Tipologia: Reportage

Area: Kosovo,Serbia

Categoria:

Serbia e Kosovo, dialogo obbligato in sala d’aspetto

Il cammino di Belgrado e Pristina verso Bruxelles è segnato, ma il sogno ha perso di intensità e l’Europa sta rinunciando ai propri valori. Note sullo stato del dialogo tra Serbia e Kosovo a margine di un viaggio nella regione

16/01/2013, Paolo Bergamaschi -

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I nodi vanno sciolti. Prima o poi, presto o tardi ma i nodi devono essere sciolti. Non si può rimandare in eterno. Qualcuno dovrebbe avere il coraggio di spiegarlo alla propria opinione pubblica che il Kosovo è perso e non esistono margini ragionevoli di manovra né spiragli politici per riportare l’ex provincia sotto il controllo serbo. Eppure anche gli ultimi sondaggi dimostrano che la stragrande maggioranza dei serbi continua a preferire il ritorno di Pristina sotto l’ombrello di Belgrado all’ingresso del proprio paese nell’Unione Europea. Se i leader politici continueranno ad indugiare sottraendosi ipocritamente alle proprie responsabilità, la Serbia nei prossimi mesi rischia seriamente di perdere anche il treno per Bruxelles, dopo avere mancato quello per Pristina.

D’altronde, le diplomazie europee sembrano averne le scatole piene dei tira e molla di Belgrado con parole date e subito dopo dimenticate e accordi firmati e regolarmente disattesi. L’intesa raggiunta all’inizio del 2012 fra i negoziatori serbi e kosovari sulla partecipazione del Kosovo nelle organizzazioni regionali, e quella sulla gestione integrata delle frontiere sono rimaste, per mesi lettera morta. Solo adesso, dopo il terremoto elettorale che a maggio ha spazzato via il filo-europeo Tadić con il suo Partito Democratico, si comincia a riparlarne senza, però, farsi troppe illusioni. Ed è paradossale che sia proprio il nazionalista Tomislav Nikolić a dover sbrogliare la matassa, riannodando il filo del dialogo con l’ex leader dell’esercito di liberazione del Kosovo, Hashim Thaçi, oggi a capo del governo di Pristina.

Una visita a Belgrado

L’intenzione era quella di recarsi in visita a Belgrado per incontrare ufficialmente le autorità serbe, dopo l’attribuzione a marzo da parte del Consiglio Europeo dello status di paese candidato. Quando in Commissione Esteri fu presa la decisione, però, nessuno pronosticava un cambio al vertice. Sono trascorsi, ormai, cento giorni dall’insediamento del nuovo governo. “Occorre un po’ di indulgenza nel giudicare l’operato della nuova dirigenza”, mi confida un diplomatico europeo, “i ministri sono in buona parte esordienti”. Che i nazionalisti non si aspettassero di vincere le elezioni non è un mistero, così come non se lo aspettavano a Bruxelles. Dopo i primi momenti di disorientamento, però, la linea diretta ha ricominciato a funzionare. “Stato di diritto e situazione economica sono le due sfide più urgenti”, afferma Degert, l’ambasciatore dell’Unione Europea a Belgrado. “Con un sistema giudiziario inefficiente, la disoccupazione che viaggia verso il 25% ed il debito pubblico fuori controllo le prospettive della Serbia non sono affatto rosee”. Come le prospettive europee, peraltro. Ed il problema principale, il sasso nella scarpa che impedisce un cammino spedito è, ovviamente, il Kosovo. Nel pianificare la visita non si poteva non tenere conto di questo. Si è deciso, quindi, di aggiungere, opportunamente, una tappa supplementare a Pristina per sottolineare l’impegno dell’Unione su entrambi i fronti ed evitare pericolosi malintesi da parte serba.

