Tipologia: Intervista

Area: Kosovo,Serbia

Categoria:

Pristina: vita da Serbi

Dopo le violenze del 17 marzo scorso, i soli Serbi rimasti a vivere a Pristina sono una comunità di poche decine di persone. Abitano quasi tutti nello "Ju program", un palazzo a pochi minuti dal centro città, conosciuto anche come "the cage", la gabbia. Biserka I., serba di Croazia, a Pristina dal 1995, vive qui. Ci racconta come

08/10/2004, Andrea Oskari Rossini - Pristina

Pristina-vita-da-Serbi

Prima della guerra del 1999, a Pristina vivevano circa 40.000 Serbi. Dopo?

Secondo l’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ndr), dopo il 1999 siamo rimasti in circa 300. La maggioranza era ovviamente qui, allo "Ju program", il palazzo dove vivo anch’io. Gli altri erano nel Palazzo dell’Università e in alcune case private.

Cos’è lo "Ju program"?

Un edificio costruito negli anni ’90 per i Serbi che erano sfollati dal Kosovo dopo le rivolte albanesi degli anni precedenti, per le giovani coppie e per i rifugiati provenienti da altre zone della ex Jugoslavia. Praticamente erano palazzi abitati unicamente da Serbi. Ce ne sono diversi. Oltre a quello di Pristina ci sono quelli di Kosovo Polje e di Lipljan. Qui a Pristina i primi residenti sono entrati nel 1997. Siamo in centro, questa zona si chiama Ulpiana, dal nome dell’antico insediamento romano. Come vedi ci sono 4 entrate. La prima e l’ultima erano riservate a chi lavorava all’Università di Pristina e alle famiglie di quadri e soldati della Vojska Jugoslavije, l’esercito jugoslavo. Durante la guerra, da marzo a giugno del ’99, anzi fino a luglio, si facevano i turni per difendere l’edificio. Poi è arrivata la Kfor (Kosovo Force, forza multinazionale a guida Nato, ndr), che è rimasta con un proprio presidio permanente fino al 2002.

Poi?

Quell’estate hanno fatto una specie di sondaggio. Hanno invitato tutta la nostra comunità ad una riunione e ci hanno spiegato che, sulla base dei colloqui avuti con le famiglie albanesi che abitano nei palazzi intorno, e del fatto che da ormai un anno non si registravano episodi significativi di violenza nei nostri confronti, se ne sarebbero andati. Hanno detto che volevano lasciare alle diverse comunità la possibilità di incontrarsi e di interagire… Insomma, hanno detto che se ne sarebbero andati. Posso dirti che la mattina dopo, quando abbiamo visto che non c’era più il presidio della Kfor, eravamo terrorizzati. La gente era talmente abituata ad avere qui davanti i soldati, che pensavano che qualcuno avrebbe immediatamente attaccato. Ma questo non è successo, e non è successo fino al 17 marzo di quest’anno.

Cos’è successo il 17 marzo?

Hanno attaccato, in centinaia. In questa scala si sono rifugiati tutti nel mio appartamento, perché lavoro per una organizzazione internazionale e ho una porta blindata, con una inferriata davanti. Eravamo più di trenta chiusi qui dentro, al quinto piano, mentre gli appartamenti ai piani inferiori stavano già bruciando. La Kfor è arrivata solo dopo sei ore. Ci hanno detto che avevamo due minuti per evacuare il palazzo e ci siamo buttati nei blindati uscendo in mezzo al fumo.

Sembra che il trauma per il 17 marzo sia stato molto maggiore rispetto al ’99…

Sì, perché è giunto inaspettato. La gente pensava ormai che questo fosse il proprio territorio, nel quale vivere una vita normale, cercare di avere un lavoro, socializzare. Cioè questa piccola porzione di territorio davanti al palazzo e poi Gracanica, la enclave serba a pochi chilometri da qui, cui faceva riferimento anche la comunità serba di Pristina per tutte le cose quotidiane, le spese, la scuola… I Serbi che vivono nello "Ju" hanno legami più forti con Gracanica che con la amministrazione di Pristina. E’ molto più facile parlare nella tua lingua, poi la amministrazione di Pristina non è ancora aperta alle comunità minoritarie.

