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Albania: il calvario di Sokol

Tetraplegico, in una famiglia "sotto vendetta" e bisognoso di cure. La drammatica storia di Sokol, ragazzo albanese, e del tentativo suo e della famiglia di essere trattati con dignità e trovare cure mediche adeguate. Una denuncia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

26/06/2012, Operazione Colomba -

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"Lo Stato, entro le competenze costituzionali e con i mezzi di cui dispone, nonché nel rispetto dell’iniziativa e della responsabilità private, persegue: […] lo standard sanitario, fisico e psichico più alto possibile; […] la cura e l’assistenza di anziani, orfani e invalidi; […] la riabilitazione sanitaria, l’educazione specializzata e l’integrazione nella società dei disabili ed il continuo miglioramento delle loro condizioni di vita […]".

art. 59 della costituzione albanese

 

Quello che vi vogliamo raccontare non è un semplice caso di malasanità ma di ingiustizia sociale.

Sokol ha 18 anni, vive con la madre quarantacinquenne ed il fratello ventenne. Il padre è stato ucciso in una faida tra famiglie che dura da molti anni e che in Albania è conosciuta con il nome di Gjakmarrja o vendetta di sangue.

Nel settembre di tre anni fa Sokol si rompe la spina dorsale cadendo in un canale della periferia di Scutari e rimane paralizzato. Viene operato d’urgenza presso l’Ospedale militare di Tirana: ha una frattura della quinta e dell’ottava vertebra cervicale ed è quindi tetraplegico.

Quando torna a casa, nel dicembre 2009, viene ricoverato dalle suore vincenziane per curare due piaghe formatesi durante la degenza ospedaliera. Il ricovero dura 6 mesi. Tornato a casa un fisioterapista privato viene pagato per andare da Sokol due volte la settimana e aiutarlo a recuperare la mobilità degli arti. La terapia porta a miglioramenti e dal marzo 2011 sono il fratello e la madre che, dopo aver appreso dal fisioterapista le modalità di cura, si occupano di Sokol.

Poco dopo il ragazzo viene portato alla Clinica di fisioterapia di Piraj per intensificare gli esercizi. A giugno la famiglia chiama il dottore, per mostrargli una piaga da decubito formatasi sotto un gluteo. La condizione della piaghe appare subito grave: risulta indispensabile e urgente praticare un intervento chirurgico per fermare il diffondersi della cancrena e salvare Sokol.

Il calvario

Da allora comincia un lungo ed estenuante viaggio alla ricerca di personale sanitario che possa occuparsi di Sokol. Lisus, Scutari, Tirana: nessun risultato. A Lisus consigliano un ricovero immediato a Scutari o nel Centro di Chirurgia Plastica di Tirana. Nell’ospedale di Scutari un chirurgo firma a Sokol una lettera di raccomandazione per essere ricoverato a Tirana. A Tirana presso il Centro di Chirurgia Plastica del Madre Teresa non ci sono dottori e il reparto è deserto. Al Pronto Soccorso Chirurgico dello stesso ospedale, dicono di non poter ricoverare Sokol in quanto esula dalle loro competenze, e senza averlo visto, lo mandano al Reparto di Dermatologia, che a sua volta lo reindirizza al Pronto Soccorso Chirurgico, dopo esser passato anche dal reparto di Medicina interna e di Cardiologia.

Quando diventa chiaro che nessuno al Madre Teresa visiterà Sokol, viene fatto un tentativo all’Ospedale Militare. Dopo varie ore di attesa estenuante Sokol sviene più volte dalla stanchezza e dal dolore. Nessun dottore lo visita, alcune infermiere gli somministrano due flebo. Il giorno dopo la famiglia ritorna all’Ospedale Madre Teresa nel Reparto di Chirurgia Plastica. Finalmente Sokol viene visitato da un chirurgo che diagnostica una grave infezione alla piaga, ma viene dimesso; la motivazione è che un suo eventuale ricovero avrebbe comportato la necessità di isolamento di un intero reparto a causa dell’infettività della piaga.

Ci suggeriscono allora di portarlo a Scutari dove, assicurano, verrà curato per il tempo necessario alla sua guarigione. Quindi Sokol viene riportato nell’ospedale di Scutari. Nell’accettazione del Reparto di Chirurgia dicono che la prima tappa è l’accesso al Pronto Soccorso; passano tre ore prima che un chirurgo visiti Sokol. Il chirurgo valuta che Sokol può essere ricoverato in quell’ospedale per una settimana. Durante la degenza la piaga viene medicata una volta al giorno. In questo periodo fa visita a Sokol un membro della famiglia con cui è in vendetta con un’arma. Sokol non si sente sicuro e si sentirebbe meno in pericolo in un ospedale nella capitale albanese e non a Scutari. Dopo una settimana viene dimesso.