Abiti tetri, giubbotti in pelle più neri della pece, calzature lucide di cordame scuro. Il nero è il colore predominante nel guardaroba balcanico. E’ una delle prime cose che ho notato quando più di venti anni fa cominciai a frequentare queste zone. Sembrava un segno del destino, il presagio di un oscuro e malefico incantesimo che imprigiona queste terre. Trovarsi, quindi, di fronte un rappresentante di governo in giacca beige, camicia azzurra con cravatta viola e jeans eleganti e, per giunta, giovane e spigliato non può che sorprendere ed è proprio questo, forse, l’effetto desiderato e voluto da Aleksandar Vučić, vice Primo ministro e ministro della Difesa, incaricato di farci gli onori di casa. A detta di tutti è lui l’uomo forte della coalizione al potere, l’eminenza grigia che controlla e tira le fila dei componenti della nuova compagine. Contrariamente ai predecessori, inoltre, sfoggia un inglese sciolto che evita gli intralci dell’interpretazione rendendo più immediato il colloquio. “Ci siamo impegnati a continuare il percorso di integrazione europea e non verremo meno alla parola data, i fatti contano più delle parole”, attacca deciso, “non c’è alternativa all’Europa, la Serbia non può certo pensare di associarsi con Bielorussia e Turkmenistan alla Russia nell’Unione Euroasiatica, anche se i rapporti con Mosca sono ottimi”. L’asse slavo-ortodosso negli ultimi mesi, in effetti, si è rafforzato con importanti accordi commerciali siglati con la controparte russa. Il rinnovato attivismo di Mosca nei Balcani, però, non sembra avere spostato il baricentro della politica estera serba. “Quasi tutti i partiti sono a favore della scelta europea e anche la gente del mio partito è affetta da una sorta di euro-dipendenza”. La conversione filo-europea del nazionalismo serbo è stata, per certi versi, sbalorditiva. Nato dopo le elezioni del 2008 da una scissione del Partito Radicale, il Partito Progressista Serbo non solo ha fagocitato tutti gli elettori della formazione di origine ma ha saputo gradualmente trasformare l’intransigenza di una base oltranzista nostalgica della Grande Serbia in un conservatorismo moderato sulla falsariga della tradizione continentale. Non a caso il Partito Progressista ha presentato domanda di adesione al Partito Popolare Europeo, la formazione di ispirazione cristiana che raccoglie i moderati del vecchio continente. “Per quanto riguarda il Kosovo”, sottolinea Vučić, “ci siamo impegnati ad un dialogo franco ed aperto con Pristina e lo porteremo avanti anche se non è facile mettere in pratica un accordo come quello sulla gestione congiunta dei confini fortemente osteggiato dalla totalità dei serbi”. Nel congedarsi il vice-primo ministro non lesina strette di mano e brevi scambi di battute con tutti gli interlocutori. La diplomazia si gioca anche sull’immagine e da questo punto di vista non c’è dubbio che lo stile di Vučić sembra accattivante ed efficace.

I nuovi vecchi socialisti

Di tutt’altra pasta appare Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo ed ex alleato dei Democratici di Tadić che oggi ricopre il ruolo di Primo ministro in coalizione con gli ex avversari nazionalisti. Abito nero di taglia abbondante con cravatta a strisce oblique nero-bianche su camicia chiara, dispensa all’ingresso energici abbracci di reminiscenza sovietica a tutti gli ospiti. Considerato il figlioccio di Milošević, del quale è stato per otto anni portavoce, è riuscito nella difficile operazione di mantenere e rilanciare il suo partito anche dopo la caduta e la scomparsa del vecchio autocrate. “Nei primi cento giorni di governo siamo riusciti a rimettere il paese in carreggiata mettendo un freno al deficit di bilancio”, esordisce convinto, “i nostri provvedimenti economici sono serviti a stabilizzare il dinaro e a riprendere la crescita”. Gli analisti prevedono che nel 2013 il prodotto interno lordo della Serbia aumenterà del 2% anche se molto resta ancora da fare sulla strada del consolidamento. “Siamo pronti a cominciare i negoziati di adesione all’Unione e vogliamo che Bruxelles fissi una data appena possibile”, aggiunge, “e per convincere gli europei della nostra buona fede metteremo in pratica tutti gli impegni presi con i leader kosovari”. A Dačić, però, non va affatto giù che nell’ultimo “Progress Report” della Commissione Europea, il documento annuale che misura gli avanzamenti dei paesi candidati nel percorso di integrazione, sia stato richiesto alla Serbia il rispetto dell’integrità territoriale del Kosovo. “Non riconosceremo mai l’indipendenza del Kosovo, ce lo impedisce la nostra costituzione, ma siamo disposti a sottoscrivere accordi con i rappresentanti di Pristina che regolino alcune delle questioni pendenti”, conclude evidenziando come nell’ultimo incontro con Thaçi, sotto la supervisione dell’Alto Rappresentante della Politica Estera Europea Catherine Ashton, si sia registrata una buona sintonia.

