Tipologia: Intervista

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Routes, la via della seta

25.000 chilometri, percorsi dalla Turchia alla Cina: un viaggio visuale lungo l’antica via della seta. Un’intervista ai due autori, Cesare De Giglio e Paolo Paterlini

09/10/2013, Davide Sighele -

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Come vi siete conosciuti e quale percorso professionale ha portato a ROUTES?

Ci siamo conosciuti a Firenze, nel 2001, dove studiavamo entrambi all’università. Ci siamo sempre interessati di politica e da lì abbiamo sviluppato una passione comune sull’Est Europa, i Balcani e l’Asia. Abbiamo viaggiato spesso insieme e ogni viaggio, dalla Bosnia alla Cina, passando per l’Iran, ci ha spinto sempre di più ad approfondire tematiche geopolitiche. Nel 2007-2008 ci siamo trasferiti a Londra per studiare Film Studies (Paolo) e Fotografia (Cesare). Il viaggio dello scorso anno è stata la naturale conclusione di questo percorso: documentario, politica e viaggio si sono unite in quella ‘piattaforma’ che per noi è ROUTES.

Come è nata l’idea di questo lavoro?

Inizialmente, ci interessava esplorare il Caucaso e la sua enorme varietà visiva e culturale. Il Caucaso è davvero ad un passo dall’Europa continentale, facilmente raggiungibile via terra dalla Turchia. Ci siamo chiesti che cosa avrebbe voluto dire comunicare questa vicinanza tra Europa e Caucaso visivamente, mostrando la realtà urbanistica e paesaggistica di questi paesi al di fuori della rappresentazione di classici luoghi d’interesse quali, ad esempio, le città vecchie di Baku e Tbilisi.

Istanbul ci è sembrata un luogo giusto da dove partire, uno dei tanti inizi di una delle tante Vie della Seta. Studiando le mappe, ci siamo chiesti ‘Perché fermarsi a Baku? Potremmo attraversare il Caspio’. Il discorso che ci interessava esplorare si applicava benissimo anche alle repubbliche postsovietiche dell’Asia Centrale: paesi che vengono ricordati o per un glorioso passato mercantile e culturale o per una turbolenta storia recente. No, per noi c’era qualcosa d’altro da mettere in primo piano: i luoghi inessenziali di tutti i giorni che costituiscono, più delle piazze e dei grandi centri, il vero fulcro di questi paesi dove lo spostamento, il nomadismo, l’immigrazione da un lato e la stanzialità e l’orgoglio dall’altro sono così importanti.

Ecco il perché dei capitoli di ROUTES: periferie urbane, strade, stazioni e pure cimiteri, luogo supremo di stanzialità e ‘orme’ fondamentali per capire un paese. Quando abbiamo cominciato a formulare tutto ciò, arrivare fino alla fine del percorso storico della Via della Seta, ovvero la Cina, è diventata un’ossessione per noi. Ecco perché Pechino.

Prima di partire vi siete affidati a qualche lettura particolare? Avete avuto dei “maestri” nel percorrere la via della seta?

Sì, ci siamo documentati per quasi un anno, prima di intraprendere il viaggio. In primo luogo, abbiamo passato giorni a studiare mappe cartacee e Google Maps cercando di scovare dettagli interessanti (come i vecchi cimiteri ebraici, abbandonati e sparsi un po’ ovunque nei paesi postsovietici), strade secondarie e cercando informazioni sui mezzi di trasporto (ad esempio, come attraversare il Mar Caspio da Baku verso il Kazakhstan su un cargo, visto che non ci sono navi passeggeri su quella rotta).

Al contempo, ci interessava leggere di politica e storia su ogni singolo paese attraversato, visto che una nostra comune passione è la politica. Tra gli altri, Caucasian Knot , il vostro sito, Radio Free Europe e il blog Caravanistan ci hanno dato fondamentali informazioni altrimenti difficilmente reperibili, come ad esempio durante la crisi in Gorno Badakhshan in Tajikistan, nell’estate scorsa.

Visto che ci interessava capire come la Via della Seta è stata rappresentata in passato da viaggiatori e giornalisti, ci siamo immersi in parecchie letture, alcune vicine a noi nello spirito, altre lontanissime. Kapuscinski e il suo bellissimo Imperium, Colin Thubron, Duilio Gianmaria sul Lago d’Aral, il Terzani di Buonanotte Signor Lenin, pure le scorribande di Bettinelli. Inoltre, ci sono piaciuti Dilip Hiro e la sua storia dell’Asia Centrale, Oliver Bullough e i suoi reportages dal Caucaso. Una lettura importante sugli stati non riconosciuti come Abhkazia e Nagorno Karabakh è stata Unrecognized States di Nina Caspersen. Fotograficamente, un vero maestro per noi è Rob Hornstra e il suo incredibile lavoro Sochi Project. Ci piace molto la sua idea di slow journalism. Inoltre Chloe Dewe Mathews sull’Azerbaijan e il Caspio e Ivor Prickett sull’Abhkazia ci hanno dato idee. Pure Herzog è una comune passione, con la sua idea di documentario al limite della finzione.

