Serbia-Albania: calcio e nazione, oppio dei popoli
Che fosse una "partita a rischio", lo sapevano tutti. Ma l’epilogo di questo attesissimo match è andato oltre le soglie della fantasia. Forse perché il calcio ha lasciato il campo al vero oppio dei popoli: la nazione
"Non ho mai pilotato un drone in vita mia", ha dichiarato Olsi Rama, fratello del primo ministro albanese, Edi, al termine della gara. Un commento tecnico che nemmeno il più ardito dei cartomanti, disposto per giunta a rischiare l’immediato ricovero nella temuta clinica psichiatrica di Elbasan, si sarebbe mai azzardato a prevedere. E invece ciò che è successo la settimana scorsa a Belgrado è pura realtà.
La cronologia dell’accaduto è oramai arcinota anche al di fuori dei Balcani, "polveriera d’Europa" improvvisamente riscoperta dai media internazionali (Marco Mazzocchi incluso). Nell’anno del centenario dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nessuna celebrazione ufficiale aveva raggiunto un risultato simile.
Ancor prima del calcio d’inizio, nella capitale serba l’atmosfera era molto tesa: decine di poliziotti schierati a protezione dell’Hotel degli ospiti, difficile transito del pullman verso lo stadio, fischi assordanti durante l’inno albanese. Martin Atkinson dà finalmente il via alla gara, che per quaranta minuti regala emozioni senza reti da una parte e dall’altra. Poco dopo il quarantesimo, i fumogeni costringono l’arbitro a fermare il gioco – non è, in verità, la prima interruzione, poiché un fitto lancio di oggetti aveva già impedito all’Albania di battere un calcio d’angolo.
È durante questo secondo break forzato che avviene l’inimmaginabile. Dal nero buio del cielo, un multielica telecomandato cala silenzioso sul verde prato del Partizan: un bandierone nero è appeso al marchingegno, in mezzo ai faccioni di Ismail Qemali ed Isa Boletini, si staglia, rossa, la sagoma della Grande Albania. Pochi surreali istanti di meraviglia onirica gelano il pubblico pagante e i telespettatori (megaschermi erano montati sia a Tirana che a Pristina), pochi attimi cui puntualmente segue lo scompiglio, come in campo così nei bar.
A inaugurare le ostilità è il giocatore serbo Mitrović che afferra il drappo e lo strappa dal "drone", gesto intelligentissimo cui i giocatori albanesi danno ampio seguito: Andi Lila e Taulant Xhaka sono i primi ad accorrere in difesa del vessillo rosso-nero, mentre Ansi Agolli e Bekim Balaj si impossessano della bandiera e cercano di allontanarsi dall’epicentro del parapiglia. Intanto l’invasione di campo dei tifosi serbi è già cominciata: il più veloce di loro si presenta scaraventando sulla testa di Balaj un seggiolino bianco, un gesto che capitan Cana vendica a suon di pugni, atterrando l’invasore e costringendolo alla ritirata. Complice la passività degli stewart e delle forze dell’ordine, nel giro di pochi secondi sempre più tifosi irrompono sul campo, incluso il loro celebre capo, Ivan Bogdanov detto "il Terribile", personaggio già noto al pubblico italiano per gli incidenti di Genova di quattro anni fa.
Alla nazionale albanese non rimane così che rientrare di corsa negli spogliatoi, salutata calorosamente da una fitta pioggia di oggetti random. Poiché ogni strato sociale vive i suoi conflitti, è bene ricordare che anche in tribuna vip si è scatenato il finimondo: la sparuta delegazione albanese è stata accerchiata e la polizia serba si è diretta immediatamente verso Olsi Rama. La stampa serba divulgherà la notizia dell’arresto del fratello del premier, reo del pilotaggio a distanza del drone, accusa poi smentita dallo stesso Olsi che, rientrato a Tirana al seguito della squadra, dirà di essere stato semplicemente "preso da parte" per ragioni di sicurezza.