Fine del sogno europeo

Fra Belgrado e Bruxelles, però, c’è un altro problema che rischia di compromettere il cammino. Da quando l’Unione ha tolto l’obbligo di visto per i cittadini dei Balcani che entrano nello spazio Schengen è aumentato in modo esponenziale il numero dei serbi richiedenti asilo politico nei paesi europei, in particolare in Germania, Belgio e Svezia. Si tratta per lo più di rom e di persone appartenenti alle fasce più disagiate della popolazione, che faticano a trovare una collocazione nel complesso mosaico sociale serbo. Forte è la tentazione a Berlino e Stoccolma di reintrodurre il requisito del visto. Negli ultimi mesi la diplomazia europea ha aumentato la pressione sulle autorità di Belgrado che, nonostante i provvedimenti presi, non sono riuscite ad arrestare il flusso in uscita. D’altronde i generosi sussidi concessi in Germania a chi presenta domanda di asilo rappresentano una boccata d’ossigeno, almeno per i mesi che occorrono alle autorità tedesche per vagliare la richiesta e procedere all’espulsione, per chi in patria è senza lavoro o si barcamena alla giornata in condizioni di miseria. Non va dimenticato che il salario medio mensile in Serbia si aggira attorno ai 350 euro. Così facendo, però, i postulanti serbi ingolfano e mettono involontariamente a rischio un sistema di protezione concepito per chi è costretto a fuggire dal proprio paese a causa di guerre o persecuzioni politiche, condizioni che non sussistono nella Serbia di oggi.

L’Europa non è più un sogno e nemmeno un miraggio. Distacco e disincanto sono ormai in rapida ascesa nell’opinione pubblica serba nonostante la professione di fede nell’Unione ritualmente espressa dai principali partiti. Serpeggia un senso di frustrazione che si accavalla all’umiliazione di continuare a ricevere da Bruxelles rimproveri e ramanzine senza nulla di concreto in cambio. Ma non sono vecchi nostalgici dell’egemonia etnica ai tempi di Milošević o irriducibili cetnici attempati ad avere il sopravvento. Secondo gli ultimi sondaggi il 35% dei serbi è contrario all’adesione all’Unione ma è fra i giovani al di sotto dei trent’anni che si registra la punta più alta di sentimenti anti-europei. Quell’Europa che ha rappresentato la speranza di intere generazioni è vista dalla gioventù serba con un misto di indifferenza e risentimento, a sottolineare che il sogno è avvizzito e la crisi economica, che ha colpito più duramente chi è alla ricerca del primo impiego, ha irrimediabilmente compromesso la capacità di attrazione del processo di integrazione. Benessere diffuso, opportunità di impiego e stato sociale erano il biglietto da visita di un modello che, senza bisogno di costrizioni, affascinava e arricchiva l’immaginario collettivo delle società in transizione nei paesi a ridosso dell’Unione. Adesso che il modello vacilla anche il soft power, il potere dolce, l’elemento principale che costituiva il carattere distintivo della politica estera europea, si scioglie come neve al sole. Atene non è così lontana e a Belgrado, in fin dei conti, si può ancora vivere dignitosamente.

