Tipologia: Reportage

Area: Romania

Categoria:

Romania: aborto, missione (quasi) impossibile

In Romania, abortire è diventato sempre più difficile. Sotto la pressione della Chiesa e delle ONG pro-vita – e con la complicità dello stato – le donne stanno perdendo questo loro diritto fondamentale. Un reportage

30/06/2022, Florentin Cassonnet -

Kai racconta la sua storia seduta alla scrivania della sua piccola stanza da studentessa, alla periferia di Bucarest. Dopo essere cresciuta in Sudafrica, la 22enne è tornata in patria nel 2017 per studiare medicina veterinaria. L’estate scorsa si è ritrovata nell’appartamento di un ragazzo dopo una notte in cui, con gli amici, aveva bevuto. Lì Kai perse i sensi. Quando riprese conoscenza, era nuda sul letto del ragazzo che l’aveva invitata, in preda al dolore. "I suoi coinquilini hanno iniziato ad applaudire quando mi hanno visto. Me ne sono andata in fretta e furia”. Alcuni giorni dopo Kai si accorge di essere incinta. Un’amica le consiglia allora di rivolgersi alla polizia. Prima però va dal ragazzo che l’ha violentata e gli dice che è incinta e che ha bisogno di soldi per abortire. "Mi ha risposto: ‘Te li do se me lo succhi’. Gli ho dato uno schiaffo, sono andata a casa e ho chiamato la polizia”.

Il suo stupratore alla fine si è offerto di darle il denaro se lei avesse ritirato la denuncia. Kai ha rifiutato. Per trovare una struttura medica, la giovane donna ha digitato "abortion clinic Bucharest" su Google e ha chiamato il primo numero. La persona all’altro capo del filo le ha chiesto se questa fosse la sua prima gravidanza e il suo primo aborto. Aggiungendo: "Purtroppo non possiamo, perché l’abbiamo fatto una volta e la ragazza è morta". “Ma posso inviarle dei video per aiutarla nel percorso sulla maternità". Kai ha rifiutato e ha riattaccato, ma questo non le ha impedito di ricevere e-mail di spam con video anti-aborto.

È stato allora che ha incontrato, su raccomandazione di un amico, Andrada Cilibiu, dell’associazione Centrul Filia. Andrada le ha indicato le cliniche private e gli ospedali pubblici dove si praticava l’aborto. Ma ogni volta qualcosa si metteva in mezzo. Con il passare del tempo, Kai era sempre più preoccupata, ben sapendo che il termine legale per un aborto in Romania è di quattordici settimane. Alla terza clinica dove ha fatto una visita le hanno persino fatto un’ecografia e il medico ha girato lo schermo per farle vedere l’embrione. Poi le ha messo in mano una foto dell’ecografia. Per poi concludere: "Purtroppo non potremo farla abortire, abbiamo paura che sanguini troppo. Deve andare in ospedale”.

Alla fine Kai si è recata in un ospedale pubblico consigliato dal Centrul Filia. Ha detto al medico di essere stata violentata e di aver bisogno di abortire al più presto. Non voleva un aborto farmacologico, temendo che non funzionasse al 100% e chiede un raschiamento in anestesia. Poiché era domenica, il ginecologo le ha suggerito di tornare il giorno successivo. Lunedì le è stato detto: "Purtroppo oggi non possiamo farlo, perché è una festa religiosa in Romania". Martedì, Kai è arrivata alle 8 del mattino. A mezzogiorno, stava ancora aspettando. Alle 17.00, lo stesso. Finisce per parlare con le infermiere, che non sanno nulla, chiama allora il medico, che non risponde. Sono già passate le 20.00 quando finalmente uno specializzando le comunica che il medico ha avuto un’emergenza e non potrà operare fino al giorno successivo.

Kai passa la notte in ospedale. Durante l’operazione, nonostante una dose di anestetico, la donna prova forti dolori. "È il dolore peggiore che abbia mai provato", racconta. Ma le infermiere le dicono di smettere di muoversi e il medico non le parla… Fanno appena una pausa mentre Kai vomita per il dolore. "Era interminabile, il medico continuava a dire ‘ancora un minuto’…". Kai conta i secondi passare nella sua testa, prima di perdere conoscenza. Quando si sveglia, un’infermiera le dice che l’aborto è terminato. "Il medico ha lasciato la stanza senza parlarmi”. Kai si alza e inizia a piangere, ancora dolorante.

