Tipologia: Intervista

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Area: Georgia

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Senza esperienza

L’incapacità di realizzare i propri ideali e di cercare compromessi, i rapporti con la Russia, il ruolo dell’ex-presidente Gamsakhurdia. Akaki Asatiani, tra i firmatari della dichiarazione di indipendenza georgiana, ricorda gli ultimi 20 anni

18/09/2009, Giorgio Comai -

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Akaki Asatiani è stato presidente del Parlamento georgiano dall’aprile 1991 al gennaio del 1992 ed in seguito è stato a lungo membro del Parlamento. È stato tra i firmatari delle dichiarazione di indipendenza della Georgia. Attualmente guida il partito georgiano d’opposizione extra-parlamentare "Unione Georgiana dei Tradizionalisti" e partecipa attivamente alla vita politica del paese. Lo abbiamo incontrato a Tbilisi.

Quali aspettative c’erano in Georgia durante le proteste di piazza del 1989?

Vent’anni fa, quando protestavamo contro l’URSS, ero certo che a questo punto, dopo due decenni, avremmo raggiunto un livello di benessere vicino alla media europea.

Purtroppo non è andata così, e le autorità incolpano la Russia della nostra attuale situazione. Senza dubbio la Russia ha le sue responsabilità, ma ritengo che noi stessi siamo in ampia parte responsabili della situazione in cui ci troviamo.

Perché le cose sono andate in questo modo?

Prima di tutto perché siamo andati allo scontro diretto con i comunisti. Alla fine degli anni ’80 non siamo riusciti ad opporci a loro sul piano politico, come è successo nelle repubbliche baltiche.

È anche una questione di mentalità legata in parte alla storia del nostro Paese. Per oltre 200 anni la Georgia è stata governata da Mosca, e vi era la diffusa percezione che le leggi fossero imposte dall’esterno. E se la legge era imposta, sembrava del tutto legittimo infrangerla.

L’ingiustizia delle leggi comuniste non faceva altro che rafforzare questa convinzione, ma purtroppo questo tipo di approccio verso la legalità è rimasto anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Ma c’è anche un’altra ragione. I leader del movimento di liberazione nazionale in quel periodo, già a partire dagli anni ’80, erano dissidenti, persone che erano state a lungo in prigione. Erano quindi poco propensi al compromesso e non avevano alcuna esperienza di governo.

Infine i nostri comunisti locali non sono riusciti a capire come stavano le cose e non hanno dato spazio alle riforme.

Come è stata la perestroika in Georgia?

Qui la perestroika semplicemente non c’è stata. Quando ho visto per la prima volta Gorbaciov ho pensato che ci fosse una reale possibilità di cambiamento. Ma i comunisti georgiani non si sono dimostrati disposti ad alcuna apertura. Penso che se avesse avuto inizio una reale liberalizzazione, il nostro movimento nazionale si sarebbe comportato diversamente, non ci sarebbe stato questo clima di scontro.

La situazione era paradossale: a me Gorbaciov piaceva e ai comunisti no. Lo dicevo anche ai comunisti all’epoca: "Voi non amate il segretario generale del vostro partito e a me piace. Non vi sembra strano?".

Penso che tutti debbano portare rispetto a Gorbaciov perché era un uomo che credeva sinceramente nella democrazia.

Quindi come si è sviluppata la situazione?

Ci sono state le elezioni del 1990, nel complesso libere. Noi del fronte nazionale abbiamo vinto con una larga maggioranza. Oltre a noi in parlamento c’era un piccolo gruppo di comunisti ma nessun altro partito di opposizione. E quindi ci siamo ritrovati ad avere un potere praticamente illimitato senza avere la benché minima esperienza di governo.

Certo, abbiamo anche fatto delle cose giuste. Sono ancora assolutamente orgoglioso di aver firmato la dichiarazione di indipendenza georgiana, qualcosa che i georgiani hanno sognato per generazioni. Eravamo anche riusciti a trovare un accordo con gli abkhazi…non però con gli osseti.

