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Percorsi di economia locale nei Balcani: l’introduzione al seminario

Il lavoro che vorremmo fare assieme è di confronto e messa in rete di quanto sperimentato da ognuno in questi anni, per arrivare speriamo da qui ad alcuni mesi all’elaborazione di un decalogo di indicazioni metodologiche e ad un repertorio di buone pratic

02/05/2002, Redazione -

Presentiamo qui la traccia di discussione alla base del seminario di lavoro del 3 maggio 2002 "Percorsi di economia locale nei Balcani. L’impatto degli aiuti, la valorizzazione delle risorse locali". Eventuali commenti o testi di risposta in merito possono essere inviati alla Segreteria dell’Osservatorio sui Balcani.
L’incontro di oggi è organizzato assieme dal Consorzio Pluriverso e dall’Osservatorio sui Balcani come momento di confronto e stimolo a più voci tra operatori della cooperazione e della solidarietà internazionale con il sud est Europa. Non vuole pertanto portare tesi già pre-costituite, ma aprire un confronto e provare a ricavare alcune sintesi operative sui modelli e i percorsi di sostegno all’autosviluppo nei Balcani. Perché di aiuti e di investimenti esterni sono pieni i paesi di quell’area, ma troppo scarsi sono i reali processi di sviluppo locale e di democratizzazione dal basso innescati, segno dell’invasività e della scarsa sostenibilità ma anche dell’insufficiente elaborazione progettuale tanto del mondo governativo quanto – ed è doloroso affermarlo – di quello non governativo impegnato sul campo. Questo incontro si svolge nell’ambito del World Social Agenda, l’evento che dentro Civitas segue la riflessione apertasi a Porto Alegre sui movimenti territoriali che si cimentano nel tentativo di abitare in maniera intelligente la globalizzazione. Ed è importante collegare le idee e gli strumenti di sviluppo locale e di autogoverno emersi in quella sede – come i bilanci partecipativi – con le riflessioni sull’azione nei Balcani come anche nei nostri stessi territori.
Nella consapevolezza che la tradizionale divisione geopolitica – sud e nord, est e ovest – tende ad essere progressivamente superata dai processi di mondializzazione in atto, se non nelle condizioni di vita delle persone almeno nel senso che il carattere a-geografico dei movimenti economico finanziari opera a tutto campo. Esso cioè ingloba nella modernità le centrali virtuali del potere finanziario come i luoghi deregolati dove si materializzano i grandi affari.

1. Il quadro di riferimento: i Balcani come luogo della post-modernità
I Balcani sono spesso, ancora oggi, associati ad immagini di guerra. Di una guerra che affonda le proprie radici nel passato e dunque avvertita come qualcosa di arcaico, anziché come forma contemporanea e moderna di accumulazione e di riorganizzazione dei poteri, nel cui quadro si esplicano processi avanzati di globalizzazione. Si pensa che la criminalità economica sia qualcosa di residuale, che le mafie siano un fatto di costume e non invece le forme specifiche assunte in quell’area (ma a guardar bene in tutte le aree deregolate del pianeta) dall’economia finanziarizzata. O, ancora, che il miracolo economico del nord est italiano non abbia nulla a che vedere con la specifica deregolazione nell’est europeo, o che le 7.203 aziende venete presenti in Romania siano semplicemente una forma diffusa di cooperazione economica.
Tutto ciò invece rappresenta la forma iper-moderna di un sistema economico dove, alle conseguenze decennali ereditate dal vecchio modello di sviluppo burocratico-statalista elefantiaco, autoritario ed insostenibile, si è aggiunto lo svuotamento e la paralisi fiscale delle istituzioni statali e locali. In più questo sistema subisce oggi la pervasività di una ricostruzione economica e sociale fortemente condizionata dagli aiuti, che rischiano di creare situazioni di dipendenza strutturale anziché favorire un percorso endogeno, partecipato e sostenibile di rinascita economica e sociale. La disintegrazione politico-istituzionale avvenuta negli anni ’90 ha squarciato il velo di un sistema politico ed economico di tipo mafioso, che ha lasciato mano libera alle forme più perverse della criminalità economico-finanziaria. Questa ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, così come nel traffico d’armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga o dei rifiuti.
