Sarajevo, per la dignità dell’Europa
Le proteste in corso in Bosnia Erzegovina e il prossimo voto per il Parlamento europeo. Una riflessione che parte dal movimento di solidarietà con i Balcani negli anni ’90. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Se qualcuno in vista delle elezioni europee volesse capire qualcosa di più del lato oscuro dell’Unione europea, del fiscal compact e del vincolo del 3%, non dovrebbe guardare a Berlino. Dovrebbe prendersi una settimana di ferie e correre in Bosnia Erzegovina: a Zenica, Tuzla, e soprattutto a Sarajevo dove la protesta, questa volta sociale ed operaia, attraversa le divisioni della guerra e della pulizia etnica.
Viaggiare nella storia
Andare a Sarajevo viaggiando nella storia. Da dove 100 anni fa il colpo di pistola di Gravilo Princip diede il via alle due guerre mondiali (la seconda è il prosieguo della prima), partorite dall’Europa del “laissez fair capitalista”, dei nazionalismi e del fallimento delle socialdemocrazie.
Dall’inizio del secolo breve degli orrori, ma anche delle Resistenze, del welfare e del “mai più guerre”. Il secolo delle grandi mattanze, ma anche del ripensamento che accantona il liberismo dalle Costituzioni e giura di fare dell’Europa un continente unito, in pace e senza razzismi.
A Sarajevo inizia il ‘900, e a Sarajevo finisce, tra le macerie del sogno di poter vivere assieme tra diverse culture.
Sarebbe un viaggio negli omissis “democratici e di sinistra”, che non sono solo le foibe, ma secoli di storia. Nei ritorni del liberismo e nella cattiva coscienza dell’Europa, sempre civilissima, sempre mitteleuropea e sempre affascinata dalla superiorità germanica. E nelle italiche e provinciali convinzioni che civiltà e democrazia stanno sempre a Nord, mentre i Balcani sono sempre un buco nero, una barbarie da ignorare, anche se vicini a noi più di Parigi.
I Balcani non stanno negli itinerari del popolo democratico e di sinistra, non stanno nella nostra conoscenza, nei nostri interessi. Sono cancellati come luoghi di vita vissuta da una umanità. Si va a fare il bagno in Croazia o a caccia in Bosnia, ma non vediamo…
Noi e i nostri ragazzi, per vedere, andiamo a Londra, Berlino, Parigi, Barcellona. Andiamo a cercare conferma del nostro essere civilissimi ed europei e per nasconderci il fallimento, il cannibalismo dei forti, l’autodistruzione delle comunità: sociali, istituzionali, culturali e umane, che avanza.
La Bosnia è il luogo dove se ti specchi vedi le brutture dell’anima europea nascosta. Vedi le rotture, le grandi faglie della storia del continente che si incontrano e si accavallano.
Identità europea
Chi cerca l’identità europea deve andare a Sarajevo tra i brandelli che ancora vivono nella realtà e nella memoria delle tante culture che l’hanno composta: la greca, la romana, la slava, l’ottomana, la mitteleuropea, l’ebraica, l’italiana, la zingara.
Nel febbraio del 1994 iniziavo il mio viaggio dentro la Bosnia, parte di una pattuglia di europei, portatori di un’altra Europa: di riconciliazione, di ambasciate della democrazia locale. Un viaggio più volte ripetuto, lungo tutte le strade di Bosnia, passando in mezzo a macerie reali e metaforiche ancora fumanti, in mezzo ai volti dei criminali di guerra.
Chilometri e lunghe discussioni tra di noi, per capire il senso di una tragedia che ci colpiva occhi, mente e cuore attraverso la sistematica distruzione della “casa del vicino”, e i profughi. Per capire il senso delle domanda: di chi la colpa?
