Perché i rifugiati siriani abbandonano la Turchia
Perché i rifugiati siriani non rimangono in Turchia e scelgono invece di intraprendere il pericoloso viaggio verso l’Unione europea? Un commento del direttore del programma rifugiati di Human Rights Watch
(Pubblicato originariamente da Open Democracy il 29 settembre 2015, selezionato e tradotto da OBC)
I leader dell’Unione europea, nella riunione d’emergenza dello scorso 23 settembre sulla crisi dei rifugiati, faticavano a trovare un accordo su come cooperare tra loro ma sembravano tutti concordare su un’osservazione della cancelliera tedesca Angela Merkel: “I problemi dei confini esterni dell’Ue non possono essere risolti senza lavorare assieme alla Turchia”.
Molti europei si chiedono: ma la Turchia non è un paese sicuro per i rifugiati siriani? Perché non scelgono di rimanervi? In effetti, la maggior parte delle persone che è fuggita in Turchia dalle violenze in Siria vi è poi rimasta. La Turchia infatti non solo ospita il più alto numero di rifugiati siriani, 1.9 milioni, ma anche il più alto numero di rifugiati di qualsiasi altro paese nel mondo. E’ stata molto generosa: ha allestito e mantiene 25 campi profughi lungo il confine con la Siria ed ha adottato un sistema di asilo temporaneo per i profughi.
E’ un dato di fatto però che ora molti rifugiati stanno lasciando la Turchia o la stanno semplicemente attraversando senza fermarvisi.
Ho chiesto ad alcuni richiedenti asilo durante il loro viaggio attraverso Grecia, Macedonia e Serbia il perché della loro scelta di fuggire, ho chiesto loro delle esperienze vissute durante il viaggio, delle speranze per il futuro.
Non ho riscontrato un unico motivo che ha spinto i rifugiati ad abbandonare la Turchia ma piuttosto una concomitanza di fattori.
Non ci sono statistiche su quanti dei recenti arrivi siriani in Europa provengano direttamente dalla Siria e quanti abbiano soggiornato prima in Turchia. Alcune delle persone che abbiamo incontrato ci hanno detto di aver lasciato da poco la Siria, e di aver trascorso in Turchia solo il tempo necessario per attraversarla e raggiungere la Grecia.
Alcuni hanno raccontato di provenire da quartieri di Damasco e aree del paese controllate dal governo di Assad.
Nelle prime fasi del conflitto la Turchia auspicava la caduta del regime di Bashar al-Assad, presidente siriano, ed ha apertamente appoggiato i ribelli. Quasi tutti i rifugiati di lungo periodo in Turchia vengono da aree della Siria sotto controllo dei gruppi ribelli.
Ormai però non vi è più una corrispondenza evidente tra luogo d’origine e simpatie politiche.
Insistendo, i rifugiati che provenivano da aree controllate dal governo siriano, mi hanno risposto che semplicemente non vedevano più alcun futuro in Siria, non vedevano la fine della guerra, temevano di essere chiamati a combattere o di sprofondare ancora di più nella guerra. Nessuno però dettagliava i motivi per cui non intendevano rimanere in Turchia.
Diversamente dai rifugiati siriani che avevo avuto modo di intervistare in passato in Turchia, desiderosi di ritornare in Siria il prima possibile, tra i nuovi arrivati molti ritengono che la Siria stia irrimediabilmente affondando e che il loro esilio è probabile che sia permanente: di qui la preferenza di trasferirsi in Europa.
Come evidenziato dalla morte del piccolo Aylan Kurdi, l’esodo verso l’Europa coinvolge anche i curdi di Siria. Ogni curdo che abita nell’area è cosciente delle conseguenze della violenza che è scoppiata quest’anno tra le forze governative turche e i militanti curdi. La violenza ha bloccato un processo di pace che aveva fatto sperare nella fine del conflitto che da decenni oppone le autorità turche e la minoranza curda.