Belgrado – Pristina

Se non fosse per il forte mal di schiena, sopraggiunto nella notte, il viaggio fra Belgrado e Pristina, almeno nella prima parte, sembrerebbe liscio e confortevole. Tratti poco trafficati di autostrada alternati a strade a scorrimento veloce collegano la capitale a Kragujevac, città in pieno sviluppo industriale dopo gli ultimi investimenti della Fiat. Giganteschi simboli della casa automobilistica torinese campeggiano alle porte dell’agglomerato urbano mentre dalla tangenziale si scorgono i capannoni prefabbricati serviti dai binari della ferrovia dove sostano vagoni carichi di auto. Oltre Kragujevac, le infrastrutture viarie ritornano ai tempi della Jugoslavia. Si risale, quindi, fra curve e stretti tornanti, la valle del fiume Ibar, dove la campagna morta autunnale della pianura cede il passo ai boschi spogli delle colline. Al varco di Leposavić ci attendono alcuni membri della missione Eulex. E’ improprio chiamarlo dogana visto che per i serbi si tratta solo di un confine amministrativo e in effetti, ai lati, non compaiono simboli di stato. Per le autorità di Pristina, però, qui comincia ufficialmente il Kosovo e dovrebbe cessare la sovranità di Belgrado anche se di fatto non è così. Il poliziotto danese a capo della pattuglia ci illustra brevemente le operazioni di controllo dopo le proteste violente e le barricate erette dalla popolazione serba che risiede nella zona, che non ha alcuna intenzione di accettare la separazione dalla patria di origine. Mitrovica Nord rimane un’enclave ostile sia al nuovo stato kosovaro che alla missione di supervisione europea. Crimine e malaffare la fanno da padrone, mentre il governo serbo ne rivendica a volte l’annessione o uno statuto speciale di autonomia. Secondo l’accordo siglato con la mediazione europea il controllo delle merci dovrebbe avvenire a Vranje e nella parte meridionale di Mitrovica, le due città in Serbia e Kosovo più prossime al punto di passaggio, e non sulla linea di confine, dove verranno verificati solo i documenti di veicoli e passeggeri.

Molte le merci in arrivo dal versante serbo, poco o nulla da quello kosovaro fatta eccezione per qualche bilico carico di legname. Nessun problema, comunque, per i traffici illeciti che trovano sfogo nelle valli collaterali. Fra questi, raccontano i militari europei, quello delle armi continua ad essere fiorente. Gli anglofoni la chiamano “happy shooting”, che più o meno vuol dire “spari di gioia”, l’abitudine radicata in tutti i Balcani di celebrare qualsiasi avvenimento, pubblico o privato che sia e spesso dopo abbondanti bevute, con colpi di armi da fuoco con conseguenti inevitabili tragici incidenti. Secondo stime ufficiose sono circa un milione e mezzo le armi illegali in circolazione in Serbia, che si aggiungono ad altrettante detenute regolarmente. Non esistono dati per quanto riguarda il Kosovo, ma il numero di armi leggere consegnate dopo la fine della guerra di liberazione non è stato all’altezza delle aspettative.

Il piglio di Thaçi

Gli ultimi svincoli alle porte della città hanno decisamente alleggerito il traffico a Pristina. Le code, anche nelle ore di punta, appaiono meno soffocanti del solito. Il caos, però, è lo stesso di sempre come le facce degli albergatori del mio hotel, contenti di rivedermi dopo qualche mese di premeditata assenza. In settembre è terminata la fase di supervisione internazionale dell’indipendenza, dopo la dichiarazione unilaterale del febbraio del 2008, mentre è stata prorogata fino al 2014 la missione Eulex con il compito di preparare ed incanalare il paese verso l’integrazione europea. Per il nuovo ambasciatore dell’Unione, lo sloveno Zbogar, nell’anno in corso si sono registrati progressi sostanziali. La situazione, però, rimane precaria e lo rimarrà almeno fino a quando il Kosovo non entrerà a pieno titolo nella comunità internazionale. Giustizia, privatizzazioni e lotta alla corruzione sono le priorità indicate da Bruxelles ma oltre a queste, fa presente il diplomatico europeo, occorre avanzare sul piano del dialogo. “I negoziati fra Pristina e Belgrado devono continuare in modo serrato, ma va aperto un canale di comunicazione stabile anche fra le autorità di Pristina e la comunità serba di Mitrovica Nord, così come fra il governo di Belgrado e tutte le enclavi serbe sparse nel territorio kosovaro e non solo quella di Mitrovica”, osserva. E’ un dato di fatto che la convivenza fra la minoranza serba al di sotto dell’Ibar e la maggioranza albanese è migliorata visibilmente mentre nella parte settentrionale resistono gli irriducibili, forti della continuità territoriale con la madre patria ora messa in discussione dal contestato accordo sulla gestione integrata della frontiera.

