Tipologia: Intervista

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Area: Albania

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Albania: sulle tracce de “La notte dei vinti”

Un viaggio nel mondo chiuso dell’Albania degli anni ’70, sulle tracce di una delle più sanguinose purghe attuate dal dittatore comunista Enver Hoxha. E’ quello con cui Antonio Caiazza, giornalista e scrittore, ci accompagna alla scoperta del destino di Beqir Balluku, vittima e carnefice

21/08/2014, Marjola Rukaj -

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Albania, 1975. La cooperativa agricola di Vranisht, un piccolo villaggio sperduto tra le montagne, è chiamata dalle autorità di Tirana a organizzare una grande festa nel paese, a cui partecipino tutti gli abitanti dei dintorni. La cooperativa sarà elevata a un rango superiore nella gerarchia e i lavoratori migliori premiati. Ma la festa è soltanto una studiata messinscena, un pretesto per portare a compimento una delle più sanguinose purghe interne al partito guidato da Enver Hoxha. L’intero vertice dell’esercito è accusato di tradimento, tre alti dirigenti fucilati, i loro corpi interrati dentro una fossa, in aperta campagna, mentre i discorsi ufficiali, la musica e il cibo distraggono la popolazione. Trentacinque anni dopo, Antonio Caiazza sbarca in Albania per rintracciare la confusa trama di un evento sepolto negli archivi e ricostruire gli ultimi mesi di vita di Beqir Balluku, il ministro della Difesa che fu la vittima più illustre di quella feroce resa dei conti. [Dalla presentazione del libro "La notte dei vinti"].

Come è nata l’idea di scrivere questo libro?

In realtà volevo scrivere un racconto sulla fine di Mehmet Shehu, il primo ministro albanese che si suicidò una notte di dicembre del 1981. Per mesi, in fondo per anni, voci e sospetti avevano alimentato un vero e proprio giallo sulla sua fine. Non sembrava possibile che un uomo di ferro, dal carattere durissimo, potesse subire un crollo nervoso, come disse la versione ufficiale. Avevo letto i verbali del processo politico a cui il giorno prima l’avevano sottoposto i “compagni” nel Politburo. L’uomo d’acciaio, il personaggio più terribile del vertice albanese, il carattere più burbero fra tutti i membri dell’Ufficio politico, appariva un agnellino, si difendeva con mansuetudine, accettava tutte le accuse e prometteva di redimersi.

Così avevo deciso di vedere Mehmet Shehu all’opera, quando aveva avuto il coltello dalla parte del manico, quando era stato lui il carnefice, non la vittima. Sapevo che lì avrei trovato il vero Shehu, con i suoi toni sferzanti e definitivi. E ciò era avvenuto nella purga contro Beqir Balluku, il ministro della Difesa. Fu Shehu il vero grande accusatore di Balluku; Hoxha lo lasciò fare, fece da supervisore, ma lasciò al suo primo ministro il compito di istruire il processo e mettere con le spalle al muro Balluku. E Shehu lo fece alla perfezione.

Perché ha scelto proprio dei fatti riguardanti un personaggio ostico come Balluku?

Sapevo poco di Beqir Balluku: per me era solo un nome, uno di quelli che in genere venivano associati alle svolte impresse da Hoxha alle sue alleanze: rompe con la Jugoslavia e fa fuori Koci Xoxe, caccia i sovietici ed elimina Teme Sejko, prepara l’anatema su Pechino e liquida Balluku…

Ma questo nome, cercando nelle carte e fra qualche testimonianza, piano piano ha preso consistenza, è diventato un uomo, di cui ho provato a immaginare il tormento, la sofferenza dei giorni terribili in cui ha capito di essere finito nel meccanismo senza scampo dell’epurazione. Vittima e lui stesso carnefice nelle “purghe” precedenti. Quando ho scoperto che, per tenere nascosta la sepoltura dei cadaveri di Balluku, Dume e Cako, era stata messa in scena una festa nel villaggio scelto per questa operazione segreta, ho deciso di voler raccontare questa vicenda. Magari il caso di Ahmet Shehu aspetterà ancora, chissà.

La notte dei vinti” assomiglia molto a una sceneggiatura, una ricostruzione della vicenda del ministro della Difesa…

Con questo racconto non ho voluto analizzare la vicenda Balluku. L’intenzione non era questa. L’intenzione era ricostruire una vicenda umana, in un contesto surreale quale era quello dell’Albania di quell’epoca, di per sé una ambientazione letteraria: l’isolamento, il clima di paura. Quella Albania era così surreale da offrirsi naturalmente come un ideale luogo letterario, di narrazione.

Cos’è che la affascina degli anni ’70 in Albania?

Di quell’epoca e dell’Albania mi affascina il mistero, la chiusura ermetica. Ma quanto ermetico può davvero essere un sistema sì ferreo, ma fatto comunque di uomini? I meccanismi più interni del potere, di tutti i sistemi di potere (anche in democrazia, ad esempio nei partiti politici, ma pensiamo anche ai consigli di amministrazione delle aziende) sono circondati dal segreto. Sono meccanismi che operano come sotto vetro per evitare che esca all’esterno ciò che potrebbe essere dannoso. E in genere ad essere dannosa è la verità. Il potere in Albania in quell’epoca era l’apoteosi di questo ermetismo.

Che tipo di ricerche ha svolto per ricostruire i fatti?

A più riprese ho svolto ricerche nei fondi conservati all’Archivio nazionale di Tirana. Il libro contiene (per stralci, ma fedelmente) passi dei verbali delle sedute dell’Ufficio politico e del Comitato centrale. Di questo, come ho scritto, sono grato all’amministrazione dell’Archivio.

Come vengono visti quegli anni oggi in Albania?

In generale gli anni del comunismo, vanno ancora approfonditi. La materia mi pare lasciata all’aneddotica, alle pagine dei quotidiani che, soprattutto d’estate, rispolverano quell’epoca. In realtà è un pezzo importante del passato (ancora recente) dell’Albania. Non sono bene informato su questo, ma mi piacerebbe sapere che un giorno all’Università venga istituita una cattedra o funzioni un dipartimento per lo studio di quel periodo con criteri scientifici. Questo mezzo secolo albanese non può essere territorio esclusivo di articoli giornalistici, per quanto meticolosi e scritti con cognizione di causa. Analizzare il passato, anche quello più difficile, è il modo migliore, da un lato, per archiviarlo, dall’altro per pensare al futuro.

Lei frequenta l’Albania da molto tempo. Come è cambiato il paese?

Gli albanesi rappresentano una società europea, in un Paese non ancora europeo. Vedo la difficoltà di mettere in funzione un sistema complessivo che prescinda dalla buona volontà degli individui. Ma mi sembra di parlare dell’Italia, non dell’Albania. Quanto siamo simili…

Antonio Caiazza è nato nel 1964 a Siano, in provincia di Salerno. Vive a Trieste, dove è giornalista presso la sede Rai del Friuli Venezia Giulia. Da circa trent’anni segue le vicende dell’Albania e si è occupato di Balcani per diverse testate trivenete. Ha pubblicato In alto mare. Viaggio nell’Albania dal comunismo al futuro (Instar Libri, 2008).

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