La cosa più importante per noi era l’indipendenza, mentre la democrazia sarebbe venuta dopo. Ora penso che si sarebbe potuto avere sia indipendenza che democrazia, ma allora ci sembrava che non fosse possibile fare altrimenti.

E dal punto di vista economico?

Allora non abbiamo considerato sufficientemente l’importanza dell’economia. Ai tempi dell’Unione Sovietica il direttore di una fabbrica non ne era semplicemente il direttore, ne era il proprietario. Certo non dal punto di vista formale, ma in pratica questa era la situazione, questa era la borghesia dell’epoca che chiedeva solo di avere legalmente ciò che sentivano già loro. Non abbiamo capito che avremmo dovuto dare loro queste fabbriche, formalizzare e legalizzare quella che era una situazione di fatto. Shevardnadze l’ha capito subito e non appena è arrivato al potere ha agito di conseguenza.

Tutti qui pensavano che sarebbe stato molto più semplice e rapido, che saremmo usciti dall’Unione Sovietica e non avremmo avuto problemi territoriali o economici. Anche a vent’anni di distanza né l’élite politica del Paese né la società hanno capito che la Georgia ha mantenuto il proprio territorio durante tutta l’esistenza dell’URSS proprio perché esisteva l’Unione.

Allora pensavamo che avremmo abbandonato l’Unione Sovietica, ma che la gente avrebbe continuato a venire nelle nostre località di vacanza e che tutti avrebbero continuato a comprare il nostro vino, il nostro tè e le nostre arance, persino le macchine prodotte a Kutaisi, che non servivano a nessuno. Ma solo l’Unione Sovietica poteva permettersi di produrre delle cose che non servivano a nessuno… L’Unione è crollata anche per questo.

Ma naturalmente è stato tutto molto più difficile, anche per via del clima di confronto con la Russia.

I rapporti con la Russia sono senza dubbio molto complicati…

Le relazioni con la Russia sono complicate e lo saranno ancora a lungo.

Negli anni ’90 si sarebbero potuti sviluppare dei rapporti diversi con la Russia, mentre Yeltsin era al governo, ma sia noi che l’Occidente abbiamo perso questa opportunità.

Il problema è che la Russia vuole mantenere le proprie sfere di influenza e non vuole capire che il mondo è cambiato. Quindi senza dubbio la Russia è un problema. Ma cosa abbiamo fatto noi per far sì che non lo fosse? Avremmo dovuto comportarci in modo diverso…

Zviad Gamsakhurdia ha guidato il movimento nazionale ed è stato il primo presidente della Georgia. Ma le sue politiche nazionaliste hanno portato al confronto con Abkhazia e Ossezia del Sud e alla guerra civile in Georgia. Come lo ricorda?

Gamsakhurdia ha lottato per tutta la sua vita per l’indipendenza della Georgia e non riusciva a vedere nient’altro. Secondo i sondaggi, in molti qui lo ricordano ancora come una delle persone più importanti della storia georgiana, e personalmente nutro grande stima per lui. La gente sa che era un grande patriota. Ma questo non vuol certo dire che fosse un buon presidente.

Non era pronto a cercare di raggiungere compromessi, con nessuno, non faceva parte della sua mentalità.

Era certo che le sue idee fossero profondamente giuste. Lo era al punto da ritenere che tutte le persone su questo pianeta devono essere dalla sua parte, se sono persone oneste. "Lotta per la libertà": come può qualcuno non essere d’accordo?

Ma naturalmente nessuno era contento del modo in cui portava avanti le sue idee.

Negli anni che hanno portato all’indipendenza della Georgia in molti hanno combattuto per degli ideali e dei sogni di libertà, democrazia e benessere. Ma poi c’è stata la guerra civile, le difficoltà economiche…

Sì, quei sogni non si sono realizzati. Bisogna avere degli ideali, ma è importante sapere come realizzarli. Avevamo tanti ideali, ci credevamo davvero ed eravamo pronti a tutto per realizzarli. Ma non sapevamo come fare. Nessuno ha voluto sedersi con calma per pensare a delle soluzioni efficaci e a come metterle in pratica. E questo non accade neppure oggi…

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