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Sarajevo, Belgrado, Pristina… Baghdad

Lezioni (non) imparate dal dopoguerra! Un contributo di Cristophe Solioz, Direttore del Forum per le Alternative Democratiche.

03/04/2003, Redazione -

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo inviatoci dal Forum per le Alternative Democratiche, rete di supporto internazionale (Sarajevo/Ginevra/Bruxelles), che prova a immaginare lo scenario del dopoguerra iracheno a partire da una analisi degli interventi messi in atto dalla comunità internazionale nei dopoguerra balcanici

Di Cristophe Solioz*

Tradotto da: Carlo Dall’Asta

Ormai incominciata la guerra contro l’Irak, ci si può in tutta inquietudine sbilanciare sul suo esito, cioè sulla volontà sbandierata dall’amministrazione Bush di democratizzare il Paese in questione. Questa riflessione, purtroppo attuale, invita a trarre una lezione dalle esperienze fatte in materia di democratizzazione nei Balcani. In effetti, al di là della specificità dei rispettivi contesti, un esame minuzioso dei recenti interventi della comunità internazionale permette di mettere in evidenza parte della posta in gioco e dei problemi relativi alla esportazione della democrazia.

La disfatta delle liste civiche della Bosnia e dell’Erzegovina a fine 2002, ma beninteso ancora di più l’assassinio di Zoran Djindjic il 12 marzo 2003 ci mettono di fronte alla seguente constatazione: più di sette anni dopo la firma degli Accordi di Pace di Dayton e quasi quattro anni dopo l’instaurazione del Patto di Stabilità per l’Europa del Sud-Est, emerge in maniera evidente che – tanto in Bosnia ed Erzegovina che in Serbia e in Kosovo – la comunità internazionale ha ingenuamente sottostimato la complessità e difficoltà del processo di transizione e di democratizzazione, come anche l’ampiezza delle resistenze a livello locale.

A malapena ristabilito lo stato di diritto in Serbia, ci si immaginava che la democrazia fosse già un fatto compiuto proprio mentre l’apparato di sicurezza, la mafia criminale e le organizzazioni nazionaliste estremiste non erano né eliminate né controllate. In breve, l’illusione di una democratizzazione istantanea! Tutto questo ha un prezzo: Zoran Djindjic e il suo paese l’hanno pagato molto caro. Nell’ambito delle strategie di assistenza alla democratizzazione, gli errori della comunità internazionale sono di tale ampiezza che si indovina già la versione Bagdad di uno stesso scenario. Da qui la pertinenza di ripassare alcune lezioni apprese – o no – tra Sarajevo e Belgrado.

In primo luogo, tanto in Bosnia-Erzegovina quanto in Serbia, la comunità internazionale e molti esperti hanno mancato di cogliere la complessità e la specificità dei processi di transizione e di democratizzazione – ben differenti da quelli osservati non molto tempo fa nei paesi dell’Europa centrale o dell’America latina per esempio. Questo spiega perché l’esportazione massiccia di progetti d’assistenza doveva rivelarsi inadatta e avere per effetto paradossale quello di rinforzare la sindrome di dipendenza dei paesi beneficiari dell’aiuto straniero.

In secondo luogo, mentre da molti decenni le ricerche condotte in transitologia pongono l’accento sul fatto che gli attori locali devono essere il motore di ogni processo di democratizzazione, e che per conseguenza ogni intervento esogeno deve adattarsi al contesto locale e, soprattutto, coinvolgere gli attori locali affinché essi pilotino in prima persona il processo di trasformazione del proprio Paese, le agenzie della comunità internazionale non sembrano conoscere come unici strumenti che una attitudine neo-coloniale e la sola condizionalità che – se si può giustificare in una fase iniziale o in certi ambiti – hanno come effetto perverso di limitare fin troppo il ruolo e la legittimità delle autorità del Paese ricevente, non facendo così che aumentarne il discredito agli occhi della sua popolazione. La mancanza di legittimità della classe politica locale è dimostrata in modo probante dalla fiacca partecipazione ai recenti scrutini elettorali, così come da diversi sondaggi.

Queste due constatazioni sono confermate da un’analisi più dettagliata di diversi progetti d’assistenza, che vanno dall’aiuto alla democratizzazione allo sviluppo della società civile passando per lo sviluppo di programmi economici e giuridici. Le osservazioni ripetute fanno a gara nel rilevare: che numerosi progetti ignorano le iniziative locali e che solo raramente sono concepiti in reale cooperazione con gli attori locali; in più, che sono importati senza sforzo di adattamento, imposti a breve termine senza strategie di sviluppo a lungo termine; e infine che – quando le agenzie internazionali lasciano il Paese – molto spesso non viene messo in atto nessun meccanismo di trasferimento delle competenze all’indirizzo di organismi governativi o non governativi locali.

Il discorso sulla globalizzazione tende a nascondere in primo luogo l’influenza preponderante del contesto geo-politico-economico sui processi di democratizzazione e, in secondo luogo, che una transizione e democratizzazione riuscite presuppongono un’adattamento dell’aiuto straniero e un processo di appropriazione da parte degli attori locali – da cui l’importanza di un’autentica partnership a lungo termine tra agenti internazionali e nazionali.

Se certe agenzie o fondazioni, spesso all’origine di progetti di taglia modesta, operano in questo senso, questo non è neanche lontanamente il caso delle grandi e potenti agenzie come USAID, per non fare nomi. E c’è proprio da scommettere che questa agenzia applicherà all’Irak il modello (Rural Community Development Cluster, CRDA) sperimentato inizialmente in Libano e poi nei Balcani… consistente nel lanciare – per prendere il caso della Serbia – 366 progetti in 297 municipalità diverse in un lasso minimo di tempo senza curarsi né dell’adeguamento delle iniziative né della loro durata.

Se la guerra rischia di essere più lunga del previsto, il dopo guerra ci metterà quasi certamente di fronte alle stesse incoerenze nei modi dell’aiuto allo sviluppo e alla democrazia. A meno che la morte di Zoran Djindjic favorisca una presa di coscienza non solo a Belgrado, ma anche a Washington e a Londra!

* Direttore del Forum per le Alternative Democratiche (isn), Sarajevo/Ginevra/Bruxelles, ha appena pubblicato sotto la sua direzione e quella di Svebor Dizdarevic: Bosnia-Erzegovina: la posta in gioco della transizione, Parigi, L’Harmattan, 2003, 160 pp.

Ginevra, 22 Marzo 2003

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