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Seconda guerra mondiale in Bosnia: come la violenza trasforma le comunità

Lo storico americano Max Bergholz racconta a BIRN come i massacri del 1941 nella città bosniaca di Kulen Vakuf dimostrano che gli sconvolgimenti causati dagli episodi di violenza possono trasformare identità e relazioni etniche

29/01/2019, Sven Milekić -

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(Originariamente pubblicato da Balkaninsight , nel programma Balkan Transitional Justice , il 16 gennaio 2019)

Il libro dello storico americano Max Bergholz "Violence as a Generative Force: Identity, Nationalism and Memory in a Balkan Community" racconta la storia dei massacri avvenuti nel 1941 a Kulen Vakuf e nei suoi dintorni, tra la Bosnia nord-occidentale e la Croazia.

I massacri di Kulen Vakuf, che hanno visto circa 2.000 uomini, donne e bambini brutalmente uccisi dai loro vicini in questa piccola comunità rurale nel giro di due giorni e due notti, sono stati largamente ignorati dalla storiografia tradizionale, e sono rimasti in qualche modo avvolti nel mistero.

Il libro di Bergholz, professore associato di storia presso la Concordia University di Montreal, racconta la storia dell’improvviso scoppio di violenza mortale in quella che era stata una pacifica comunità multietnica. È stato pubblicato per la prima volta in inglese nel 2016 , ma è stato recentemente tradotto in bosniaco per la prima volta dall’editore Buybook di Sarajevo .

Nel libro, Bergholz utilizza i documenti di una commissione jugoslava che raccolse elementi su questi crimini durante gli anni ’80, e altra documentazione da 12 archivi nella regione e interviste per descrivere eventi in gran parte sconosciuti al pubblico.

Lo studioso ha scoperto casualmente i massacri di Kulen Vakuf nel 2006, quando ha trovato una pila di documenti mentre cercava nell’Archivio della Bosnia Erzegovina a Sarajevo.

Secondo la sua ricerca, "la violenza intercomunitaria [nella regione di Kulen Vakuf] del 1941" non è "risultata da decenni di nazionalismo locale e scissioni etniche antagoniste".

"Piuttosto, una confluenza unica di eventi ha rapidamente rafforzato piccoli gruppi, i cui membri hanno correttamente percepito l’opportunità senza precedenti di trarre profitto e risolvere una volta per tutte i conflitti locali impiegando la violenza su un asse etnico.

Nella regione di Kulen Vakuf, la violenza scatenata per realizzare questi obiettivi si sarebbe presto trasformata in altri omicidi, culminando infine con i massacri del settembre 1941", ha dichiarato Berholz a BIRN.

La tesi principale di Bergholz, come suggerisce il titolo del suo libro, è che la violenza ha invece contribuito a formare le identità etniche e relazioni interetniche nella regione di Kulen Vakuf. Gli omicidi locali "hanno creato nuove percezioni di etnia – di se stessi, di presunti ‘fratelli’ e presunti ‘altri’".

"Di conseguenza, questa violenza ha forgiato nuove comunità, nuove forme e configurazioni di potere e nuove pratiche di nazionalismo. La storia di questa piccola comunità è stata quindi contrassegnata da un’inaspettata esplosione di violenza messa in atto localmente da parte di pochi, che ha funzionato come una forza immensamente generativa nel trasformare le identità, le relazioni e le vite di molti", spiega.

Con questa argomentazione, Bergholz tenta di introdurre un nuovo approccio nello spiegare la violenza intercomunitaria, che non si basi esclusivamente sull’idea che sia causata dall’etnia e dal nazionalismo.

Nascondere la verità mortale

Cinque mesi prima delle uccisioni a Kulen Vakuf nel settembre 1941, il movimento fascista croato ustascia aveva fondato lo Stato indipendente della Croazia, noto come NDH.

Tra la persecuzione di serbi, ebrei, rom e antifascisti, le unità ustasha nella regione di Kulen Vakuf, composte quasi interamente da abitanti dei villaggi locali, uccisero circa 700 dei loro vicini serbi alla fine del luglio 1941.

