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L’assedio di Kobane e i rischi per la Turchia

Da tre settimane il cantone curdo di Kobane in Siria è sotto l’assedio dei jihadisti dell’Isis. Nonostante gli aiuti offerti da Ankara ai rifugiati, le autorità turche hanno posto delle condizioni ad un loro intervento armato al fianco dei curdi siriani. Nelle città turche i curdi scendono in piazza per protestare

08/10/2014, Fazıla Mat -

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Una linea di confine di oltre 100 chilometri. Da una parte la Turchia, dall’altra i vicini jihadisti dello Stato Islamico (Isis). È quello che da un momento all’altro potrebbe ritrovarsi di fronte Ankara che, dopo la terza settimana di assedio da parte dell’Isis del cantone curdo di Kobane in Siria (Ain al Arab, in arabo), per ora assiste impassibile al graduale indebolimento delle unità curde di difesa popolare (YPG) e alla probabile imminente caduta della città.

Numerosi carri armati dell’esercito turco sono stati posizionati sulle alture lungo la linea di confine interessata dai combattimenti, tutti puntati verso la regione curda e pronti a rispondere ai colpi di mortaio da lì provenienti.

Negli ultimi quattro giorni gli scontri si sono fatti sempre più intensi mentre l’Isis, di gran lunga superiore al YPG (tra le file del quale di trovano anche numerose donne)  sia per quanto riguarda le armi a disposizione che il numero dei miliziani, ha convogliato diverse migliaia di combattenti a Kobane, riuscendo a entrare nella città e prendendo sotto controllo tre quartieri. Un rischio grave per i civili – la BBC martedì scorso riferiva che erano rimaste nel centro dalle 3 alle 4 mila persone – che devono ancora essere evacuate. Continuano intanto anche i bombardamenti della coalizione anti-Isis capeggiata dagli Stati uniti che, tuttavia, secondo i curdi, restano ben lontani dall’avere un effetto destabilizzante per lo Stato islamico.

La caduta di Kobane in mano all’Isis darebbe a quest’ultimo il controllo di un pezzo di territorio ininterrotto al confine turco che va da Tel Abyad a Jarablus, già sotto lo Stato islamico e rispettivamente di fronte alle frontiere turche di Akçakale-Şanlıurfa e Karkamış-Gaziantep. Un triangolo al cui vertice si troverebbe Rakka, l’autoproclamata capitale del “califfato”. Ma questa situazione non sembra allarmare particolarmente la Turchia che, in caso di un attacco rivolto al suo territorio, godrebbe anche dell’appoggio della Nato.

Sebbene Ankara stia prestando aiuto umanitario, accogliendo la popolazione curda in fuga dalla regione assediata – 180mila gli sfollati entrati in Turchia nelle ultime settimane, ad aggiungersi ai circa 1 milione e mezzo di siriani già presenti nel territorio turco – e il premier Ahmet Davutoğlu abbia affermato che “il governo” avrebbe fatto “tutto il possibile per prevenire la caduta di Kobane”, le autorità turche hanno posto delle condizioni ben precise per agire militarmente a favore dei curdi siriani.

I timori di Ankara

La Turchia teme profondamente la presenza di “regioni autonome curde” ai propri confini orientali come i cantoni di Kobane, Afrin e Jazira, e la possibilità che questo scenario possa estendersi anche nelle proprie regioni sudorientali. Inoltre, il Partito di unione democratica (PYD), formazione politica dominante del Kurdistan occidentale (Siria del Nord), è “fratello” del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) attivo in Turchia e considerato una “organizzazione terrorista” da Ankara, USA e UE.

Il governo dell’ex premier Tayyip Erdoğan ha avviato da oltre un anno delle trattative di pace con Abdulah Öcalan (leader del PKK rinchiuso dal 1999 nel carcere di Imralı) per porre fine al conflitto armato tra gli indipendentisti curdi e l’esercito turco che in 30 anni ha causato più di 40mila morti. Con tutto ciò Ankara continua comunque a considerare il PKK (e tutti i suoi affiliati) “un’organizzazione terroristica alla pari dell’Isis”, come ha detto pochi giorni fa il neopresidente della repubblica Tayyip Erdoğan, il quale ha anche aggiunto che “chiunque vorrà ostacolare il processo di pace pagherà un caro prezzo”.