Gli indicatori tradizionali quali il PIL o il reddito pro capite – ce lo diciamo già da tempo – non riescono a descrivere la situazione reale di paesi dove l’economia informale, illegale e criminale sfuggono ad ogni parametro descrittivo tradizionale. Qui – come in altre aree a torto ritenute marginali nel pianeta – lo sviluppo e il mercato si manifestano proprio con i tratti della guerra, dei traffici criminali, della ricostruzione post-bellica distorta e della stessa cooperazione. E’ il binomio arretratezza – modernità che va profondamente ripensato, anche alla luce della descrizione di quei santuari dell’economia finanziarizzata di cui molto si parla oggi. E dunque ecco perché i Balcani rappresentano un paradigma della modernità.
2. Gli attori: la cooperazione nei Balcani tra logica emergenziale e sperimentazioni innovative
I dieci anni passati hanno visto una fortissima mobilitazione di persone e di risorse della società civile italiana nei confronti del sud est Europa. Mancano chiaramente dati completi, ma non pensiamo di sbagliare se contiamo in decine di migliaia i volontari che hanno abitato i conflitti balcanici direttamente sul campo, e in centinaia le iniziative, i gemellaggi, i progetti avviati da comitati, associazioni, ONG, enti locali, sindacati, parrocchie e istituzioni diverse. I flussi in denaro di questo ampio insieme di interventi possono essere stimati sull’ordine delle centinaia di miliardi di vecchie lire, ma se si valorizzassero tutte le prestazioni volontarie raggiungerebbero probabilmente anche le migliaia.
E però… Riflettere su questa straordinaria esperienza di solidarietà non può impedirci di vederne i limiti e le pecche anche gravi. La pratica di un’azione di emergenza vista come prolungamento "civile" delle operazioni militari, di un intervento solidale ma improvvisato e privo talvolta delle minime basi di conoscenza del contesto e delle culture locali, di una cooperazione calata dall’alto e incapace di proporsi in forme sostenibili, hanno spesso stravolto e corrotto lo straordinario potenziale attivatosi in risposta alle tragedie balcaniche.
Tutto ciò non è stato privo di conseguenze, come abbiamo cercato di mostrare anche nella giornata di studio tenutasi nel novembre scorso a Trento. In particolare, per quanto riguarda i temi affrontati qui oggi, la distorsione principale è quella legata alle prospettive future degli interventi di cooperazione: invasivo e insostenibile suonano forse come condanne troppo forti per l’insieme dell’intervento umanitario nei Balcani, eppure sono critiche che dobbiamo fare e anche saperci fare.
Quante volte si è operato senza un’adeguata conoscenza dei contesti locali e delle reali dinamiche del conflitto? Quante volte abbiamo riprodotto schemi di cooperazione buone (?) per tutte le stagioni e i continenti? Quante volte i partner locali sono stati ridotti a semplici comparse acquiescenti, disposte a tutto pur di intercettare finanziamenti dall’estero? E quante invece sono state le soggettività reali aiutate a formarsi e a crescere, che siano durate oltre il tempo di finanziamento dei progetti? Economicamente, quante iniziative avviate hanno poi trovato una propria auto-sostenibilità all’interno delle comunità? Qual è l’idea di sviluppo e di società che accompagna i progetti di cooperazione nei Balcani? Ha qualche differenza con i modelli della privatizzazione selvaggia e dello smantellamento dello stato sociale, accompagnati dall’aiuto caritatevole "per chi non ce la fa"?
Questi sono interrogativi forti, che dovrebbero aiutarci a rileggere in controluce gli interventi fin qui praticati. Dovremmo cominciare ad esempio a pensare che ogni società ha in sé le risorse, umane e materiali, ambientali e culturali, dalle quali ripartire per disegnare il proprio futuro. E a questo punto, chiederci anche a che servono gli aiuti internazionali, se non innescano progettualità e auto-promozione dal basso.
Nel tempo della miseria della politica è difficile pensare che il mondo della cooperazione possa fare eccezione, tant’è che la progettualità non è più il punto di partenza ma viene sostituita dalla rincorsa ai finanziamenti, ai programmi affidati dalle agenzie internazionali o dai governi nazionali. E le stesse organizzazioni non governative rischiano di cambiare la loro natura, trasformandosi progressivamente in strumenti operativi della cooperazione governativa o intergovernativa. Se in generale non sono in grado di esprimere progettualità nelle nostre comunità, qui in Italia, perché mai dovrebbero essere in grado di farlo altrove?