In risposta, i serbi del luogo, con alcuni sostenitori locali del Partito comunista che in seguito si unirono ai partigiani antifascisti, iniziarono una rivolta armata contro l’NDH. Durante la rivolta, i ribelli comunisti uccisero croati e musulmani locali in diversi villaggi.

A mano a mano che gli insorti crescevano in numero, a inizio settembre le forze dell’NDH, oltre agli abitanti croati e musulmani di Kulen Vakuf e dei villaggi limitrofi, si trovarono circondati. Dopo l’interruzione dei negoziati tra le forze dell’NDH e gli insorti, una colonna di circa 5.600 persone cercò di uscire dalla città assediata e dirigersi verso la città di Bihać.

La colonna fu attaccata dagli insorti, che uccisero tra le 400 e 500 persone. Circa 3.100 riuscirono a fuggire, ma gli insorti ne catturarono circa 2.000. Tra il 6 e l’8 settembre, uccisero altre 1.500 persone circa a Kulen Vakuf e nelle zone limitrofe, molte donne e bambini. Tuttavia, un piccolo numero di insorti e altri riuscirono a salvare – tra i prigionieri – circa 500 vite.

Spiegando i crimini locali degli ustascia prima dell’inizio della rivolta armata contro l’NDH a fine luglio 1941, Bergholz non si limita a indicare le cause della violenza nella natura "genocida" dell’NDH, ma afferma che c’erano anche altre ragioni.

Alcuni dei crimini degli ustascia sono stati commessi sotto il presunto pretesto della "violenza di massa preventiva e di autodifesa", mentre la motivazione per la violenza differiva drammaticamente tra i comandanti che ordinavano i crimini e quelli che li commettevano.

Il libro fornisce dettagli sulla brutalità delle uccisioni e testimonianze sconvolgenti di alcuni sopravvissuti, ma Bergholz si concentra maggiormente sulla spiegazione dei nessi causali tra gli eventi e fornisce un’analisi dettagliata delle motivazioni di tutti gli attori coinvolti.

Bergholz ammette che la vendetta fu un fattore rilevante nei crimini commessi a Kulen Vakuf tra il 6 e l’8 settembre 1941, ma spiega che le uccisioni erano anche dovute al fallimento degli insorti che cercavano di impedire le uccisioni.

"Queste persone cercavano di regolare i conti con gli ustascia, ma non volevano danneggiare quelle persone che gli ustascia pretendevano di rappresentare, cioè tutti quelli percepiti in quel momento come croati".

Per anni dopo la guerra, i crimini commessi a Kulen Vakuf durante la rivolta non furono pubblicamente discussi nella Jugoslavia socialista, in parte perché alcuni comandanti e molti partecipanti coinvolti nei crimini continuavano a ricoprire incarichi importanti nel Partito comunista e nell’esercito popolare jugoslavo, spiega Bergholz.

Inoltre, la Commissione jugoslava per i crimini di guerra ha affermato che le uccisioni sono state commesse da ribelli che erano su posizioni "cetniche [nazionalisti serbi]". Questo racconto della storia della regione in tempo di guerra ha spinto a fare una netta distinzione tra gli insorti nel 1941, "tra coloro che avevano commesso uccisioni a Kulen Vakuf – che ora potevano essere considerati essenzialmente ‘cetnici’ – e quelli che non avevano ucciso, sebbene i combattenti di entrambi i gruppi si fossero effettivamente uniti ai partigiani", continua Bergholz.

"Eppure questa storia era ampiamente conosciuta nell’area tra le persone che hanno vissuto la violenza di quell’anno. Ma questa era una verità di cui la popolazione locale imparò presto a non parlare, almeno pubblicamente, a causa del contesto politico postbellico", continua, aggiungendo che "uno strano silenzio" su questi crimini ha caratterizzato il periodo postbellico nella regione di Kulen Vakuf.