Il 23 agosto 2011 si rivolge di nuovo al Pronto Soccorso di Scutari perché ha una febbre altissima. Il chirurgo di turno lo guarda da un metro di distanza e se ne va senza rivolgere la parola alla famiglia. Nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2011 la famiglia di Sokol si reca nuovamente presso l’ospedale di Tirana Madre Teresa e all’Ospedale Militare di Tirana. Tutti gli ospedali non erano attrezzati per ricoverare Sokol e per operarlo. Lo sforzo della famiglia è, allora, quello di far dichiarare in forma scritta dai medici responsabili di chirurgia e dermatologia (degli ospedali Madre Teresa e Militare) che Sokol non può ricevere cure specifiche per guarire le sue piaghe in Albania.

Solo

Per poter continuare le medicazioni la famiglia contatta più infermieri privati a pagamento ma nessuno si rende disponibile. Nessuno chirurgo fino ad ora è intervenuto efficacemente. Le condizioni di Sokol sono ogni giorno più gravi e rischia la setticemia se non gli vengono somministrate le cure adeguate. Ha gli arti inferiori che si stanno gonfiando e necrotizzando. Le condizioni igieniche della casa in cui vive non sono adeguate per sostenere una eventuale cura domiciliare. Sokol ha un’infezione costante alla piaga e le sue condizioni peggiorano.

La famiglia ora, di fronte a pareri eterogenei e discordanti, rifiuti molteplici sia da parte di medici che di strutture ospedaliere, è completamente disorientata e abbandonata a se stessa. Sokol fino a gennaio 2012 si trova a casa propria affidato solo al fratello, che è in serie difficoltà a causa di un’ernia venutagli come conseguenza della continua assistenza.

Nonostante i molteplici tentativi di cura da parte della famiglia, un aiuto concreto o una medicazione efficace da parte dello Stato albanese ancora non è stata prescritta; intanto la cancrena continua ad aggravarsi e Sokol rischia di morire. La sua famiglia affronta la situazione giorno per giorno, priva ormai di speranza e carica di fatica. E’ forte anche la delusione nei confronti dei medici che a detta della famiglia non avrebbero dato sufficiente attenzione alla piaga; il loro trattamento e la poca considerazione hanno l’effetto di umiliare un paziente già di per sé provato dalla disabilità, dalle difficoltà quotidiane dove anche i piccoli spostamenti sono ostacoli concreti e reali.

Non riconoscere negli occhi di chi ti sta di fronte una umanità sofferente, non prendersene cura e non averne rispetto significa ledere la dignità della persona; dignità che in questo caso è rappresentata dal diritto a essere curati. Nel codice etico deontologico della professione medica, il diritto alla salute è per il terapeuta un obbligo morale nonché un dovere.

In Italia

Disperata, la famiglia, continua a prendersi cura di Sokol come può; alcuni volontari e missionari italiani che conoscono il caso da tempo e che hanno accompagnato Sokol di ospedale in ospedale, hanno provato allora a bussare di porta in porta in Italia. Grazie alla disponibilità della Regione Emilia Romagna e dell’ospedale di Rimini Sokol sta ricevendo ora cure adeguate in Italia. Ha ad oggi subito due interventi per richiudere le piaghe.

Ora si sta cercando di farlo rimanere in Italia per curare un problema ai reni e per cercare di fargli fare un periodo in un centro specializzato nella riabilitazione che possa curare le sue ferite fisiche ma soprattutto quelle psicologiche.

Diritto ad essere curati

Sokol, per non morire, aveva bisogno di cure adeguate. La famiglia non pretendeva cure stra-ordinarie: rivendicava “semplicemente” il diritto basilare di ciascun essere umano a essere informato correttamente e con completezza sulle proprie condizioni e sulle modalità adeguate per essere curato. È possibile che per cercare considerazione si siano dovute girare così tante strutture? E’ possibile che per ottenere le cure adeguate la sola prospettiva fosse di pagare medici o infermieri privatamente? Ci si può solo rivolgere a ospedali privati o a Paesi esteri? Perché di fronte a una richiesta d’aiuto della famiglia lo Stato albanese si è girato dall’altra parte? Come si spiega che la famiglia ha più fiducia in Associazioni straniere piuttosto che nel sistema sanitario del suo Paese? Non è forse vero che medici e infermieri giurano di “perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza”?

Questa storia ha un lieto fine per Sokol perché è stato trovato il modo di curarlo adeguatamente in Italia ma è una dura sconfitta per il sistema sanitario albanese che non si è dimostrato disponibile ad accogliere e tutelare l’infermità di Sokol. L’abbandono e lo smarrimento di una famiglia in difficoltà è una piaga sociale, che vive ed è alimentata dall’idea che non la si possa guarire. La costituzione albanese prevede la cura; ad ogni medico, infermiere o cittadino il compito ed il dovere di attuarla.

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