Ora però, mentre il processo di pacificazione procede da tempo a singhiozzi, e il movimento politico curdo accusa la Turchia di sostenere l’Isis e di utilizzarlo per indebolire i curdi della Siria, nel caso di un eventuale passaggio di Kobane nelle mani dello Stato islamico, si teme che le trattative potrebbero essere veramente interrotte. I comandanti militari del PKK, come lo stesso Öcalan, hanno diffuso messaggi in questo senso nelle scorse settimane. L’ultima parola tuttavia spetta sempre al leader curdo che ha posto come data limite per dare una svolta alle trattative di pace il 15 ottobre, mentre per Kobane ha detto che “il popolo curdo resisterà fino in fondo all’Isis”.

Le condizioni di Ankara per l’aiuto ai curdi

Le condizioni che Ankara pone al PYD per prestare aiuto a Kobane sono essenzialmente tre: rinunciare alle pretese autonomiste, interrompendo ogni azione contraria alla propria sicurezza, smettere di collaborare con il regime di al Assad per unirsi invece alla Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione. Il parlamento turco, lo scorso 2 ottobre, ha approvato con 298 voti a favore e solo 98 contrari (del Partito filo-curdo e di sinistra democratico dei popoli, HDP  e del Partito repubblicano del popolo, CHP) una mozione che permette all’esercito di effettuare operazioni in Iraq e Siria, nonché il via libera al passaggio di truppe alleate dal proprio territorio per lo stesso scopo.

Ma il fine principale di Ankara nell’appoggio alle forze di coalizione anti-Isis resta la cacciata del regime di Damasco, un obiettivo perseguito da diversi anni senza successo. In un’intervista rilasciata lunedì scorso alla CNN International, il premier Davutoğlu ha  affermato che il governo turco “non vuole il regime siriano ai propri confini” e che “la Turchia potrebbe inviare le sue truppe in Siria se sarà preso di mira il regime di al Assad”.

Per realizzare il suo obiettivo la Turchia ha avanzato a Washington la richiesta di istituire una zona cuscinetto al confine con la Siria e la dichiarazione di una no fly zone. Ma Jen Psaki, portavoce del Dipartimento dello Stato USA, in seguito alle dichiarazioni di Davutoğlu, ha affermato che la posizione della Casa Bianca  – che aveva precedentemente bocciato entrambe le richieste turche –  non è cambiata. “L’obiettivo continua a essere ancora l’Isis. Continueremo ad appoggiare gli oppositori siriani, ma al momento non c’è niente di nuovo”, ha detto Psaki. 

Intanto, secondo quanto riferito ieri dal co-leader del PYD Salih Müslim ad Al Jazeera Türk, il partito curdo si sarebbe “accordato su molti punti” con il governo di Ankara.  Un risvolto che suscita per lo meno alcuni interrogativi dal momento che precedentemente lo stesso politico aveva definito l’autorizzazione del parlamento turco all’esercito e l’eventuale istituzione di una zona cuscinetto un tentativo di “annessione territoriale”.  Secondo quanto affermato da Müslim, ciò che i curdi si attendono essenzialmente adesso è “l’autorizzazione a passare dai confini turchi per potere portare aiuto a Kobane dagli altri cantoni”. Sarà da vedere se la Turchia accetterà realmente di fare una tale concessione e in cambio di cosa.

Scontri e manifestazioni nelle città turche

Mentre Ankara attende in settimana la visita della commissione statunitense per discutere del proprio contributo militare alla coalizione anti-Isis, diverse città della Turchia sono diventate teatro di scontri tra manifestanti – per la maggior parte curdi – che protestano il mancato aiuto del governo a Kobane. Dopo l’appello lanciato dal partito filo-curdo democratico dei popoli (HDP) a “iniziare una resistenza a tempo indeterminato”, a partire da lunedì notte, da Istanbul a Van, da Izmir a Diyarbakır, Muş e Hopa centinaia di giovani sono scesi in piazza, muniti in alcuni quartieri di molotov e fuochi d’artificio, contro il regolare uso di idranti e gas lacrimogeni delle forze dell’ordine. Il pugno duro del ministero dell’Interno ha già causato la morte di nove giovani, decine di feriti e fermi. Nella serata di ieri è stato imposto il divieto di uscire in strada in cinque province del sud-est, tra cui il capoluogo curdo di Diyarbakır, ma gli scontri non accennavano a smettere fino a tarda ora nella notte.

Kobane potrebbe cadere “da un momento all’altro”, come ha detto il presidente Erdoğan. Ma la sua perdita rischia di creare un nuovo grande incendio in Turchia e per Ankara di vedere cadere anche la titubante fiducia di milioni di curdi nei suoi confronti.

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