“La cena” di Božidar Stanišić
È uscito in questi giorni, per i tipi di Marotta&Cafiero, il nuovo libro di racconti dello scrittore Božidar Stanišić – La cena. Avanzi dell’ex-Jugoslavia, nella traduzione di Alice Parmeggiani. Una recensione
Božidar Stanišić (Visoko, 1956) proviene dalla Bosnia Erzegovina, ma da trent’anni vive in Italia e si occupa di scrittura e di promozione della letteratura degli slavi meridionali.
Nelle sue numerose opere di narrativa pubblicate in Italia, troviamo le impronte significative e indelebili dei classici della letteratura jugoslava – Andrić, Selimović, Crnjanski, Kiš – dai quali Stanišić sembra aver appreso il mestiere di scrivere e il senso estetico del procedimento letterario.
Inoltre, ormai è noto a molti lettori, in Bosnia sanno raccontare le storie. L’amore per la narrazione è evidente e palpabile, come nelle fiabe orientali delle Mille e una notte, in cui lentezza e profondità si intrecciano tra le parole, così come si susseguono passione e angoscia esistenziale, tristezza e allegria, si ride e si piange al contempo. Poi, vi è sempre quell’ironia sottile, una specie di distacco volutamente scelto per poter narrare liberamente, senza vincoli emotivi, della propria storia.
C’è quindi nelle mani degli autori bosniaci la chiave giusta per aprire i cuori dei lettori e gli ingredienti necessari per una narrazione efficace e coinvolgente, la quale non lascia indifferenti coloro che leggono, anzi, spesso gli provoca tempeste di emozioni.
Stanišić con il suo stile, ormai inconfondibile, diretto e ironico, con un linguaggio chiaro, asciutto, scherzoso, a volte satirico e tagliente, ci regala storie che fanno ridere, piangere e riflettere. Nella panoramica di personaggi che incontriamo nel suo nuovo libro, riconosciamo alcuni già presenti nelle sue opere precedenti, e questo ci dà una sensazione di continuità nella narrazione di Stanišić, che cambia la storia e la trama, ma rimane fedele ad un suo habitat e al tema che più gli sta a cuore, forse suo malgrado: l’emigrazione. Nonostante non volessimo etichettarlo come uno scrittore “migrante”, notiamo comunque che nei suoi racconti il fil rouge sono proprio le storie di gente che se ne va, di gente che fa viaggi senza ritorno, di gente che poi trasferisce, spesso inconsapevolmente, il proprio trauma alle generazioni future che inevitabilmente lo subiscono e lo interiorizzano.
Stanišić non è uno scrittore che scende nell’abisso del racconto patetico, non è vittima della banale (auto)compassione, non si lamenta, ma sottolinea – spesso anche tra le righe e quasi con un sorriso amaro – la condizione dell’anima di coloro che migrano, di coloro che diventano apolidi, di coloro che non pronunciano più certe parole, perché fanno male, ma le portano sempre dentro.
La cena è il titolo di uno dei racconti presenti nel libro, dal quale infatti inizia il viaggio dei personaggi alla ricerca del senso e del tempo perduto. Le storie sono cinque e sono diverse tra loro, ambientate in luoghi differenti e geograficamente lontani l’uno dall’altro, le situazioni però appaiono simili.
Le voci narranti nei racconti sono i figli degli immigrati bosniaci, i cui genitori sono nati e sono vissuti in Bosnia Erzegovina prima della guerra in Jugoslavia e a causa della quale sono fuggiti all’estero. I genitori sono tuttora ancorati alla terra natia: parlano il serbo-croato-bosniaco, hanno parenti sparsi in tutti i continenti, un lavoro precario, una nuova lingua incerta, un appartamento in affitto; sono nostalgici e non riescono ad integrarsi completamente nel nuovo tessuto sociale e culturale. Infatti, sono stati sradicati da un mondo in cui hanno lasciato una parte della loro vita. Quella parte è rimasta per sempre là, altrove, là dove non torneranno più, in quel paese che non c’è più, se non nei loro ricordi e nelle loro storie, nelle quali riemerge sempre, come un leitmotiv, come un sogno.
Nel divertente scenario del primo racconto, assistiamo ad una cena in una casa di Milano, i cui commensali sono un brasiliano, una bulgara, degli italiani, una famiglia bosniaca. Una tavola imbandita, una serata allegra e un po’ rocambolesca: si canta, si beve, si chiacchiera. La situazione ad un certo punto, nel bel mezzo di una discussione animata, precipita improvvisamente e al lettore appare una scena quasi da teatro: uno dei protagonisti steso per terra con un altro personaggio che cerca di salvargli la vita. I momenti descritti sono quasi drammatici, il ritmo della narrazione è veloce, vi è anche un po’ di suspense.
C’è poi il racconto in cui, in un tempo precedente, compare lo zio Beki, dopo i lunghi anni di assenza in cui non si sapeva nulla di lui: né dove vivesse né se fosse vivo. La sua comparsa improvvisa – come anche la sua fine – sconvolge i fragili equilibri di una famiglia bosniaca.
La penna dell’uccello inquietudine ci porta in giro per il mondo, da Padova a Londra e poi fino alla Nuova Zelanda. I genitori, soprattutto la madre, accettano a malapena e con il sorriso stampato sul viso, la relazione del loro figlio Igor e l’inglese Dorothy. Il figlio si allontana sempre di più dalla famiglia e prende una strada diversa e per i genitori difficilmente comprensibile.
La sorella – voce narrante del racconto – si ritrova sempre nello stesso sogno in cui compare l’uccello-inquietudine: “Sopra di me e quel quaderno, dopo molti anni apparve l’uccello-inquietudine. Svolazzava sopra di me, senza cinguettare, senza rumore. Era l’uccello o era l’illusione di riuscire davvero a ricostruire sia il vissuto sia il sognato?”
Se qualcuno ti chiede della Martinica – è il racconto che chiude la raccolta. Ci spostiamo a Toronto, dove vive un’altra famiglia bosniaca. Il nonno, rimasto vedovo, è costretto a lasciare il proprio orto in un paese bosniaco sperduto, e a fare un viaggio – l’ultimo – verso il Canada dalla figlia e dai nipoti.
“Questo è tutto…, ripeté la madre, senza lacrime.”
“Improvvisamente diventò tutto trasparente, leggero come una piuma fluttuò nell’aria e scomparve proprio nel momento in cui io mossi una mano in segno di saluto e invito a farci compagnia. È strano, anzi così strano che qualcuno sparisca così in fretta?”
Le emozioni che vengono risvegliate nel lettore sono forti. E nel rapporto tra lo scrittore e il lettore di queste storie "inventate" (ma indiscutibilmente reali) si riesce a tracciare un filo sottile, impossibile da spezzare, tra quelle anime che hanno ancora le cicatrici e che, nonostante tutto, vogliono ancora sperare.
Avanzi dell’ex-Jugoslavia – il sottotitolo del libro di Božidar Stanišić – potrebbe avere una connotazione negativa, ma riesce ad esprimere quel sentimento di vuoto incolmabile che tuttora esiste, sebbene a volte sia ben nascosto, in tutti coloro che sono diventati clandestini o profughi e che hanno dovuto migrare altrove, in cerca di pace e di una vita migliore. Finché esistono questa flebile voce e questi lembi di pelle strappati che non si possono più ricucire, esisterà una storia da raccontare, da tramandare dai padri ai figli, in una lingua sempre più distante, ma ancora viva. Come l’eco sempre più lontana delle note di una vecchia canzone amata. Come l’immagine di una cartolina sbiadita proveniente da un paese sognato che non c’è più.
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