"È stato davvero così doloroso?", le chiede un’infermiera. "Sì, è stato orribile", risponde Kai. "Beh, forse la prossima volta farai più attenzione", le dice l’infermiera. "Sono stata violentato", risponde Kai. Le infermiere si scusano e finalmente iniziano a prestarle attenzione. Il suo aggressore intanto si era trasferito in Germania. La polizia ha detto a Kai che si trattava di "una questione personale tra loro", senza aprire alcuna indagine.

Per quanto terrificante, la storia di Kai non è l’unica. Illustra ciò che tutti i rumeni sanno intimamente: è meglio non avere bisogno di cure… E la situazione a Bucarest è migliore che nelle aree rurali.

La Romania ha circa 220 ospedali pubblici con una sezione di ginecologia dove le donne possono teoricamente abortire. In pratica, però, ogni anno sono sempre meno gli ospedali che offrono questo servizio. L’evoluzione dei numeri è brutale. Nel 2019, un’indagine di The Black Sea ha rivelato che 60 dei 190 ospedali pubblici contattati hanno dichiarato di non praticare l’aborto, quasi uno su tre. Quando è arrivata la pandemia Covid-19, la situazione è diventata "molto preoccupante", sottolinea  Andrada Cilibiu del Centrul Filia. Dei 112 ospedali pubblici contattati, solo dodici praticavano aborti nell’aprile 2020, e nessuno a Bucarest. Nel novembre 2020, il ministero della Salute ha raccolto i dati di 134 ospedali pubblici e sedici cliniche private: nel 58% di essi non era possibile abortire. Nel settembre 2021, su 128 ospedali pubblici contattati da Centrul Filia, 69 non offrivano aborti, ovvero il 54%. Nel giro di tre anni, si è quindi passati dal 32% al 54% di ospedali pubblici che non praticano aborti. Di questo passo, quale sarà la situazione nel 2025?

Nel 2013, la Romania aveva uno dei tassi di aborto più alti dell’UE (14,9 per 100 nascite). Cinque anni dopo, la percentuale era scesa a 8,6. La caduta è stata ancora più ripida dopo la prima ondata di Covid-19. Secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Sanità Pubblica, tra il 2019 e il 2020 il numero di aborti si è ridotto del 40%, passando da 26.862 a 15.595. Nei primi nove mesi del 2021 sono stati praticati 10.429 aborti, con una media quindi ancora più bassa rispetto al 2020. Tuttavia, questo calo non è il risultato di politiche pubbliche che promuovono la contraccezione o l’educazione sessuale. Al contrario, nel 2011 il governo rumeno ha smesso di finanziare i sussidi per la contraccezione, rendendo molto più difficile l’accesso al controllo delle nascite, e ha interrotto l’insegnamento del controllo delle nascite nelle scuole pubbliche.

Questo forte calo è dovuto invece al fatto che in Romania è sempre più complicato abortire. Le stesse statistiche mostrano che sempre più ospedali riportano nei loro bilanci zero aborti. Un esempio eclatante di questo sviluppo è il Polizu, il più grande ospedale materno di Bucarest, che non pratica più aborti… Sempre più ginecologi e ostetriche si avvalgono della "clausola di coscienza" per rifiutare questa operazione. Di 802 ginecologi chiamati da Centrul Filia, solo 275 hanno dichiarato di essere d’accordo a praticare aborti. "La maggior parte di coloro che si rifiutano adducono motivi religiosi e morali", riferisce Andrada Cilibiu. "Ma a volte si tratta di una direttiva dell’ospedale, il che è illegale”. Va sottolineato che i medici hanno un’assicurazione che copre eventuali negligenze, ma l’aborto non è coperto.

La tendenza non sembra invertirsi: sempre più giovani ginecologi esercitano la loro clausola di coscienza. "Le ONG pro-vita fanno pressioni anche nelle scuole di medicina", afferma Andrada Cilibiu. E gli organismo professionali sembrano allinearsi alle loro posizioni. Nel 2019, Gheorge Borcean, presidente del College of Physicians, si è congratulato pubblicamente con tutti gli operatori sanitari che si sono rifiutati di praticare aborti. "L’aborto su richiesta della paziente non è un atto medico", ha affermato. "Se qualcuno mi chiedesse quali azioni intraprenderei contro i medici che si rifiutano di praticare l’aborto, gli direi che mi congratulo con loro! Al giorno d’oggi, l’aborto su richiesta è diventato una cosa così mostruosamente banale che nessuno pensa a ciò che significa veramente, cioè la fine di una vita".

