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Sarajevo, la città prisma

Lo scrittore sarajevese Dževad Karahasan descrive l’incendio e distruzione della Vijećnica in una nuova edizione di Diario di un trasloco, da poco disponibile in italiano. La letteratura dell’assedio

02/10/2012, Piero Del Giudice -

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Questa sera Karahasan interverrà nel corso di una manifestazione a Palazzo Ducale a Genova

Dnevnik selidbe (“Diario in trasloco”), questo il titolo originario del piccolo aureo libro di Dževad Karahasan, scritto nell’assedio di Sarajevo, assemblato e pubblicato fuori della “blokada”, nell’esilio. Lo ripropone ADV, editore in Lugano, con il titolo Sarajevo centro del mondo, diario di un trasloco. Nutrito il numero delle pagine inedite, rispetto alle storiche uscite per Il Saggiatore quasi venti anni fa (1994-1997), e un capitolo nuovo sul bombardamento, incendio e distruzione della Vijećnica (la Biblioteca Nazionale Universitaria di Sarajevo).

Libri sull’assedio di Sarajevo (aprile 1992-febbraio 1996) ne sono usciti di ogni tipo. Veri e presunti, buoni e cialtroni, naif e sapienti. Predrag Matvjević, per esempio, che è stato e rimane uomo di costante coerenza antinazionalista, anche lui non ha resistito. Predrag che ha avuto, lui originario di Mostar, la famiglia colpita duramente dai neoustaša herceg-bosniaci (il corpo martoriato di un suo nipote, croato pacifista, è stato ritrovato nella Neretva, mani legate dietro alla schiena e caviglie imbracate con il filo di ferro). Matvejević è stato poche ore nella Sarajevo assediata, tra un’andata e ritorno in giornata organizzata dall’Onu. Gli sono bastate per scrivere un libro sull’assedio.

Era un must entrare nell’assedio di Sarajevo, una gara: trafficanti, borsaneristi, imbroglioni, inutili funzionari dell’Onu, mercenari con la divisa dell’Onu, precari di varie associazioni, filmaker amatoriali, fotografi amatoriali, giornalisti amatoriali, inviati delle grandi testate, volontari d’ogni tipo e tanta, tanta gente seria e motivata.

I giornalisti italiani delle grandi testate che alloggiavano nell’unico albergo funzionante della città (acqua – poca – ma calda e fredda, cibo e soprattutto alcool all’Holiday Inn) si vantavano di uscire dall’assedio con il ponte aereo Onu per il week-end, a/r Sarajevo-Ancona-Sarajevo: pesce dell’Adriatico e vino, crapula e donnine.

Chi ci doveva stare dentro l’assedio, e ci moriva, erano i sarajevesi di Sarajevo. Chi scriveva sotto le granate e il tiro dei cecchini erano gli scrittori e i poeti e gli artisti autoctoni, i cittadini della loro Città.

La rosa di quelli che resistono alle mutazioni – non poche, un intero Paese è scomparso e la sua letteratura anche – comprende cinque, sei autori. Per la poesia Abdulah Sidran e Izet Sarajlić, per la prosa Miljenko Jergović di Le Marlboro di Sarajevo, Marko Vešović Scusate se vi parlo di Sarajevo, Tvrtko Kulenović di Storia di una malattia e soprattutto Dževad Karahasan con il suo Diario di un trasloco.

Sia per la struttura, sia per l’esilità, il libro di Karahasan ricorda quello, altrettanto importante come testo-testimoniale, di Giacomo Debenedetti 16 ottobre 1943, sulla razzia del ghetto e deportazione degli ebrei di Roma. Scritture del tutto diverse: didascalica, perentoria quella di Debenedetti, profetica, veggente, monologante quella di Karahasan. L’analogia sta nella autonominazione a libro di una tragedia. Opere/demiurghi, caricano su di sé i fatti, vi si specchiano e li trasformano in Libro. Opere insostituibili, vicarie di quale che sia analisi storica, memorabili. Libri della memoria degli uomini.

Della sua città, la Città che lo scrittore vede ogni giorno vieppiù demolita dai colpi di cannone nelle sue strutture semantiche e nei suoi assetti culturali, Karahasan scrive: «Sarajevo è la città più grande e più importante della Bosnia Erzegovina, da tutti i punti di vista una tipica città bosniaca, fondata nel 1440 da Isa bey Isha kovi. Costruita nella valle del fiume Miljacka, circondata da montagne che quasi la recingono, isolata dal mondo, difesa da tutto ciò che le è esterno e completamente ripiegata su se stessa. Il centro commerciale della città, la Čaršija si stende sul fondo pianeggiante della conca, mentre intorno, sulle pendici delle montagne, sono cresciuti i quartieri dove la gente abita e che si chiamano mahale. In questo modo il centro è doppiamente separato dal mondo: dalle montagne che circondano la città e dalle mahale. Queste, per configurazione di territorio e come soluzione urbanistica proiettata sul centro, funzionano da armatura che protegge da tutto ciò che è esterno, così come la lumaca e la conchiglia sono protette dal loro guscio. Forse perché questa duplice recinzione la costringe a “guardarsi dentro”, a rivolgersi tutta verso la propria interiorità, oppure per chissà cos’altro, Sarajevo è diventata ben presto metafora del mondo. Il luogo in cui differenti volti del mondo si sono raccolti in un punto come nel prisma si concentrano i raggi di luce dispersi».

Dell’assedio Karahasan racconta i bombardamenti, le morti e l’invidia dei vivi per chi è morto. Racconta la distruzione e le macerie della Biblioteca nazionale, il rapporto con gli studenti della scuola di Drammaturgia dove insegna, con la letteratura e la responsabilità intellettuale. È un libro esile, asciutto, dove i fatti dell’assedio si alternano alle lunghe pagine di riflessione. Tra le più alte e scosse da un dolore esistenziale, quelle sull’esodo dei cittadini di origine ebraica da Sarajevo assediata. Gli ebrei giungono a Sarajevo, nell’impero ottomano, dopo la cacciata dalla Spagna (1492), ad opera dei re cattolici castigliani. Non avranno restrizioni né di luogo, né di commercio, né di mestiere. Sarajevo non ha avuto ghetto. Gli ebrei sarajevesi sono stati decimati e deportati nella occupazione ustaša-nazista della Seconda guerra mondiale. Alcune migliaia i residenti nell’assedio, un centinaio o poco più, oggi.

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