Nonostante le critiche dell’opposizione, il confronto acceso con Belgrado, le inchieste dei giudici europei nei riguardi di alcuni suoi stretti collaboratori e il peso di una situazione politica ed economica per nulla incoraggiante, il Primo ministro Hashim Thaçi non ha perso il piglio del combattente. Ti fulmina con lo sguardo se cerchi di fissarlo negli occhi. “La mia è una agenda europea, siamo entrati in una nuova fase di relazioni con l’Unione”, sottolinea senza indugi, “l’obiettivo, adesso, è di normalizzare le relazioni con la Serbia”. A chi gli fa presente come occorra trovare un punto di mediazione almeno per quanto riguarda la parte settentrionale del paese, l’ex leader della guerriglia risponde secco che tutto deve avvenire nel quadro della costituzione del Kosovo. Risulta evidente che le costituzioni di Serbia e Kosovo sono incompatibili. Dal punto di vista giuridico bisognerà trovare una scappatoia ma, per ora, l’ostacolo appare insormontabile, un vero e proprio rebus per i negoziatori europei.

“Crimine organizzato e corruzione sono senza ombra di dubbio problemi gravi”, commenta con un eurodeputato, ma, aggiunge, “in questo senso la situazione non è peggio dei paesi vicini, Serbia inclusa”. E’ un dato di fatto”, conclude, “che l’esclusione del Kosovo da Interpol ed Europol ci penalizza nella lotta a queste due piaghe”. Nel portamento, nel tono della voce e nei gesti, Thaçi si sforza di mostrare agli interlocutori come tenga la situazione saldamente in pugno. Diametralmente opposta, nonostante provenga dai ranghi della polizia, è la figura di Atifete Jahjaga, la giovane presidente della repubblica eletta come candidato super partes dopo lunghi bisticci fra i partiti. Con lei l’atmosfera dell’incontro assume subito modi più rilassati ed amichevoli, segno di un’apertura e di una disponibilità al dialogo che riequilibra i ruoli nell’ambito della gerarchia kosovara. “C’è un futuro europeo sia per il Kosovo che per la Serbia, dobbiamo fare in modo che la normalizzazione delle relazioni porti vantaggi ad entrambi”, afferma misurando le parole, “ristabilire la fiducia è di fondamentale importanza, è tempo di mettersi il passato alle spalle e cominciare a cooperare”. Parole all’apparenza sincere che sembrano, però, cadere nel vuoto.

“L’Europa sta rinunciando ai propri valori”, commenta Ilir, un amico kosovaro, stanco di una situazione politica tutta avvitata sulle relazioni con Belgrado, “occorre in primo luogo normalizzare le relazioni all’interno del Kosovo”. In un caffè della capitale illuminata da un gelido sole mi racconta, prima della partenza, sorseggiando un bicchiere di merlot locale finalmente all’altezza, della crescente pressione politica su media e stampa indipendente, della scarsa trasparenza nella gestione degli affari pubblici e della sfiducia galoppante nei confronti della classe politica. Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire. Serbia e Kosovo continuano il lento cammino verso l’Unione Europea ma dovranno arrivarci con percorsi diversi badando bene a non perdersi negli incroci pericolosi. Ammesso che conoscano davvero la direzione di marcia, perché il navigatore fornito da Bruxelles non sempre funziona.

*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo

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