Tipologia: Intervista

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Area: Albania

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Albania, paesaggi di parole: un’intervista ad Ardian Vehbiu

In occasione dei dieci anni della rivista online “Peizazhe të Fjalës”, nata come blog di nicchia e diventato oggi punto di riferimento nel panorama culturale albanese, abbiamo incontrato uno dei fondatori, Ardian Vehbiu

17/07/2017, Erion Gjatolli - Tirana

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Classe 1959, linguista, scrittore, saggista, giornalista e blogger, con 13 libri all’attivo e una media di tre interventi a settimana, Ardian Vehbiu è stato ed è un punto di riferimento per tutte le generazioni di giovani che regolarmente si collegano al blog Peizazhe të Fjalës, isola felice nell’altrimenti avvilente panorama mediatico albanese. In un paese in cui essere blogger, magari con uno pseudonimo bizzarro come Xha Xhai, è considerato indizio di scarsa autorevolezza, Vehbiu si è affermato per lo spessore dello studioso, la letterarietà della penna, lo sguardo lucido sulla società contemporanea, l’argomentazione nitida delle sue tesi, la tagliente ironia che ne scandisce la scrittura, l’eleganza di uno stile inequivocabile, diventato marchio e per molti modello di riferimento.

“Peizazhe të fjalës” (in italiano “Paesaggi della parola”) nasce nel 2007 e negli anni si è ritagliato uno spazio suo, presentandosi come una piattaforma indipendente e come modello sostenibile in un periodo di rapida e drammatica trasformazione dei media in Albania, in preda all’evoluzione tecnologica, alla progressiva riduzione delle risorse finanziarie, alla perdita di credibilità e alla opprimente politicizzazione. Da New York, dove risiede da due decenni, Ardian Vehbiu è tornato a Tirana in occasione dell’uscita dell’ultimo libro, Kusuret e zotit Shyti (Edizioni Dudaj, 2017), una raccolta di brevi interventi che presentano uno spaccato della società albanese vista attraverso le lenti di un fantomatico “signor Shyti”; racconti tenuti insieme dalla “responsabilità della parola”. Lo abbiamo intervistato proprio sulla “responsabilità delle parole”, sui media e sulla “dittatura delle visualizzazioni”, sull’avvento della tecnologia e dei social nell’interpretazione della storia e del quotidiano, sul ruolo della letteratura e della lettura nella società contemporanea.

Cominciamo dal blog. Peizazhe nasceva nel 2007. Da dove siete partiti e come è cambiato questo progetto negli anni?

Ardian Vehbiu

Ardian Vehbiu

Dieci anni non sono pochi, soprattutto per l’agenda dei media albanesi. Oggi è praticamente impossibile trovare su internet il materiale pubblicato online dieci anni fa, gli archivi sono stati fatti sparire. Se fossero stati su carta, avrei detto "bruciati". Credo che questo non sia avvenuto per caso, che sia stato sostenuto da chi è interessato a non conservare la dimensione temporale (storica) della cultura e della comunicazione, da chi desidera tenerle strettamente legate alla quotidianità. Nuovo giorno, nuove parole, dicono.

Paradossalmente, questo succede proprio all’interno di un dibattito pubblico in cui sono tutti pronti a tagliarti la testa per una parola detta venti anni fa e magari sopravvissuta in qualche angolo del web; come se la coerenza meccanica del pensiero fosse prova di virtù e l’uomo potesse essere messo alla croce dalle proprie parole. Da questo punto di vista, i dieci anni di Peizazhe të fjalës sono la prova che ci possono essere anche modelli sostenibili, che non richiedono “iniezioni” o sovvenzioni per rinnovarsi giorno dopo giorno; poiché rimangono in piedi grazie alla buona volontà, all’impegno pubblico degli autori e degli editor e al fatto che, in larga misura, sono parte di altri progetti, con i quali hanno un rapporto di impollinazione incrociata. Alla nascita lo abbiamo chiamato "blog" perché il blog era in quel momento l’unico formato mediatico che avevamo a disposizione. Eravamo un gruppo di amici e colleghi – Rando Devole, Elona Pira, Dash Kokonozi ed io – reduci da una esperienza di diversi anni dentro una piattaforma di discussione (si chiamava “Alb-Club”), ormai prossima alla fine del proprio ciclo e che rischiava di soccombere sotto il peso di attacchi trolls. Peizazhe nasce così, come uno spazio o "santuario", in cui garantire al libero pensiero albanese la necessaria protezione da intimidazioni, colpevolizzazioni, umiliazioni, stigmatizzazioni, processi popolari, interrogatori, “assordamento della maggioranza” e altre forme contemporanee di censura nel discorso pubblico.

