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Questioni di welfare tra Romania e Italia: quale futuro?

Nel nostro Paese, come in altri dell’Unione europea, sono numerose le assistenti domiciliari che provengono dalla Romania. Un servizio insostituibile, che crea però vuoti di welfare nel Paese d’origine. Un approfondimento

12/03/2012, Cristina Bezzi -

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In alcuni Paesi, tra cui l’Italia, il settore dell’assistenza domestica sta richiamando un discreto flusso di lavoratori stranieri. Nel 2010, in tutta Italia erano 871mila i lavoratori domestici regolarmente iscritti all’INPS, di cui 710 mila stranieri, il 53% dei quali provenienti dall’Europa dell’est.

Per Paese di provenienza, il numero delle assistenti domiciliari provenienti dalla Romania è aumentato vertiginosamente a partire dal 2007 con l’entrata nell’Unione Europea.

Vuoti di welfare

Questa migrazione lavorativa crea però dei vuoti di welfare nel Paese d’origine dove la partenza delle donne determina delle difficoltà nelle loro famiglie che spesso devono riorganizzare i ruoli famigliari.

Questo non è però sempre sufficiente a colmare la loro assenza, in particolare quando ci sono figli piccoli o adolescenti costretti a vivere per anni lontani dalle proprie madri o ricongiungendosi a loro per poche settimane all’anno.

Secondo le stime UNICEF sono 350.000 i bambini romeni che vivono da soli in Romania a causa dell’assenza di uno o di entrambi i genitori migrati all’estero per lavoro. Gli psichiatri romeni hanno iniziato a parlare di “sindrome Italia” per indicare il “nuovo male” che colpisce i numerosi bambini costretti a vivere lontani dai genitori e i cui sintomi principali sono ansia, tendenza all’isolamento e depressione.

Nel 2007 mentre il nostro ministero del Lavoro dichiarava un risparmio di circa 6 miliardi per mancate prestazioni assistenziali, grazie alle donne straniere che svolgono assistenza domiciliare, il governo romeno lamentava che il 17% dei bambini rimasti soli a casa a causa della migrazione dei genitori faceva ricorso ai servizi del sistema assistenziale.

Queste sono “badanti”!

Qualche tempo fa, camminando in una piccola cittadina del nord Italia con un gruppo di donne romene, ero rimasta colpita dalle parole di Maricica che, un po’ disorientata dall’insolita presenza di una giovane donna italiana all’interno del loro gruppo, mi disse: “Sai qui la gente quando ci vede dice ‘queste sono badanti, badanti!!’ ”.

Le parole di Maricica, dette in modo noncurante, danno una rappresentazione realistica di come spesso queste donne vengano percepite all’interno della nostra società, quasi la loro identità fosse unicamente definita attraverso il ruolo che ricoprono, quasi si trattasse di un nuovo gruppo sociale dalle caratteristiche ben definite e riconoscibili.

Nella società di accoglienza esiste generalmente troppa poca consapevolezza dei contesti di provenienza di queste donne a cui si richiede spesso un notevole investimento emotivo nel lavoro con l’anziano senza considerare invece la loro difficoltà a gestire a distanza il rapporto con la loro famiglia e i loro figli.

Queste pioniere della migrazione si ritrovano a volte a portare un carico troppo pesante che dopo anni di lavoro può condurle ad uno stato depressivo e di disorientamento; sono diversi i casi di donne che una volta rientrate a casa hanno bisogno di un sostegno psicologico.

Dalla Romania

La Moldavia romena, una zona rurale situata nel nord-est del Paese, è una delle regioni più povere e quindi maggiormente interessate al fenomeno migratorio. Qui i problemi sociali sembrano essere amplificati anche a causa di una forte destrutturazione famigliare che trae origine già dalle politiche di migrazione forzata imposte durante il socialismo. Negli anni 70-80 molti romeni provenienti in particolare da quest’area furono costretti ad un’ urbanizzazione di massa, che poco teneva conto dei legami famigliari. Quando negli anni ’90 sono state chiuse buona parte delle industrie di stato, molti romeni della Moldavia romena, già abituati alla migrazione, hanno fatto ritorno alla campagna o hanno iniziato a partire per l’estero.

Marzia Tiberti, è coordinatrice del centro diurno Don Bosco nel paesino di Burineisti per la Caritas Iaşi. principale città della Moldavia romena. Il centro ospita bambini dai cinque agli otto anni che hanno situazioni famigliari problematiche. Spesso le loro madri sono partite per l’Italia e la Spagna dove lavorano come “badanti”. Nel paese sono soprattutto i nonni ad occuparsi dei nipoti anche quando i padri sono a casa. L’alcool e la violenza sulle donne sono qui una vera e propria piaga sociale, come mi spiega Marzia: "Le donne qui partono anche a causa dei problemi con i mariti. La migrazione ha portato anche la distruzione di molte famiglie, la percentuale dei divorzi qui è molto alta".

Ogni storia famigliare è diversa e non sarebbe corretto generalizzare: ci sono famiglie che riescono a riorganizzarsi in modo efficiente e a garantire attraverso le rimesse provenienti dall’estero un futuro ed un’ educazione ai figli altrimenti impossibile; ci sono famiglie che non reggono la distanza e si dividono; ci sono madri che riescono almeno a comunicare a distanza con i figli e a spedire ogni mese buona parte dello stipendio, altre che invece una volta all’estero tagliano i rapporti con famiglia e figli e lasciano questi ultimi a carico di un nonno o dell’altro genitore senza preoccuparsi di loro. Nei casi meno fortunati i bambini sono lasciati a se stessi, sorvegliati sporadicamente da un vicino di casa o da un fratello maggiore.

Tutte queste famiglie hanno però un comune denominatore: l’inevitabilità della migrazione e la necessità delle rimesse provenienti dall’estero per la pianificazione dell’economia famigliare.

Come mi fa notare Marzia, ci sono alcune donne che riescono a lavorare all’estero solo alcuni mesi all’anno e il resto del tempo tornano a casa per stare con la loro famiglia; guadagnano meno ma abbastanza per sopravvivere. Momentaneamente sono quasi unicamente le donne che lavorano in nero a turnare più facilmente perché per ora la legge italiana permette questo tipo di circolarità solo ai lavoratori stagionali.

Verso un benessere transnazionale

Esiste una forte interdipendenza tra i nostri sistemi di welfare e quelli dei Paesi di origine delle “badanti” e quindi una conseguente necessità di pensare a politiche transnazionali che tengano conto di questi squilibri.

Il numero sempre in crescendo di donne straniere presenti in Italia nel settore dell’assistenza domiciliare, evidenzia la non sostenibilità di un welfare che da una parte delega alle famiglie italiane parte dei suoi compiti e dall’altra ha delle ripercussioni molto negative sulle famiglie di queste donne.

Solo uno sguardo che superi i confini nazionali dei sistemi di welfare e che sappia tener conto del qui e del lì, sembra essere una prospettiva realistica davanti ad un mondo sempre più interconnesso che va verso un ulteriore invecchiamento della popolazione.

E’ evidente che contro l’invecchiamento della popolazione europea, la crisi economica, la migrazione di massa dalla Romania e i bambini soli a casa non c’è una soluzione unica ma è necessario piuttosto pensare a strategie d”intervento multiple e polifoniche. Favorire per esempio la circolarità delle donne che lavorano all’estero potrebbe rappresentare un passo importante nella direzione di un welfare che non guardi più unicamente al benessere dei singoli Paesi ma a quello di una comunità sempre più transnazionale.

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