In che senso?

Ad esempio abbiamo cercato di incontrare il presidente della Municipalità di Pristina dopo il 17 marzo, per cercare di ottenere la ricostruzione del nostro centro comunitario, qui a pianterreno, ma lui non si è mai fatto trovare. Il mese scorso poi ho chiesto di incontrare Bedjet Braishori, incaricato dal Primo Ministro Rexhepi di guidare la commissione creata per la ricostruzione dei danni del 17 marzo, per chiedergli di investire nel nostro centro comunitario, devastato in quei giorni. Questo centro ha diversi significati per noi. Alle prossime elezioni, sarebbe il seggio. Braishori mi ha detto di essere perfettamente consapevole della necessità di restaurarlo, ma che le priorità della Commissione che lui dirige sono quelle di ricostruire le case e destinare il denaro alla riparazione degli edifici religiosi. Qui allo "Ju program" però c’era una vita di comunità. Avevamo un info centre, un centro sanitario, un negozietto, tutti finanziati dall’Unione Europea dopo il 1999. L’idea era quella di consolidare la comunità in una fase iniziale, e poi di aprirsi all’esterno e alle altre comunità.

Che lavori sono stati fatti dopo il 17 marzo?

Il governo kosovaro ha finanziato la ristrutturazione del palazzo. E’ stato un processo lungo, ma alla fine adesso il grosso è stato fatto.

Per quanto riguarda i furti avvenuti durante il saccheggio?

Nessuno ha riavuto nulla. Qui vivevano anche molti internazionali, che avevano materiali costosi, apparecchiature elettroniche, ma non hanno riavuto nulla.

Come mai molti internazionali erano venuti a vivere qui?

Questo è un palazzo relativamente nuovo, gli appartamenti erano bene ammobiliati, gli affitti ragionevoli (tra i 300 e i 450 € al mese), si può raggiungere a piedi il centro città…

Sono ritornati dopo il 17 marzo?

Alcuni, ma la stragrande maggioranza no. Le Nazioni Unite, gli addetti alla sicurezza, gli hanno consigliato di non ritornare allo "Ju".

Non capisco, da un lato dicono ai Serbi di rientrare ma agli internazionali dicono che è troppo pericoloso…

Nessuno ha detto ai Serbi di rientrare. Per quanto riguarda me, ad esempio, mi hanno detto che ero pazza a rientrare. Il consiglio per tutti era di non rientrare allo "Ju". Mi hanno detto che questo è un palazzo segnato come palazzo serbo, e che se in futuro dovesse accadere qualcosa, sarebbe nuovamente attaccato. Io ho risposto che quanto è avvenuto il 17 marzo avrebbe potuto essere tranquillamente evitato con una organizzazione migliore da parte della polizia e della Kfor. Ci sono solamente 4 entrate da difendere, ma nessuno l’ha fatto. Il 17 marzo è stato una grossa farsa. Gli Albanesi attaccavano e gli Albanesi della Kps (Kosovo Protection Service, ndr), la polizia, avrebbero dovuto difenderci…

Quali sono state le conseguenze del 17 marzo?

E’ stato un enorme errore, che non è stato organizzato dagli Albanesi del Kosovo, ma che loro hanno eseguito. Cosa hanno ottenuto? Niente. E’ stato un autogol. Dov’è il Kosovo oggi nell’agenda internazionale? In fondo. Al primo posto ci sono la guerra al terrorismo, le elezioni negli Stati Uniti, l’Iraq, i bambini uccisi nella scuola di Beslan… Il Kosovo è scomparso dalla attenzione internazionale. Mentre il tentativo, con il 17 marzo, era quello di portare il Kosovo al centro dell’attenzione, con la violenza. C’è una enorme frustrazione nella società kosovaro albanese. Tutti pensano che con la indipendenza i problemi saranno risolti, che si sveglieranno domattina in un Kosovo indipendente e tutto sarà come in Svizzera. Oggi invece si trovano nuovamente tutti nel fango: la comunità internazionale, gli Albanesi del Kosovo, i politici serbi del Kosovo, il governo di Belgrado… E’ una patata bollente, e nessuno è soddisfatto della situazione.