Al contempo, diversamente dalle tendenze dell’epoca, abbiamo deciso di dare priorità agli articoli e ai contributi originali, non ai commenti dei lettori di passaggio; nella speranza che ciò sarebbe servito a restituire “responsabilità alla parola”. Nel corso degli anni, Peizazhe ha cambiato aspetto e formato, diventando gradualmente una rivista, grazie anche ai contributi di molti colleghi e al generoso sostegno di singoli lettori. Abbiamo forgiato un nostro stile – negli argomenti trattati, nel tono scelto per trattarli e nel modo di affrontare i problemi – che credo sia riuscito a conservarsi fino a oggi, e che serve, tra l’altro, a fare una selezione preliminare di tutti coloro che vogliano contribuire con i propri interventi e riflessioni.

Quali sono le sfide di oggi?

Attualmente, abbiamo il problema di come confrontarci con il modello coercitivo imposto da Faceboook, Twitter e dagli altri social media: un modello che ha circoscritto l’intervento pubblico a brevi commenti o battute, tant’è vero che anche i politici comunicano regolarmente con degli “status”. Al contrario, Peizazhe rimane un’oasi, se mi passate il termine, di pensiero articolato e lettura impegnativa; per questo può convivere con il modello dei social network, ma non può né vuole competervi. Anche in futuro dovremo definire questo nostra volontà di difenderci dalla banalizzazione e dalla trivialità del dibattito pubblico; sempre tendendo a mente che al potere, anche in ambito culturale, non interessa di avere a che fare con soggetti che pensano, o che sono determinati ad esercitare la libertà di parola e di pensiero nel modo più ambizioso e articolato possibile.

Dalla rivista sei più volte tornato sulla critica alla stampa albanese, da sempre al servizio della politica.

Penso che la stampa albanese abbia preso un vicolo cieco, non ha credibilità, non ha autorevolezza, non cerca alcun rapporto con la “verità”; non ha la professionalità, così come non possiede la capacità di esprimersi in modo accurato e chiaro; infine, non maneggia quella cultura di base che il giornalismo deve avere. In questo modo, i media non hanno fatto altro che adattarsi alla politica e allo show-businnes di oggi (che a volte pretende di essere preso per cultura), mostrando l’ossessione di fare spettacolo, anche se di cattivo gusto. È una stampa infettata da attacchi ad hominem, bugie e provocazioni: battute da film che ignorano le più elementari norme dell’etica civile e professionale e che rivelano lo stadio davvero infantile della nostra civilizzazione.

La carta stampata mostra ancora segni di resistenza a questa tendenza, ma la televisione – penso in particolare al format delle chiacchiere in studio – sembra guidare l’ascoltatore verso il pantano; da questo fango televisivo si rimanda ai siti di fake news e viceversa, in quella che diviene una sorta di latrina della libertà di parola. La politica albanese ha trasformato i media nazionali in quello che una volta ho chiamato un “folklore delle élite”, una sorta di epopea grottesca delle gesta dei politici di oggi. Forse questo fa gioco anche agli stessi protagonisti della vita politica, ci aiuta a dimenticare come e quanto hanno fallito e continuano a fallire, ogni giorno, nella missione che avrebbero nei confronti dei cittadini.

Sul web si trovano contenuti prodotti in poco tempo, di scarsa qualità o pensati con il solo critierio delle visualizzazioni. Al contempo ci sono anche prodotti di qualità, ma che spesso vanno in perdita. È un problema di sostenibilità economica o di responsabilità?  Se la linea editoriale fosse immune dalla politica delle visualizzazioni i contenuti cambierebbero? 

Alcuni dei direttori dei siti trash non mancano di professionalità o intuizione culturale per fare giornalismo serio, ma ho sempre temuto che l’alibi dei click venga usato per coprire un altro vuoto: quello dei valori etici. Il lavoro visto non come una missione, ma uno strumento per scalare gerarchie sociali e per arricchirsi. Da qui, il passaggio al ricatto o all’estorsione è breve. Poi ci sono gli altri, i capitati per caso, che un pensiero non ce l’hanno e né lo saprebbero formulare.  È quello che non consente alla nostra società di avere media politici seri. Le eccezioni servono a tenere viva la speranza che un giorno le circostanze cambieranno e il pubblico chiederà qualcosa di diverso dai media del letame.