3. Le linee guida per un’altra cooperazione possibile
Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione incardinato a nostro giudizio su due concetti di fondo: l’opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, l’autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale.
Solo a partire da questi due concetti è possibile pensare un intervento esterno che crei relazioni fra comunità, realizzando il senso vero e il carattere dirompente e profondamente innovativo della cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale. Non può essere infatti la classica cooperazione allo sviluppo fatta con altri mezzi, ma un modo alternativo di fare cooperazione capace di esprimere la più ampia fantasia sociale. Una fantasia che viene dall’incontro fra la ricchezza dei popoli, le loro culture e tradizioni, i loro territori intesi come insieme storico, culturale e politico oltreché ambientale. Dunque l’aiuto, la solidarietà, il dono devono essere intesi in primo luogo come sostegno alla valorizzazione delle risorse locali – di quelle umane in primo luogo – e alla ricostruzione delle capacità andate perdute dentro la degenerazione violenta dei conflitti.
Il futuro economico del sud est Europa non può essere garantito né dalle chimere degli investimenti occidentali di rapina, né tantomeno dal perdurare dell’assistenzialismo umanitario. Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze – che non mancano, data l’alta scolarità diffusa e per molti l’esperienza formativa all’estero – unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall’altro sul settore primario, dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell’artigianato e dell’industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.
Già oggi vediamo come porsi nell’ottica della mera produzione intensiva e a basso costo sia perdente per i Balcani, che subiscono la concorrenza di altre aree ancora più deregolate e addirittura si trovano ad importare prodotti agricoli dall’estero a danno dei contadini della Slavonia o della Vojvodina. L’approccio dello sviluppo locale di qualità ha invece come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani è l’autogoverno delle comunità: la crisi fiscale di cui abbiamo parlato impone di ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio. C’è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un’ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
4. Conclusione: alcune ipotesi di strumenti per percorsi concreti di autosviluppo locale
Se tutto quanto detto sopra è valido, appare chiaro come si debba porre grande attenzione alla questione dello sviluppo locale nell’affrontare programmi di solidarietà e di cooperazione con il sud est Europa. Il modello economico-sociale precedente e le macerie delle guerre, infatti, hanno colpito gravemente proprio il tessuto della socialità di base. Qualsiasi intervento realizzato dall’esterno, dunque, dovrebbe porsi il problema prioritario di innescare processi di responsabilizzazione individuale e collettiva, di associazionismo diffuso, di mutualità reciproca, di presa in carico dei propri diritti e doveri in nome del bene comune.
In altre parole, entrando nella concretezza dell’agire, queste riflessioni chiedono di pensare a quali modelli – concretamente – siamo in grado di "spenderci", quali processi i nostri strumenti professionali possono innescare e quali, di questi, sono realmente sostenibili. Non solo rispetto a parametri endogeni di tipo sociale, economico e ambientale, comunque fondamentali e linee guida del nostro agire, ma anche rispetto alle variabili esogene proprie di un modello di sviluppo che un territorio, una comunità locale, è in grado di perseguire. E quindi consapevolmente quali vincoli, culturali, sociali, politici ed economici ci troviamo di fronte, quale ne è la consapevolezza, quale il sistema di opportunità e le volontà in campo. Questa contestuale attenzione alle variabili intra e intercomunità chiede una capacità progettuale ulteriore, orientata e finalizzata ad agire non sui tempi brevi-medi o tempi "finanziari" tipici dei progetti di cooperazione.