In quanti siete tornati allo "Ju program", dopo il 17 marzo?

Prima del 17 qui eravamo in 176, oggi siamo una cinquantina. Allo University Block invece sono rimasti in 12.

Tra i Serbi che sono rimasti qui, a Pristina, quante sono le persone che non lavorano per la comunità internazionale, quelli che vivono qui con la loro famiglia in una situazione "normale"?

Molto pochi. Io sono sola, vivo e lavoro qui. Ci sono molti che vivono qui da soli, e che hanno la famiglia sfollata in Serbia. Così durante la settimana vivono qui, e il week end si spostano a Nis, o a Belgrado, per stare con la famiglia.

Come vivete?

Oggi i Serbi che vivono qui allo "Ju" vanno solamente fino al negozio sull’angolo per fare la spesa. Venti metri. Oppure salgono sull’autobus che li accompagna direttamente a Gracanica. Restare nel palazzo, in queste condizioni di insicurezza, aiuta a mappare il territorio nel quale possiamo camminare: questo è il nostro palazzo e questo è il nostro autobus per Gracanica. A Gracanica c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, è la comunità cui apparteniamo. Il problema del Kosovo è che ognuno si raduna nel proprio gregge. Se sono Albanese penso come un Albanese, se sono un Serbo devo pensare come i Serbi, che i Serbi possono vivere solo in enclave, che i Serbi non hanno libertà di movimento. Mi spiace, io non ci sto.

In che senso?

Se hai un attacco di cuore, cosa fai? A una donna del nostro palazzo è successo. L’abbiamo dovuta portare all’ospedale di Pristina, perché era il più vicino. Lì l’hanno curata, le hanno fatto un trattamento di urgenza. Poi le hanno detto che doveva restare per essere ricoverata, ma lei per paura ha voluto andare in un ospedale serbo, e così se ne è andata. Non ti uccideranno, non tutte le persone sono idiote, questa è la mia filosofia. Non tutti gli Albanesi ti uccideranno perché sei Serbo. Anche se basta un idiota, e per te è finita. Ma bisogna educare la maggioranza così che le minoranze possano vivere.

Quindi tu ti comporti in modo diverso dalle altre persone?

Sì, io anche prima camminavo liberamente per la città. Gli altri pensano che quello che faccio io sia fantascienza. Ma io rifiuto di pensare me stessa rinchiusa in questo cubo. Sono sempre uscita per strada, e continuerò a farlo. Non credo che la libertà di movimento mi verrà data per decreto. Non sarete voi a venire dall’Italia, prendermi per mano e dirmi: "Biserka, da oggi sei libera di camminare." Ogni giorno esco di qui, cammino fino al mio ufficio e torno indietro a piedi. Sono sicura che tutto il quartiere sa che sono una Serba. Se qualcuno volesse attaccarmi, probabilmente mi potrebbe uccidere. Ma non voglio accettare il fatto di vivere e lavorare qui come una vittima. Questa è la mia filosofia di vita, non voglio isolarmi, voglio socializzare per quanto possibile, andare a pagare le bollette, andare al mercato se voglio o andare all’Ospedale se devo vedere un dottore. Purtroppo, per la maggior parte dei Serbi che vivono qui, fare queste cose è solo fantascienza. Questa comunità vive isolata, isolata dal mondo esterno. La propria lingua non viene riconosciuta, e i Serbi non parlano l’albanese…

Tu lo parli?