I mantra del giorno dopo
Nelle ore e nei giorni seguenti, l’accaduto è stato stigmatizzato da tutte le angolazioni. I serbi se la sono presa con la bandiera istigatrice – "se avessimo esposto noi la bandiera della Grande Serbia a Tirana si sarebbe riunito il Consiglio di Sicurezza dell’ONU", ha prontamente dichiarato il ministro degli Esteri di Belgrado; da parte albanese si è invece evidenziato come l’aggressività del pubblico serbo si fosse già manifestata prima dell’arrivo del drone provocatore. La stampa europea, dal canto suo, ha preferito scagliarsi contro la "scriteriata" scelta della Uefa: "Serbia e Albania non dovevano essere nello stesso girone!", hanno ripetuto quasi tutti i giornalisti sportivi italiani. In verità, i criteri Uefa sono abbastanza precisi, poiché tengono conto dei rapporti diplomatici, dei conflitti in corso e di eventuali domande delle parti circa la necessità di rimanere separati – è sulla base di questi parametri che gli incroci tra Ucraina e Russia, Spagna e Gibilterra, Armenia ed Azerbaijan erano stati esclusi a priori dal sorteggio.
Nella corsa giornalistica alla riscoperta dell’aggressività balcanica, tre dati di fatto sono stati unanimemente trascurati. Primo. Stando ai parametri di sicurezza summenzionati, Serbia e Albania possono certamente condividere lo stesso girone: sono o non sono due candidati all’Unione europea? Secondo. Quand’anche il quadro dell’integrazione europea non sia garanzia sufficiente, siamo davvero sicuri che separare nello sport paesi già divisi dalla politica sia una scelta intelligente? Sarebbe stato giusto (chi vuole legga: strategico) considerare, nel 2014, Serbia e Albania alla stregua di Russia e Ucraina? Terzo. Se si guardano bene le immagini degli assurdi minuti trascorsi tra l’arrivo del drone e la fuga della nazionale albanese, si vede che il problema non viene dal campo, ma dagli spalti.
Considerando il contesto, la scaramuccia tra i giocatori, certamente condannabile, è però rimasta nei limiti del già visto: per ammissione dello stesso c.t. albanese De Biasi giocatori serbi come Kolarov, Matić e Ivanović hanno collaborato ad allentare la tensione, frapponendosi tra i giocatori albanesi e i loro stessi tifosi.
Sull’esito della partita si dovranno certamente esprimere le autorità sportive competenti – si prevede il 3-0 a tavolino per l’Albania, ma la decisione verrà presa nei prossimi giorni – sin da ora è però evidente che la lacuna nel sistema di sicurezza non è da imputare all’Uefa, che tra l’altro aveva prontamente impedito la trasferta ai cittadini albanesi, ma al lassismo dell’organizzazione in Serbia. In nessun campo di calcio del mondo è ammissibile che uno stewart di casa cerchi lo scontro con un giocatore della squadra ospite, così come non è ammissibile l’accondiscendenza mostrata dalle forze dell’ordine nei confronti di criminali già schedati e conosciuti, soggetti pericolosi che non solo sono a piede libero, ma che sono stati ammessi all’interno dello stadio nonostante si trattasse di una partita notoriamente a rischio.
Si tratta, è ovvio, di un’anomalia non solo balcanica – basti pensare all’ultima vergognosa finale della scorsa Coppa Italia – ma il legame che nei paesi della ex Jugoslavia esiste tra le frange criminali delle curve di calcio e la politica è fatto noto sin dagli inizi degli anni Novanta.
Il vero oppio dei popoli
Rientrato in patria, Etrit Berisha, nato a Pristina, oggi portiere della Lazio, ha dichiarato: "L’atmosfera era quella di una guerra. Abbiamo combattuto per i nostri tifosi. È un dovere difendere i simboli della patria". Che un giocatore della nazionale parli in questo modo è forse comprensibile. Spetterebbe alla classe politica del paese rappresentato da quelle esternazioni spiegare ai suoi cittadini che Etrit Berisha non è un eroe, ma semplicemente un calciatore.