Occorre invece la capacità di costruire processi di collaborazione realmente compromissori, dove la "compromissione" risiede nella costruzione partecipata tra tutti gli attori della comunità di strategie e modelli di azione, nel trovarne una sostenibilità innanzitutto culturale e politica e, solo a partire da questa, un equilibrio di risorse, siano esse finanziarie o professionali. Purtroppo tanta cooperazione attribuisce, o è costretta ad attribuire, un ordine contrario alle priorità quindi tanti buoni strumenti di lavoro vedono il loro effetto vanificarsi quando si esauriscono le risorse professionali o finanziarie
Il seminario odierno proprio su questo vuole soffermarsi: quali strumenti e quali progettualità nel concreto possono risultare utili a questo scopo? Proviamo ad indicarne alcuni, ma solo per macro- aree e a mo’ di stimolo per porre alcune riflessioni:
Sviluppo di un sistema economico locale:
– Sostegno al ruolo degli enti locali nella loro funzione di programmazione di azioni di sviluppo economico (ad esempio disegno degli insediamenti produttivi, meccanismi di fiscalità locale, infrasrutturazione del territorio) – Sostegno e promozione di azioni di concertazione territoriale
– Capacità di selezione dei settori produttivi su cui promuovere la nascita di piccole o medie imprese, favorendo processi di sostegno all’economia locale tradizionale, ovvero valorizzazione della qualità e dell’unicità delle produzioni realizzate nel rispetto delle culture locali – Riduzione dei processi di conto terzismo o delocalizzazione spinta, evitando lo sfruttamento delle risorse locali siano esse umane o ambientali
– Promozione del microcredito e del sistema della finanza locale come sostegno all’economia e insieme educazione alla responsabilità
Per dar corpo ad un intervento strutturato sul sistema economico locale sono necessari azioni complementari di cooperazione decentrata, finalizzate al rafforzamento della funzione delle municipalità come servizio ai territori, andando oltre al semplice e spesso riduttivo decentramento dei poteri; e attenti alla formazione di amministratori e funzionari municipali. E a seguito di azioni di questo tipo la cooperazione decentrata è in grado di attivare organizzazioni e soggetti del proprio territorio che possono portare risorse e protagonismi aggiuntivi ai processi di sviluppo economico locale. D’altro lato vi sono gli strumenti propri della cooperazione che, attraverso la presenza permanente sul territorio, è in grado di stimolare:
– l’individuazione e valorizzazione dei soggetti locali; – il potenziamento del lavoro di rete sul territorio funzionale a patti fra potenziali attori locali interessati al bene comunitario;
– la formazione di operatori del territorio – la diffusione di forme ampie di partecipazione che rafforzino il senso comunitario, anche attraverso l’uso di bilanci partecipativi..
Analogamente se pensiamo allo sviluppo del sistema di welfare territoriale lo dobbiamo fare ponendolo come conditio sine qua non di ogni processo economico. Se non c’è prima una progettazione e un’azione sui processi di welfare territoriale, se non si pone attenzione a come sostenere azioni di inclusione e tutela delle fasce vulnerabili, ogni attività di tipo economico rischia di essere pretestuosa e portatrice di ulteriori malesseri e costi sociali. E la definizione e costruzione di azioni di welfare deve essere il terreno di incontro e confronto obbligatorio tra ong locali ed enti locali, una scuola di corresponsabilità e coprogettazione e non un luogo di rivendicazione e scontro. Purtroppo nei Balcani quest’ultima situazione è spesso norma e regola, vanificando quella sostenibilità sociale e politica di cui si diceva precedentemente.
L’ultimo grande asse si lavoro, spesso sottovalutato, è quello culturale. Oggi la cultura è più che mai il terreno su cui costruire la sostenibilità sociale e politica del nostro agire. La democrazia, sia essa economica o sociale, non solo deve essere richiesta e praticata, ma va alimentata attraverso processi di investimento permanente sulla formazione e la ricerca di espressioni culturali e artistiche, a partire dalle scuole e dal lavoro sulle nuove generazioni per giungere fino ad azioni di elaborazione del conflitto e sostegno a processi di riconciliazione e di dialogo interreligioso. Sulla cultura si possono creare anche processi di reale interscambio tra comunità, tra reti di città e paesi perché, è la cultura che permette il riconoscimento e l’apprezzamento delle differenze e la loro assunzione come valore fondante della civiltà.

Il lavoro che vorremmo fare assieme è di confronto e messa in rete di quanto sperimentato da ognuno in questi anni, per arrivare speriamo da qui ad alcuni mesi all’elaborazione di un decalogo di indicazioni metodologiche e ad un repertorio di buone pratiche utili per darsi una minima base comune di lavoro. Se l’incontro di oggi sarà un primo passo, lo vedremo tutti assieme.
Consorzio PluriversoOsservatorio sui Balcani
Padova, 3 maggio 2002

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