Del crollo del comunismo? Della fine del coperchio titoista che per decenni ha nascosto antichi odi? Della mancata rielaborazione dei conflitti del passato? Della criminalità organizzata e della corruzione politica, nate nel ventre degli apparati del comunismo? Degli odi delle campagne verso le città? Della svendita culturale degli intellettuali ai nuovi poteri etnico religiosi?
Cercavamo le colpe nel passato della ex Jugoslavia, nel fallimento del mondo al di là della cortina di ferro.
Il peso del liberismo
Tutte cose vere, pertinenti, che non andavano nascoste e giustificate con il pensiero del complotto occidentale. Ma che non coglievano il peso avuto dalla volontà liberista europea su quegli avvenimenti e come questi fossero, in forme diverse, l’anticipazione degli attuali disastri economico-sociali dell’Unione europea, della Grecia, del nostro paese. Non coglievano il perché, mentre infuriava la guerra, il marco tedesco fosse in quelle contrade l’unico elemento unificante.
Avremmo dato un senso diverso alla responsabilità della Germania, del Vaticano, dei partiti europei, dell’ambientalismo e persino di alcune figure del pacifismo italiano che soffiarono sul fuoco della separazione della Slovenia e della Croazia dalla Serbia, e poi della Bosnia, dove la separazione era impossibile.
Avremmo capito che in quel momento l’Europa applicava la “teoria dello shock” di Milton Friedman, attraverso la quale si impongono ai cittadini le riforme strutturali che altrimenti troverebbero resistenze. Che lo spezzatino delle repubbliche era veicolo per vincoli di bilancio, privatizzazioni dell’apparato industriale, liquidazione di tutto ciò che è pubblico, svendita del patrimonio naturale.
E che tutto ciò anticipava l’odierna attualità.
Lo potevamo vedere già nei nostri viaggi a macerie ancora calde, nei grandi camion pieni dei tronchi delle foreste disboscate, nei trafficanti di rifiuti tossico/nocivi alla ricerca di discariche, nelle fabbriche smembrate e comprate a prezzo di rottame dalle multinazionali.
Oggi lo puoi vedere nell’assalto, con le dighe, all’acqua dei meravigliosi fiumi di Bosnia da parte delle imprese tedesche ed italiane, nelle miniere e nelle acciaierie privatizzate, negli operai licenziati in massa, nella disoccupazione, nel territorio venduto.
Un “water grabbing” e un “land grabbing” silenzioso alle porte di casa nostra, che oggi si estende alla Grecia, all’Italia e al suo patrimonio artistico e naturale, che diventa politica nelle direttive e nel Blueprint , il piano europeo che annuncia la monetizzazione di tutte le acque: dei fiumi, dei laghi e delle falde dell’Unione europea.
Una comunità di popoli
22 anni fa, in Bosnia, si misurava la volontà europea di tenere assieme tutte le culture che l’hanno partorita; la scommessa quindi di poterci unire noi, i fondatori dell’Unione, e trasformarci in effettiva comunità di popoli, non più in competizione, non più portatori di guerre, non vassalli del più forte economicamente o dei poteri transnazionali. La scommessa fu persa e vinse l’avidità.
Ecco perché andare a Sarajevo è scoprire la metafora dell’odierno fallimento dell’UE, dei nostri partiti, della nostra arrogante modernità, della cecità e della logica di potenza della Germania che ancora una volta si fa motrice di altre macerie.
Tornare a Sarajevo sul ponte della Milijacka, o a Mostar, sul ponte della Neretva, per ripensare all’Europa non come Unione ma come comunità di popoli e di beni comuni.
Per ricordare l’origine: la CECA, Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, beni comuni fondamentali per la ripresa dalla guerra e per l’idea che il 900 aveva dello sviluppo. Per ripensare oggi ad una Comunità Europea dell’Acqua e del Territorio. Una comunità di popoli che fa i conti con il limite delle risorse, e che pensa ad una gestione in comune dei beni essenziali, al vivere assieme sobriamente e nella dignità.
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