Rugova, una vita
Un commento per Osservatorio sui Balcani sulla scomparsa del Presidente del Kosovo. Scrive Roberto Morozzo della Rocca, a lungo impegnato con la Comunità di Sant’Egidio nella mediazione tra Belgrado e Pristina e che in questa veste ha conosciuto personalmente Rugova
Di Roberto Morozzo della Rocca
La scomparsa di Ibrahim Rugova è una grave perdita per gli albanesi del Kosovo. S’è discusso per anni delle caratteristiche politiche di Rugova. Alcuni vedevano in lui il politico raffinato, al di sopra delle beghe materiali e delle polemiche del momento. Altri negavano che fosse un autentico politico, facendo notare la rarità delle sue apparizioni pubbliche, l’apparente passività nel governo, l’assenza di decisionismo, l’estenuante attendismo. Ma la centralità di Rugova non veniva da una speciale abilità politica tecnica, né dall’essere un intellettuale onesto e puro prestato alla politica. Se di Rugova si sentirà la mancanza è perché era riuscito a divenire un simbolo. Rappresentava l’unità del suo popolo.
Come s’era creata questa identificazione tra Rugova e il suo popolo? Grazie all’origine familiare, blasonata non solo dalla rispettabilità sociale degli avi ma anche dai lutti per mano comunista-serba alla fine della seconda guerra mondiale. Grazie alla fermezza del suo discorso – quel ripetere all’infinito il ritornello dell’indipendenza, senza sfumature ma anche senza estremismi e senza minacce, ciò che lo rendeva affidabile agli occhi della società albanese kosovara nazionalista ma anche rurale e conservatrice, e lo rendeva altresì interlocutore gradito all’Occidente. Grazie alla sua geologica pazienza nel cercare udienze presso i Grandi del mondo, le cui serie fotografiche venivano poi riprodotte in abbondanza, raccontando la sua amicizia con Clinton o Giovanni Paolo II non soltanto dai muri della sua abitazione privata o della fortunosa sede di cui la LDK dispose a Pristina fino al 1999. Grazie all’aureola di uomo superiore che si smarcava dalla rissosa arena politica kosovara, non raccoglieva provocazioni, si manteneva super partes, aveva un naturale atteggiamento presidenziale. Nel distacco dalla mischia, Rugova innovava lo stile politico balcanico e questo lo rendeva diverso, unico, presidenziale per l’appunto.
Finché aveva avuto accanto a sé l’anziano Fehmi Agani, suo intelligente braccio politico, era riuscito a evitare molti scogli delegando a quest’ultimo. Ucciso Agani nel 1999, aveva dovuto addossarsi maggiori responsabilità politiche dirette: in questo senso il Rugova del dopoguerra era diverso, se non nello stile, quantomeno nel coinvolgimento in fatti, problemi, decisioni. La sua "diversità" aveva perso smalto, non consenso perché la sua fermezza sul tema dell’indipendenza era rimasta intatta e non aveva abusato del potere a fini personali come altri protagonisti della politica kosovara del dopoguerra, che a differenza di lui erano dei parvenu. E la gente comune gli era rimasta grata per la scelta di dieci anni prima, quando gli albanesi non avevano ancora appoggi internazionali per combattere i serbi: la scelta di organizzare una resistenza e un’alternativa pacifica al dominio serbo che evitasse lutti e distruzioni.
Ora la morte di Rugova apre un vuoto. Non necessariamente per quella diplomazia internazionale che spesso e volentieri criticava la pretesa passività e l’attendismo di Rugova. Il vuoto si apre per il popolo albanese kosovaro che perde il simbolo della sua unità. Questo era l’apporto maggiore di Rugova ai suoi. Non il Leitmotiv dell’indipendenza che del resto ogni albanese della regione sa cantare da solo, ma il saper fare unità. Gli avversari politici figliati dall’UCK, finite le ostilità nel giugno 1999, non si capacitavano di come fosse possibile che Rugova, non avendo combattuto, li sopravanzasse di tanto nei consensi popolari. Non avevano capito quanto Rugova simboleggiava l’unità nazionale, né che la nonviolenza aveva goduto di larghi consensi popolari.
Si tentò di screditare Rugova con la famosa stretta di mano a Milosević. Non era la prima volta di un simile incontro: Rugova aveva già incontrato Milosević un anno prima, forzatovi dalla diplomazia americana. Da sempre Rugova ripeteva che avrebbe potuto incontrare Milosević a condizione che prima avvenissero sostanziali progressi nel trattamento riservato da Belgrado agli albanesi in Kosovo. Gli americani lo forzarono all’incontro, salvo ritenerlo, poco dopo, inabile per la loro politica di accelerato scontro con la Serbia, e sostituirlo nelle loro preferenze con Thaçi e l’UCK. Rugova, pur appena plebiscitariamente rieletto presidente nelle elezioni semiclandestine albanesi, accettò il declassamento di Rambouillet per amor di patria, comportandosi da aristocratico. E rientrò in patria da Rambouillet nei giorni successivi al fallimento definitivo delle trattative, pur sapendo ciò che sarebbe accaduto in capo a poche ore. Non chiamò fuori la famiglia a raggiungerlo al sicuro ma scelse di rischiare la vita accanto al suo popolo. Cadute le prime bombe, la sua casa venne occupata dalla polizia serba e si ritrovò prigioniero. Certamente la stretta di mano a Milosević avrebbe potuto oscurare la sua reputazione, come gli uomini dell’UCK volevano. Non si sapeva che Rugova era in ostaggio. Lo salvò, nell’opinione pubblica albanese, la presenza casuale a casa sua di una giornalista tedesca al momento dell’irruzione serba. Questa giornalista condivise per settimane la prigionia e poi la raccontò a "Der Spiegel", spiegando tra l’altro le circostanze dell’incontro con il presidente serbo.