Dobbiamo forse pensare che in Romania i diritti dei medici hanno ormai la precedenza sui diritti delle donne? Resta il fatto che il legislatore non fa nulla per garantire l’accesso all’aborto a tutti coloro che lo desiderano. "Le azioni che limitano l’accesso all’aborto sono una forma di violenza contro le donne", afferma Andrada Cilibiu. "Abbiamo giovani donne che partoriscono contro la loro volontà. Lo stato ci obbliga a diventare madri senza il nostro consenso”. Secondo Andrada Cilibiu, lo stato avrebbe il potere di obbligare ogni ospedale pubblico a fornire questo servizio, pena la revoca dell’accreditamento per la ginecologia.

Andrada Cilibiu ha iniziato a lavorare per il Centrul Filia nel 2019. All’epoca l’associazione cercava volontari che chiamassero e segnalassero gli ospedali pubblici che praticano l’aborto per poter orientare meglio le donne che la contattavano. I dati ufficiali sulla questione sono scarsi, perché di fatto lo stato rumeno non li raccoglie. "Sono rimasta scandalizzata dalle risposte che mi vennero date", ricorda la giovane attivista. "Alcuni ospedali si sono giustificati citando la Bibbia, altri mi hanno detto che volevano ‘aumentare il tasso di natalità’. Questo è inaccettabile”. La cosa peggiore, aggiunge, "è che nessuno sa davvero cosa stia succedendo".

Andrada Cilibiu non ha mai abortito, ma nella sua famiglia l’aborto ha traumatizzato diverse generazioni di donne. "Mia nonna, che ha 100 anni, mi ha raccontato che sua madre è morta a causa di un aborto clandestino nel 1938. Mia madre mi ha poi raccontato che ha dovuto abortire nei primi anni 2000 e che è stato molto complicato farlo”. Nel 1957, la Romania comunista è stata uno dei primi paesi al mondo a legalizzare l’aborto. Ma a causa della stagnazione della popolazione, che andava contro i piani di sviluppo del regime, Nicolae Ceaușescu emanò nel 1966 il decreto 770. Il suo obiettivo pro-natalista funzionò alla perfezione: nel giro di un decennio, il numero di figli per donna raddoppiò, passando da 1,9 a 3,7. Ma allo stesso tempo, circa 10.000 donne persero la vita e 100.000 rimasero mutilate a causa di aborti clandestini. Per non parlare dell’altissima mortalità infantile e degli scandali sugli orfanotrofi che hanno fatto notizia a livello internazionale dopo la caduta del regime.

La prima legge approvata dopo la rivoluzione del dicembre 1989 fu proprio quella che legalizzava l’aborto. Un vero e proprio simbolo. "Negli anni ’90, i corsi di educazione sessuale e i programmi di pianificazione familiare per la contraccezione erano in piena espansione in Romania", ricorda Daniela Draghici. Questa storica attivista rumena per i diritti delle donne ha abortito "sul tavolo della cucina" durante l’era di Ceaușescu. "Fino alla metà degli anni 2000, le cose sono cambiate in meglio in Romania", continua l’attivista, riferendosi ai diritti riproduttivi delle donne. Poi però il paese ha iniziato a fare grandi passi indietro, e ora sta accelerando in tale direzione.

"Non abbiamo cifre ufficiali, ma sappiamo che le donne abortiscono in casa. Il loro numero è aumentato durante la pandemia", afferma Andrada Cilibiu, che viaggia regolarmente per la Romania tenendo seminari di sensibilizzazione ed educazione per le donne. "Quando lavoro sul campo nei villaggi, incontro donne che a volte hanno già dieci figli. Chiedo loro: ‘Vuoi averne altri?’ Rispondono: ‘Non dipende da me, ma dalla volontà di Dio e di mio marito’…". Molti uomini non permettono alle loro mogli di usare la contraccezione, né vogliono indossare il preservativo durante i rapporti sessuali. "Conosco donne che si rifiutano di dire che hanno una spirale perché la Chiesa ha detto loro che è un peccato".    

"I medici ci dicono che sono molte le donne che muoiono abortendo in casa, ma poi il loro certificato di morte riporta un’altra causa. Se vengono ricoverate in ospedale, si tratta di un aborto spontaneo andato male", aggiunge Andrada Cilibiu. "Le donne che muoiono sono le più vulnerabili e le più povere. Nel 2020, ad esempio, una donna di 45 anni è morta per emorragia a Ploiești, una città di medie dimensioni vicino a Bucarest, dopo una raschiatura mal eseguita da parte di un medico di un piccolo studio privato. Gli ospedali vicini si erano tutti rifiutati di praticare l’aborto e le cliniche private lo avevano fatto prezzi proibitivi per lei: circa 400-500 euro. "Non incoraggiamo gli aborti. (…) Incoraggiamo le nascite", dichiarò all’epoca la portavoce del ministero della Salute.

