulla libertà di circolazione, un tema che sta a cuore a molti cittadini dei paesi candidati. Riprendo due citazioni dal vostro report: “Il capitolo 2, sulla libera circolazione dei lavoratori, merita un’attenzione particolare, in quanto non ci dovrebbe essere una prematura apertura totale che potrebbe innescare migrazioni troppo numerose” (pagina 6) e “I cittadini degli Stati che avranno raggiunto lo stadio 1 avranno il diritto di lavorare nelle istituzioni europee, ma solo sulla base di contratti temporanei (3-5 anni), in modo da non alimentare il fenomeno della fuga dei cervelli, e al contrario contribuire al consolidamento di professionalità specializzate in affari europei quando poi questi funzionari ritornano a casa, una volta scaduto il loro contratto” (pagina 14). Provvedimenti del genere, andando a limitare la possibilità di trasferirsi all’estero per lavoro, non rischiano di frustrare ulteriormente i cittadini dei paesi candidati?
Senza dubbio. La nostra proposta frustrerebbe le persone che intendono migrare per avere migliori condizioni di lavoro. Tuttavia, queste società capiscono bene cosa comporta una fuga dei cervelli di questa entità. E né il paese destinatario né quello ospitante hanno interesse ad alimentare il fenomeno. Dopo l’allargamento del 2004, alcuni Stati optarono per aprire le porte completamente, mentre altri andarono più cauti, mantenendo alcune restrizioni. Il Regno Unito e l’Irlanda scelsero la prima opzione, accogliendo di colpo molte persone dai paesi baltici e dalla Polonia, che si trovarono a fronteggiare una perdita di capitale umano immensa quanto improvvisa. Da qualche tempo si discute di legare la libertà di movimento al raggiungimento di un certo rapporto tra il livello di reddito medio nel paese da cui si intende emigrare e quello medio nell’Ue. Tradotto: prima lo Stato si attrezza per garantire stipendi e condizioni degni ai propri cittadini, poi si concede loro la possibilità di espatriare per lavoro. In Bulgaria oggi lo stipendio medio è circa un quarto di quello medio in Unione europea, in alcuni Stati dei Balcani occidentali è il 10%: è chiaro che con gap simili le persone siano spinte a partire. Quindi ritengo che questa opzione meriti di essere discussa.
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