Il Rugova di quei mesi appariva un uomo finito a chi non conosceva il seguito che aveva nel popolo albanese kosovaro. La sua liberazione era un contrattempo per gli americani e, in generale, per i governi della NATO che accreditavano l’UCK e temevano da Rugova proposte di pace che sarebbero state d’ostacolo alla condotta della guerra. Rugova fu accolto in Italia. Appariva un esule isolato e sconfitto, benché dal comportamento integro: Milosević lo aveva lasciato andare perché s’era reso conto di non poterlo strumentalizzare.
Rugova non fece proposte di pace. Si astenne dal condannare la guerra in corso. Pur nell’apprensione per la sorte del suo popolo profugo, era contento che i serbi venissero attaccati dalla NATO, vista come forza liberatrice. In questo la pensava esattamente come i suoi connazionali. Dopo la guerra avrà un chiarimento con Madeleine Albright, recupererà il rapporto con gli USA, diventerà manifestamente filoamericano anche nei segni esteriori del comportamento. L’antica francofilia dell’allievo di Barthes, honoris causa alla Sorbona a metà anni Novanta, che affidava i suoi libri patriottici ai tipi di Fayard, avrebbe lasciato il campo ad una marcata devozione per la potenza americana. Non lo avesse fatto, la sua popolarità ne avrebbe risentito. Ma non si trattava di opportunismo: era sinceramente riconoscente agli USA.
Del resto il "Gandhi dei Balcani", come lo si è impropriamente definito, non aveva elaborato una filosofia articolata della nonviolenza. Aveva invece sapientemente rappresentato la pacifica società parallela albanese kosovara dei primi anni Novanta. Se gli si chiedeva il motivo dell’astensione albanese dalla violenza, sorprendente per un popolo che ha sempre avuto caro il fucile, spiegava confidenzialmente che essendo il Kosovo una terra di molta pianura e poco bosco le forze armate serbe avrebbero schiacciato cruentemente qualsiasi opposizione armata. Motivi pratici obbligavano alla scelta della società parallela e sconsigliavano la ribellione aperta.
A lungo Rugova negò l’esistenza dell’UCK. Contro ogni evidenza, fino al 1998 sostenne che non c’era in Kosovo pallottola che non fosse serba. Se serbi venivano uccisi o rapiti, come avveniva dal 1996, erano provocazioni degli stessi serbi ai danni degli albanesi. Non voleva e forse non poteva ammettere. La sua grandezza non era nell’autocritica, sebbene nella conversazione tra amici, una volta fuoriusciti dai temi politici, si rivelasse un umanista ironico e amabile. Era, la sua grandezza, piuttosto nella maniera ferma – a rischio dell’incolumità visto che abitava all’interno dal Kosovo – con cui difendeva i diritti e la vita del suo popolo. E nel fatto di esserne diventato il simbolo di unità, riconosciuto sia internamente sia internazionalmente.
Guardando ai negoziati sullo status del Kosovo, che iniziano nei prossimi giorni, è difficile non restare scoraggiati dall’assenza, nella politica albanese come in quella serba, di personalità di prestigio che facciano unità e che osino confliggere con gli assiomi nazionalisti. A fronte di una trattativa che forse richiederà rinunce a entrambe le parti, nessun politico al vertice, sia albanese sia serbo, avrà il coraggio di imporre qualcosa alle rispettive opinioni pubbliche nazionaliste, per non passare da traditore o disfattista. Rugova, per l’unità che simboleggiava, rappresentava una garanzia di possibili compromessi e scelte coraggiose, come aveva dimostrato nel settembre 1996 siglando con Milosević l’accordo sulle scuole e l’università che aveva suscitato riserve tra gli intellettuali e però tra la gente comune aveva acceso grandi speranze (la parte serba avrebbe poi applicato l’accordo con stolida lentezza). Non si vede sulla scena politica belgradese – scena di una certa confusione – chi abbia il prestigio di rappresentare nella sua persona l’unità nazionale e sappia discutere seriamente dei sacrifici storici richiesti alla nazione. Si spera che gli albanesi, privi di Rugova, non precipitino nella stessa confusione e disunione politica, di cui potrebbero solo profittare gli estremismi.
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