In ambito culturale, al contrario, la preoccupazione non è la spazzatura, ma l’impatto; perché ci sono prodotti culturali di qualità, anche online, ma non comunicano tra di loro e hanno pochi lettori. Il danno principale causato dai media trash è che distruggono le aspettative del pubblico, oppure contribuiscono intenzionalmente al dilagare dell’analfabetismo funzionale. Per quanto riguarda l’aspetto economico, vorrei aggiungere che rendere disponibile gratuitamente i contenuti potrebbe sembrare, a prima vista, come qualcosa che può servire ai lettori; ma secondo me un lettore che non paga per quello che legge non può ritenere totalmente responsabile la fonte dell’informazione. Il pagamento per un prodotto è la base dell’etica nel rapporto tra media e utenti; nella rete dei contenuti gratuiti oggi sembra di essere all’ascolto di conversazioni tra terzi, o di assistere agli sviluppi dei dibattito pubblico come d’avanti ad una partita di calcio.

Con i nuovi strumenti tecnologici che tutti noi abbiamo a disposizione assistiamo spesso ad una iper-rappresentazione della realtà. Le immagini di qualsiasi avvenimento ci giungono oggi in tempo reale. Ti sembra che ci sia il rischio che questo crei assuefazione, che allontani il pubblico dal problema? Infine, e ora mi rivolgo allo scrittore, c’è il rischio che questo metta da parte l’arte, il modo in cui ad esempio la letteratura ci racconta la realtà?

Le tecniche per raccontare il mondo sono cambiate e danno l’impressione di essersi aperte alle opinioni pubbliche; ma ancora oggi impediscono ad alcuni eventi di manifestarsi mentre ne fomenta altri – basti ricordare che il terrorismo, uno dei fattori che accompagnano la globalizzazione, non esisterebbe in questi termini o non agirebbe così se non avesse a disposizione la cassa acustica dei nuovi media. A mio parere, la tecnologia – tra cui quella dei mezzi di comunicazione – non solo influisce sul nostro modo di "leggere" la realtà e di ricostituire la storia, ma modifica anche il corso degli eventi o la storia stessa. Al di là di queste considerazioni, non credo che l’arte abbia necessariamente il compito o la missione di raccontarci la realtà; è sufficiente che l’arte, e quindi anche la narrativa, ci dia la possibilità di vivere meglio, più a fondo  e più significativamente la realtà “reale”, attraverso la finzione.

Dagli Stati Uniti Jonathan Safran Foer sostiene che gli scrittori non sono mai chiamati in causa per parlare di attualità o di politica. In Italia, Paolo Di Paolo lamenta il fatto che la letteratura non riesca più a creare dibattito e attrito con la realtà.  Eppure, come ricordavi, la letteratura non è solo intrattenimento, è un luogo che ospita il confronto con la realtà, è strumento di comprensione della contemporaneità.

Mi sembra in effetti che la letteratura si sta ritirando dalla scena pubblica. In Albania ci sono stati scrittori che hanno provato a prendere una distanza dai propri libri diventando personaggi mediatici; oppure personaggi mediatici che si sono cimentati nella scrittura letteraria. In entrambi i casi, il loro successo è dipeso dall’incapacità del pubblico di distinguere tra l’uomo e l’autore, tra l’attivista pubblico e il narratore dell’opera. D’altra parte, nel nostro paese non è ancora consolidata la letteratura di genere, o la lettura di un libro per puro divertimento. Ciononostante tutti scrivono convinti di fare autentica letteratura anche se poi pretendono che i libri vendano come se fossero best-seller di genere. È una contraddizione che abbiamo ereditato dal regime totalitario, quando ogni libro era per definizione "serio" e doveva servire sempre all’"educazione delle masse". Da quel periodo abbiamo ereditato non soltanto una sorta di venerazione kitsch dell’oggetto libro in quanto tale, ma altre patologie di sociologia della lettura, che complicano il nostro rapporto di oggi con i libri, e con il senso della lettura.

Non bisogna mai dimenticare che chi oggi elabora il dibattito pubblico albanese è stato formato nelle scuole del regime (me incluso!), luoghi dove veniva favorita la conformazione, dove la verità era qualcosa di dato, che si manifestava nei documenti e nelle dichiarazioni ufficiali, non qualcosa a cui si poteva arrivare tramite il confronto di opinioni e posizioni. Peizazhe të Fjalës nasce proprio da qui, allo scopo di abbattere, attraverso la decostruzione, tutti i meccanismi della logica autoritaria.

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