In Romania non esiste una legge che consenta alle donne di rivalersi contro gli ospedali o lo stato rumeno nel caso il loro diritto all’aborto venga violato. In ogni caso, l’argomento è tabù e la maggior parte delle donne preferisce voltare pagina il più rapidamente possibile, come sottolineano gli attivisti del Centrul Filia. Nemmeno l’UE sembra avere i mezzi per affrontare il problema. L’associazione ha inviato numerosi rapporti alla Commissione europea e al Parlamento Ue, "ma nessuna reazione". Va detto che le iniziative legislative sanitarie dell’UE non sono vincolanti per gli stati membri. Si tratta solo di indicazioni "a cui il governo rumeno risponde in modo ipocrita, senza poi intraprendere alcuna azione", si rammarica Andrada Cilibiu.

Andrada Cilibiu ha una propria lista di strutture e ginecologi che praticano l’aborto, ma non la rende pubblica per proteggerli dalle molestie delle organizzazioni pro-vita. Perché il problema non è solo medico: gli attivisti anti-aborto, spesso membri di movimenti fondamentalisti ortodossi, come l’associazione Pro-Vita, nata a Iași, nella Romania orientale, sono sempre più organizzati. Dispongono di notevoli risorse finanziarie, grazie al denaro inviato dai loro partner con sede negli Stati Uniti, in Russia e in Europa occidentale. Oltre a svolgere un’intensa attività di lobbying nei confronti di medici, autorità e partiti politici, queste organizzazioni pro-vita sono anche molto presenti nell’arena pubblica. In Romania "Centri sulla crisi delle nascite" sono stati istituiti sul modello dei "Pregnancy crisis centres" americani. Fino a poco tempo fa, quando si digitava abort (aborto in rumeno) su Google, il primo risultato era "abort.ro". Un sito di una pagina con poche frasi: "Vuoi abortire? Avete bisogno di aiuto o di informazioni? Siamo qui per voi", seguito da un numero di telefono. È stato questo numero che Ekaterina ha chiamato quando è rimasta incinta nel 2019, quando aveva 19 anni.

"Le persone che ho chiamato mi hanno fissato due appuntamenti con un ginecologo, ma per farmi cambiare idea", racconta. All’epoca Ekaterina viveva a Bucarest, studiava gestione industriale e lavorava nel call center di una multinazionale, che stava per promuoverla a team leader. "Non sono riuscita a finire l’università e la promozione è svanita quando i miei superiori hanno scoperto che ero incinta. Nel frattempo, gli attivisti di abort.ro le hanno promesso cibo per il bambino, un passeggino, vestiti… "Mi hanno fatto il lavaggio del cervello", analizza a posteriori. "Mi dissero che l’aborto era un’operazione dolorosa, che c’era un’alta probabilità di diventare sterile, che sarei rimasta traumatizzata per il resto della mia vita, che me ne sarei pentita. Mi hanno anche promesso che mi avrebbero aiutato a crescere mio figlio, che mi avrebbero mandato tutto ciò di cui avrei avuto bisogno… Dopo un po’ era troppo tardi per fare un’altra scelta…". A quel punto hanno smesso di chiamarla. "Sono scomparsi e non mi hanno mai aiutata”.

Oggi Ekaterina vive con la madre in un villaggio vicino a Suceava, nel nord della Romania. È stato il padre della bambina a volere che si trasferissero lì, perché lì vivevano i genitori di Ekaterina. Su insistenza della madre, ha finito poi anche per sposarlo. Cinque mesi dopo, ha divorziato dal marito a causa dei suoi problemi di alcolismo. Ora è una madre single e si sente la "pecora nera" della sua famiglia. "Ci si aspettava che io vivessi con un alcolizzato, questa è la mentalità qui”. Si è pentita di aver tenuto il bambino? “Non è una decisione che ho ancora accettato. Non posso dire di esserne totalmente pentita, perché sono riuscita ad adattarmi. Ma sto ancora aspettando di sentire l’istinto materno che mi guidi e mi dica cosa devo fare… Non ho ancora accettato pienamente di essere madre”.    