In Alsazia, il confine franco-tedesco corre lungo il fiume Reno. Sulle acque dell’Ill, suo piccolo affluente, oggi si specchia il Parlamento europeo. Strasburgo non fu scelta per la sua cucina, gli europei vollero edificare il loro futuro su acque insanguinate da un confine conteso, sulla frontiera tra due nazioni storicamente in lotta: "Là dove ci sparavamo, oggi mettiamo una stanza dove sederci e parlare, insieme". Questa non è la storiella con cui Barroso mette a letto i suoi nipotini (tutti sanno che preferisce addormentarli con i Progress Report della DG allargamento), questa è l’essenza, il senso profondo del progetto europeo faticosamente avviato da paesi che per secoli si sono combattuti (Napoleone e Hitler li conoscono anche i calciatori): un progetto politico cui sia la Serbia che l’Albania hanno chiesto, liberamente, di poter aderire.
Lo spettacolo degradante offerto dallo stadio Partizan di Belgrado, ma anche la (a suo modo) commovente accoglienza della nazionale albanese in patria, sono a ben vedere il frutto della medesima allucinazione, quell’allucinazione della bandiera che tanta parte ha nelle simbologie del tifo calcistico, ma che ha dietro di sé un oppio ben più potente, quello della nazione. È questo il nodo politico irrisolto, un problema serissimo che non deve essere confuso con alcuna goliardia sportiva.
Quello che sia da parte serba che da parte albanese si fatica evidentemente a comprendere è che da un punto di vista europeo la Serbia e l’Albania saranno Grandi solo quando Stato, Storia (e sport) conteranno più di nazione, mito (e rissa). Quando cioè l’allucinazione nazionale che ha reso possibili tutti i risorgimenti e le guerre degli ultimi due secoli avrà abbandonato i confini balcanici, così come ha abbandonato il confine franco-tedesco. Non preoccupano, in questo senso, le difficoltà cognitive di Ivan Bogdanov e dei suoi compagni, ma la capacità delle élite politiche dei due paesi di dissociarsi fermamente e senza equivoci dalla politica del tifo, senza che la loro stessa agenda venga influenzata dagli exploit di frange criminali – come avvenuto in questo caso, con il rinvio dello storico incontro diplomatico tra Vučić e Rama: l’ultimo vertice risaliva al 1946, ad incontrarsi furono Tito e Hoxha.
Nel 1879 né l’Albania, né la Serbia, né il calcio moderno esistevano ancora (esistevano gli albanesi, il Principato di Serbia e le palle di pezza), ma Costantin Frantz era già capace di scrivere quanto segue:
Il principio di nazionalità ha ottenebrato le menti eccitando le passioni. In un certo senso lo Stato è un’entità astratta, nei cui affari ed interessi la grande massa ha scarsa competenza e del quale, dappertutto, si occupa solo una parte relativamente piccola della popolazione. Al contrario il principio di nazionalità agisce quasi con la forza di un istinto naturale. Infatti ognuno si sente direttamente membro della propria nazione, e per questo non sono necessarie particolari conoscenze o riflessioni, perché la sola comunità di lingua è sufficiente a produrre questo effetto. Se in più si predica espressamente alla gente che il compito più importante e più santo è quello di mettere in valore la propria nazionalità, diventa abbastanza facile fanatizzarla in modo da far gettare gli uni sugli altri come bestie. Sì, proprio come bestie, perché la proclamazione del principio di nazionalità costituisce in un certo senso una rinuncia alla ragione, e pone gli uomini sullo stesso piano degli animali. Nulla è così indiscutibilmente certo quanto il fatto che questi tipi nazionali fissati una volta per tutte sono una pura chimera, perché le nazionalità sono nate nel corso della Storia. Inoltre, esse non sono nate semplicemente perché delle famiglie nel corso delle generazioni sarebbero cresciute fino a divenire popoli, bensì a seguito di continue mescolanze con elementi estranei.
I ragionamenti non si prestano né a droni né agli striscioni. Si spera però che il pericolo del principio di nazionalità sia quantomeno compreso dalle classi dirigenti chiamate a guidare i paesi balcanici verso la pace europea: una buona trovata dei politici del passato, persone che furono capaci, per il bene comune, di ammainare le loro bandiere.
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