Ogni anno a luglio, la comunità serba croata e gruppi antifascisti ricordano l’inizio della rivolta contro l’NDH, mentre gruppi di estrema destra inscenano proteste, citando crimini contro i croati nei villaggi di Boričevac e Brotnja nella regione di Kulen Vakuf. Gli estremisti di destra, che usano i canti e le insegne ustascia, non si riferiscono alla rivolta come antifascista, ma sostengono che sia stata messa in scena dai nazionalisti serbi cetnici.

Tuttavia, Bergholz sostiene che questi crimini non possono essere classificati come cetnici o partigiani, nonostante alcuni partecipanti si siano successivamente uniti a entrambi i movimenti.

Affrontare i crimini commessi nella regione di Kulen Vakuf richiede un approccio onesto che tenga conto di tutte le complessità, come il ruolo di alcuni abitanti del villaggio di Boričevac nei crimini contro i loro vicini serbi.

"L’attacco dei ribelli a Boričevac fu il risultato delle politiche NDH di discriminazione e violenza attuate dagli ustascia locali", spiega.

Tuttavia, continua, anche se alcuni abitanti del villaggio erano degli ustascia attivi, molti altri non lo erano, e alcuni di loro hanno sofferto molto per l’attacco dei ribelli.

Pertanto, i gruppi antifascisti non dovrebbero rappresentare gli insorti come innocenti nelle violenze contro gli abitanti del villaggio di Boričevac e le loro proprietà, insiste Bergholz, mentre i radicali di estrema destra non dovrebbero rappresentare tutti gli abitanti del villaggio come martiri innocenti, vittime di un attacco non provocato.

La violenza di massa distrugge la convivenza

Sebbene non sia uno studioso delle guerre degli anni ’90 nell’ex Jugoslavia, Bergholz ritiene che la violenza abbia avuto un ruolo generativo anche nell’ulteriore radicalizzazione di quei conflitti.

"Molte ricerche hanno dimostrato che le relazioni sociali locali prima della violenza degli anni ’90 non erano, di fatto, altamente antagonistiche. E’ stata necessaria la violenza di massa per alterare drammaticamente quello che era stato l’ecosistema locale della convivenza interetnica che esisteva da decenni", afferma.

"In questo senso, è possibile sostenere che durante gli anni ’90 la violenza dispiegata da piccoli gruppi abbia funzionato come forza generativa per trasformare l’essenza del senso di identità di molte persone, il nazionalismo e la memoria. E questa violenza ha portato alla creazione di enormi divisioni tra molte persone, molte delle quali avevano precedentemente vissuto insieme in pace", aggiunge.

Bergholz vede la traduzione del suo libro in bosniaco come un’opportunità per i ricercatori locali, così come per il pubblico in generale, di esaminare le cause e le dinamiche delle violenze locali commesse fuori dai centri urbani, nelle aree rurali.

Spera che il suo studio possa aiutare a contrastare la diffusa percezione nella regione che "la storia si ripete", spesso evocata quando le persone fanno riferimento a presunti legami tra la Seconda guerra mondiale e i conflitti degli anni ’90.

"La storia in questa parte dei Balcani, così come la storia in qualsiasi parte del mondo, non si ripete in un ciclo mistico. Le persone fanno la storia e la fanno con le proprie scelte", sottolinea Bergholz.

"Nel mio racconto di questa storia, identità, nazionalismo e memoria spesso non sono ciò che ha causato la violenza per distruggere la vita di così tante persone; invece, molte meno persone hanno scelto di perpetrare la violenza, e così facendo hanno creato e ricreato forme altamente antagoniste di identità, nazionalismo e memoria", aggiunge.

"E oggi incombono nelle vite di molte persone in questa parte del mondo. E fanno sembrare quasi inevitabili un presente e un futuro etnicamente divisi", ha affermato, prima di concludere con la speranza che il suo libro possa aiutare ad "aprire nuove prospettive per immaginare un passato diverso e, per estensione, un futuro alternativo".

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