Secondo Eurostat, in Romania vive quasi un quarto di tutte le madri adolescenti in Europa. La colpa è di un cocktail micidiale: nessuna educazione sessuale nelle scuole, nessuna politica pubblica per la contraccezione e un accesso sempre più limitato all’aborto. "Gli attivisti pro-vita si oppongono anche all’educazione sessuale e alla contraccezione, il che dimostra che questo movimento non si preoccupa realmente della vita del feto e della riduzione del numero di aborti, poiché si oppone proprio alle misure che ridurrebbero le gravidanze indesiderate", sottolinea l’antropologo Radu Umbreș.

"In Romania l’accesso alla contraccezione è molto limitato", conferma Irina Popescu-Mateescu. L’ostetrica 38enne ha lavorato da febbraio a settembre 2021 presso il ministero della Salute, quando era diretto da Vlad Voiculescu dell’USR-Plus. "Ho cercato di resuscitare un programma che era stato interrotto diversi anni fa. Ma è stato bloccato". Vlad Voiculescu le aveva detto di averla assunta nel dipartimento di pianificazione della salute riproduttiva perché sapeva del suo attivismo a favore dei diritti delle donne. Ma Irina Popescu-Mateescu si è resa presto conto che il suo lavoro consisteva soprattutto nel prevenire gli aborti. Si è anche presto resa conto che molti reparti di maternità si rifiutavano di praticare l’aborto. "Invece, offrono un colloquio di pianificazione familiare nella cappella dell’ospedale, con un sacerdote”.

In Romania non esiste separazione tra Stato e Chiesa. "Al ministero della Salute, negli ospedali, i dipendenti pubblici sono molto religiosi, è un riflesso della società. Le loro convinzioni si riflettono nel loro lavoro”. "Per darvi un’idea, al ministero della Salute molti non dicono ‘pene’, ‘vagina’ o ‘vulva’, perché è un tabù. Preferiscono dire ‘passerina’ (păsărică) per le ragazze o ‘pisellino’ (cucu, cuculeţi, puță) per i ragazzi…". Quando Irna Popescu-Mateescu ha proposto al nuovo ministro della Sanità, Alexandru Rafila, di consentire l’aborto farmacologico tramite telemedicina, come avviene in Francia, Germania o anche in Moldavia, questo medico di formazione ha semplicemente risposto: "È peccare".

In Romania, dove la Chiesa ortodossa è molto potente, difendere il diritto all’aborto significa subire forti pressioni. Dopo sei mesi Irina Popescu-Mateescu è stata licenziata, mentre l’USR-Plus ha dovuto lasciare bruscamente il governo. "Ho provato molte cose. Avevo a disposizione un sacco di energia e di strumenti, ma nulla è servito. Sono i più forti”.

Da allora, l’ostetrica è tornata a lavorare in una clinica privata di Bucarest. "I ginecologi della mia équipe non praticano aborti. Si tratta di una scelta morale e comunque non vogliono complicarsi la vita da soli, perché si guadagnano da vivere molto bene con altre analisi e operazioni. ‘Se ne occuperanno altri’, questa è la loro mentalità.

Sono questi stessi  colleghi che le hanno chiesto di interrompere i corsi di educazione prenatale che teneva alle donne incinte dal 2008. "Preferiscono pazienti meno istruiti che seguano obbedientemente le loro istruzioni, e le ostetriche sono viste come pericolose perché sono dalla parte delle donne, non del potere medico", dice Popescu-Mateescu. "Nel sistema attuale, il medico vuole rimanere al di sopra del paziente. È lui che sa e decide, e non ci dovrebbero essere domande. I diritti dei pazienti semplicemente non esistono”.

Un dato illustra a suo avviso la regressione in atto in Romania. "La salute riproduttiva presso il ministero della Salute è ora affidata a una sola persona. Prima del 2005 erano in 18 ad occuparsene. Per un paese di 20 milioni di persone, che ha molti problemi in questo campo… è semplicemente inaccettabile. E quella persona non fa nulla, blocca tutti i progetti. Lo so perché ho provato a fare delle cose con l’OMS e con l’UNICEF, ma non si è mai arrivati a nulla”.

Oggi Irina Popescu-Mateescu pensa più che mai a lasciare il paese. "Continuerò a fare del mio meglio per cambiare le cose. Qui, spesso mi sento soffocare e non trovo nessuno a cui rivolgermi… L’istruzione è necessaria e c’è una mancanza di istruzione", dice, consapevole del circolo vizioso in cui la Romania è rimasta intrappolata. Prima di concludere: "Oggi il corpo delle donne rumene appartiene alla società, ai loro mariti, non a loro stesse”.

 

Quest’articolo è stato realizzato dai colleghi di Le Courrier des Balkans grazie al sostegno di Journalismfund.eu

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