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A Sarajevo cent’anni dopo: cavalli selvaggi

La leggenda dei cavalli di Livno e strade pedalabili con la fatica giusta. La nona puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale

26/06/2014, Giulia Bondi -

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Bollicine. Una, due, tre. Un soffietto esile ma continuo. Escono dal tubo di gomma nera e scoppiettano nell’acqua della bacinella rossa, tra le mani dell’uomo con i capelli bianchi e la tuta blu. Noi non le avevamo viste, ieri, nel caldo soffocante del mezzogiorno, davanti al pranzo della domenica cui non eravamo invitati. A lui bastano pochi minuti di gesti lenti, pacati, abitudinari. Il mestiere di una vita. Il meccanico di biciclette.

Una camera d’aria nuova, da venderci, per le ruote con il profilo alto, non ce l’ha. E allora ci sistema la vecchia, con toppa e mastice, e già che c’è dà anche uno sguardo alla ruota di Andrea, che per un po’ smette di fare rumore. La sosta dal delizioso nonnetto, indispensabile perché almeno una camera d’aria di scorta la devi avere, ci permette anche di battere un nuovo record, nella disciplina “distanza tra l’orario della sveglia e quello della partenza”. Sono terrorizzata dal caldo e ci aspetta una nuova portentosa salita, prima del lago Rama, fino a quota 1200. Ma tra riparazioni e colazioni non riusciamo a salire in sella prima delle dieci.

A sorpresa, ma probabilmente complice la sobrietà, le salite di oggi sembrano più pedalabili dell’altopiano di ieri. La strada scivola sotto gli pneumatici come un nastro di raso grigio scuro e c’è tempo di distrarsi davanti all’intonaco azzurro bandiera del motel a qualche centinaio di metri dal primo passo. Vado comunque abbastanza piano per leggere i cartelli che, sempre più frequenti, preannunciano i famosi cavalli di Livno.

Quando li incontriamo sulla cima, con l’andatura elegante e le criniere svolazzanti, padroni del passo tanto che le macchine non possono fare a meno di dargli strada, ancora non conosciamo la loro leggenda. Nelle borse da bici mi fa da compagno di viaggio Miljenko Jergovic, ma solo con “Le Marlboro di Sarajevo”, racconti brevi e strazianti dalla capitale sotto assedio, dai suoi cimiteri e dalle sue biblioteche in fiamme.

Liberi, selvaggi e trasformati in leggenda, i cavalli di Livno li ritroverò in autunno tra le pagine di “Volga Volga”. Sarebbero i discendenti – narra Jergovic, romanzando un reportage giornalistico di qualche anno prima – di decine di cavalli requisiti per conto degli ustascia negli anni della guerra, la Seconda mondiale, e poi abbandonati qui per non trovarsi costretti a spiegare da dove provenivano, in vista del cambio di regime (“Bisognava spingerli sulle montagne e non era affatto semplice, perché un cavallo torna continuamente indietro. Devi sapere come dirgli di non tornare.”). La leggenda continua, dice che i sequestratori di cavalli salirono sui monti a trovarli per anni, portando sale e biada, fino a quando il branco non diventò così selvaggio “da non riconoscerci più”. “Per Livno – scrive Jergovic – cominciò a circolare la notizia che sul monte Gorjia esisteva uno strano luogo dove venivano esaudite sia le preghiere dei musulmani sia quelle dei cattolici, e tutta Fatumi ci andava in pellegrinaggio”.

Non la conosciamo ancora, la storia dei cavalli, e proseguiamo dopo un breve picnic di frutta secca, sui saliscendi tra le vallate, tra bandierone della Croazia dipinte sui muri ed enormi camion gialli che ci suonano il clacson per farci festa. Al bivio per il lago Rama ci saluta un coleottero verde metallizzato, cui Andrea ha dato un passaggio senza fatica in una tasca della sua canotta gialla. Un paio di segherie e poi una nuova salita, in un paesaggio brullo da spaghetti western, fino a un minuscolo capanno di legno che oggi non è ancora un bar, in cima all’ultimo passo. Djarko, il proprietario-pastore, non ha ancora finito i lavori, ma ci mostra con le mani e un largo sorriso da futuro imprenditore il posto in cui andrà l’insegna: “Ramska Vrata”. Ci offre ombra, cipolla, cetrioli e Lemonsoda, col sottofondo di Radio Sarajevo. La musica sa di film italiani, forse qualche colonna sonora di Fellini, forse Nicola Piovani, un po’ di notizie e qualche strofa di Macarena.

Oltre a Djarko incontriamo una cinquantina di pellegrini a piedi, diretti a un santuario nei paraggi, e all’inizio dell’ultima discesa un camper di gitanti che ha preso fuoco, e aspetta i soccorsi. Visto dall’alto, il lago è il paradiso che si rivelerà anche da vicino: acqua verde che riflette le montagne, casette, frutteti e il monastero francescano che si sporge su una lingua di terra. La strada per il lago è interrotta per lavori, macchine e bici sono deviate su uno sterrato ripidissimo e mentre cerchiamo di fare lo slalom è un miracolo se non finisco per terra. Perdiamo quota e accanto all’acqua del lago ricomincia l’asfalto.

Un camion di fieno rovesciato, una bimba che corre in un cortile con un ombrello aperto, un frate che aiuta un vicino a riparare una parabola. Al monastero accettano solo gruppi più numerosi, per noi c’è posto alla Konoba Gaj. Il lago è un bacino artificiale creato nel 1968 per ragioni militari, almeno stando al racconto in inglese del ragazzino poco più che 13enne che probabilmente ci ha ceduto la cameretta e ci fa da cameriere per stasera.

Sotto, dormono villaggi abbandonati e ricoperti di muschio e fango. Ieri forature e scottature, e la Baščaršija di Sarajevo che appariva lontanissima. Oggi invece le bici filavano via lisce anche in salita, tra i pascoli dei cavalli e i lunghi rettilinei, che da lontano sembravano rampe da scalare e invece poi erano pedalabili con la fatica giusta: non troppa, abbastanza da sentirci fieri e felici dell’impresa.

Nella colonna sonora che ci accompagna mentre gustiamo bistecca e trota (mi ostino, e di nuovo farò sogni tempestosi, di case distrutte da terremoti o guerre) sembra di riconoscere un plagio di Pupo (“Su di noi nemmeno una nuvola” versione balcanica), un pezzo tipo Gogol Bordello che cita Amarcord (“Voglio una donnaaaaa!”) e poi, per davvero, “Caruso” di Lucio Dalla. Il lago artificiale luccica come il mare della canzone. Le biciclette dormono tranquille sotto la tettoia dell’osteria. Sarajevo si avvicina.

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