No, però entro in un posto e dico "Mir dita" (Buongiorno, ndr), poi "Scusate, io non parlo albanese, parlate il serbo?" E poi mi rispondono di sì, oppure no, aspetti un attimo, e chiamano qualcun altro e questo è come risolviamo la cosa. Ma posso dire che sono una eccezione. Dopo il 1999 la situazione si è capovolta, di tutti i Serbi che vivevano qui oggi si parla solo di 100, 120 persone che sono rimaste.

Cosa pensi della comunità internazionale in Kosovo?

La amministrazione ad interim internazionale dovrebbe trasferire le proprie competenze senza scossoni, in modo che il Kosovo si possa amministrare da sé, senza che ci sia questo enorme investimento di risorse. D’altro canto la comunità internazionale vuole amministrare fino a quando non sia possibile una amministrazione locale. Il problema è che la amministrazione Unmik non è soddisfatta del grado di responsabilizzazione e affidabilità della gente locale. Non si tratta solamente della carenza di professionalità. Anche se sei un kosovaro albanese, e vai in Comune, hai dei problemi. È una situazione caotica, devi attendere a lungo, l’amministrazione è lenta, se vuoi costruire qualcosa la via più veloce per ottenere un permesso è la corruzione…

Qual è la via d’uscita?

La comunità internazionale non può governare al posto della gente che qui vive. Ma è inutile sostenere che qui non funziona niente perché i Kosovaro Albanesi non hanno l’indipendenza. Si puo’ dare l’indipendenza anche domani, poi però vorrei sapere cosa succederà per quanto riguarda il trafficking di esseri umani, la disoccupazione, l’approvvigionamento di acqua e luce… Si vedrà che questi problemi sono molto più grossi di quello dello status, è il sistema che è marcio. C’è una sorta di omertà legata al riciclaggio dei soldi, al mungere la comunità internazionale, alla corruzione. La gente normale ormai va a cercare i rifiuti nei cassonetti perché ha un salario medio di 200 €, molto lontano da quello che ti potrebbe servire per vivere una vita decente. Fanno la fila per il visto per andare a lavorare in Austria o Germania, perché capiscono che qui la situazione non migliorerà nei prossimi dieci o vent’anni. Per quanto riguarda i Serbi del Kosovo poi, ci sono gli stessi problemi più l’isolamento e la esclusione dal governo locale.

Voterai alle prossime elezioni, il 23 ottobre?

Certamente. E’ un mio diritto come cittadina e lo voglio esercitare.

Anche se i Serbi non presentassero nessun partito?

Si è presentata una lista civica.

E Povratak (la coalizione dei Serbi del Kosovo presentatasi alle elezioni del 2001, ndr)?

Probabilmente decideranno una settimana prima delle elezioni. L’ultima volta hanno fatto lo stesso. Poi però hanno passato più tempo fuori dall’Assemblea del Kosovo che al suo interno.

Cosa pensi dell’atteggiamento del governo serbo nei confronti del problema del Kosovo?

Il governo serbo può essere un alleato, ma chi ha interesse nel futuro del Kosovo dovrebbe essere qui, non a Belgrado. La lotta politica è difficile, ma devi lottare. Dicono che non dovremmo partecipare alle elezioni. La mia sensazione è che ci sia qualcosa da negoziare prima che venga espressa una decisione finale. Questo qualcosa si chiama decentralizzazione, una manovra che permetta ai Serbi di avere più potere nelle aree nelle quali sono maggioranza.

Il piano presentato da Belgrado?

Sì.

E lo status?

Non mi interessa se il Kosovo lo chiamano banana o kiwi. Io voglio che i miei diritti di cittadina siano rispettati, voglio avere un lavoro, acqua e luce per 24 ore al giorno, un sistema sanitario che funzioni. Il Kosovo sarà nell’Unione Europea, e io dovrò competere in questo nuovo mercato del lavoro perché ho delle capacità, non perché sono una Serba del Kosovo.

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