21.000 chilometri in movimento eppure l’anima del lavoro è quella della fissità? Perché?

Ci interessava ricreare quello che vedevamo con grande plasticità ed austerità. Secondo noi il movimento avrebbe potuto distrarre gli spettatori, portandoli a pensare più al nostro viaggio che non alla realtà che ci premeva descrivere. Le nostre persone, tutto sommato, sono inessenziali in questo lavoro. Ci siamo ‘nascosti’ dietro la camera e abbiamo ripreso con grande fissità per far entrare gli spettatori in un mondo lunare e al contempo banale, ripetitivo ma continuamente diverso, che richiede quasi contemplazione. Inoltre ci piaceva riproporre formalmente uno dei temi del nostro progetto: l’alternanza tra stanzialità e nomadismo, con noi continuamente in movimento eppure fermi a riprendere, come in un quadro. Queste lunghe riprese immobili bloccano, impongono i dettagli e, speriamo, spingono ad una riflessione.

Nell’introduzione al lavoro si parla di andare oltre un approccio esotizzante. Che idea vi siete fatti dei luoghi che avete attraversato? Totalmente altro da quello che vi sentite essere? O avete riscontrato delle familiarità?

Riguardando il lavoro, siamo tuttora convinti che l’immaginario da noi proposto aiuti ad andare oltre l’esotismo classico del Viaggio in Asia. Vorremmo che l’assenza di luoghi chiaramente riconoscibili e la presenza di temi ricorrenti ma tutto sommato ‘periferici’ spinga chiunque guardi il nostro film a domandarsi di più su certi paesi, a vedere la quotidianità dei posti remoti e non l’eccezionalità, non i mercati ricchi di spezie e le cupole riccamente decorate delle moschee ma le panchine delle stazioni e le facciate dei palazzi modestamente costruiti qualche decennio fa.

Ci siamo fatti l’idea di luoghi che soffrono molto per un’assurda politica sui confini e l’immigrazione, per l’ottusità e la corruzione dei governi ma al tempo stesso è presente ovunque una grande vitalità che nasce da una combinazione di orgoglio nazionale, linguistico, etnico e religioso. Anche in rapporto a noi, questi fattori si sono manifestati: abbiamo trovato grande vicinanza e condivisione nelle persone ma pure una cappa burocratica e di controllo nella società che non può non passare inosservata. La mancanza delle libertà individuali finisce per schiacciare molte persone che, infatti, cercano e trovano rifugio e lavoro nelle varie diaspore e comunità di migranti in giro per il mondo.

Guardando ROUTES ho ricavato l’impressione di un’umanità rinchiusa: nei grattacieli, nelle macchine e per finire nelle tombe dei cimiteri… se non alcuni solitari viandanti…

E’ una interessante riflessione anche se non è stato un aspetto deliberatamente cercato. Forse è pure un’impressione fortemente influenzata dall’aspetto formale del film e dal nostro tentativo di escludere spesso dalle riprese le persone. Contemplare oggetti, case, cimiteri, stazioni svuotate ci ha permesso di spostare la realtà in un’anticamera quasi surreale, dove paradossalmente certi aspetti sono ancora più esaltati.

Qual è stato in questo viaggio e in questo lavoro il vostro rapporto con il tempo? Avete avuto sufficiente tempo?

Siamo entrati in una dimensione dove il calendario aveva ben poca importanza per noi, almeno fino a quando non ci ricordavamo di controllare le date di scadenza dei nostri visti nel passaporto. Giorni interi di viaggio, notti in stazioni o in locande: il tempo è completamente stravolto. E mai abbastanza: più si rallenta e più viene voglia di fermarsi. Quattro mesi possono diventare facilmente sei, sette..il tempo è stato sufficiente ma avremmo voluto moltiplicarlo, in certe situazioni. La logistica e la burocrazia ci hanno imposto duramente il loro tempo. Ma torneremo, ne siamo certi.

Cosa sperate avvenga ora con/a ROUTES?

E’ un progetto del tutto indipendente e visibile gratuitamente. Ci auguriamo che un pubblico di appassionati di storia, politica, viaggio e documentario si appassioni, ne parli e ne sia stimolato e ci contatti. Condividere passioni e idee è ciò che ci ha sempre spinto. Abbiamo appena cominciato a contattare festival, dove speriamo ROUTES possa raggiungere altri approdi e suscitare nuovi dibattiti.

Avete altri progetti in cantiere?

Abbiamo un’idea in cantiere, stavolta un documentario più canonico e narrativo, ancora in fase progettuale e che riguarda la Moldavia. Un paese che abbiamo visitato e ci ha molto colpito, dove si ripresentano molte delle tematiche che abbiamo esplorato in ROUTES. La Moldavia è un paese che fa notizia spesso solo per i suoi migranti e per i suoi gravi problemi strutturali. Ci piacerebbe proporre una storia diversa, più creativa e dinamica, della società moldava.

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