Oltre a queste tensioni interne alla Turchia vi è anche la nota frizione tra autorità turche e forze curdo-sirane al di là del confine. L’approccio turco si è fatto molto più rigido nel limitare ingressi e uscite nei campi profughi abitati in prevalenza da curdi dopo un attentato suicida nel sud della Turchia.
Vi sono ragioni specifiche che spingono a lasciare la Turchia anche per i siriani sunniti che ormai vi risiedevano da più anni. Quando la Turchia ha aperto inizialmente la porta ai rifugiati siriani si aspettava che il regime di Assad crollasse a breve e che questi ultimi sarebbero ritornati a casa in fretta. La resistenza di Assad è stata però una sorpresa per Ankara e l’accoglienza della popolazione locale nei confronti dei rifugiati sta ora diminuendo. In un sondaggio del 2014 l’86% degli intervistati ha dichiarato che la Turchia non dovrebbe più acconsentire l’arrivo di nuovi rifugiati dalla Siria.
Il ministro degli Esteri turco Mevlü Çavuşğlu ha indirizzato una lettera ai leader europei prima del summit dello scorso 23 settembre. In quest’ultima ha richiesto – in cambio della cooperazione turca sul controllo dei migranti – sostegno per la creazione di una “zona sicura” lunga 68 chilometri e profonda 40, in territorio siriano ma lungo il confine con la Turchia. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva dichiarato in precedenza che questa “zona sicura” avrebbe funto da “avamposto per il ritorno di 1.7 milioni di siriani nel loro paese”. Gli Stati Uniti avevano però subito fatto notare che non erano intenzionati a garantire una “no-flight zone” e, di conseguenza, quest’area di confine avrebbe rischiato di divenire più un’area “insicura” che “sicura”.
La Turchia continua però nel suo tentativo di garantire un luogo di ritorno per i siriani su territorio siriano, per potervi collocare i rifugiati attualmente ospitati in casa. Questo, in combinazione con la mancanza di volontà da parte turca di concedere ai profughi uno status di rifugiati che non sia provvisorio, fa sì che i siriani in Turchia non riescano ad avere certezze rispetto all’impegno delle autorità turche nel continuare anche in futuro a proteggerli.
Dopo cinque anni da rifugiati, i siriani in Turchia – 80% dei quali risiedono al di fuori dei campi profughi – hanno inoltre esaurito le loro risorse economiche. Dato il loro status non possono lavorare regolarmente assunti, coloro i quali lavorano lo fanno in nero e vengono sfruttati e sottopagati, incrementando così le tensioni tra rifugiati e loro ospiti.
Anche i rifugiati ospitati nei campi hanno di che preoccuparsi: gli aiuti umanitari sono andati diminuendo e le risorse richieste dalle Nazioni Unite per garantire assistenza sono state coperte dagli stati per meno del 40%. Il Programma alimentare mondiale ha annunciato all’inizio dell’anno che si sarebbe dovuto ritirare da 9 dei campi profughi turchi per mancanza di risorse.
Lo scorso anno solo il 20% dei bambini delle famiglie rifugiate che vivono al di fuori dei campi hanno frequentato le scuole. HRW pubblicherà a breve un report nel quale analizza le conseguenze sui bambini siriani del non aver frequentato le scuole per più di due anni. Questi minori sono stati tagliati fuori da un percorso scolastico non solo a causa della guerra in Siria ma anche come conseguenza di difficoltà linguistiche e altre barriere incontrate in Turchia.
Molti ragazzi e ragazze che ho incontrato nel loro percorso verso l’Europa hanno sollevato, come ragione principale che li ha portati a partire, il fatto di voler proseguire nel loro percorso formativo.
Chi tra noi è stato testimone dell’esodo siriano verso l’Europa ha certamente percepito il senso di disperazione di queste persone, ma anche le loro grandi speranze. Non per la Siria, che si sta disgregando drammaticamente, ma per un futuro in Germania, in Svezia. “Per me, non ho speranze, ma per i miei figli sì”, mi ha detto una madre siriana.
Le famiglie siriane che ho incontrato e che cercavano di garantire ai propri figli un futuro lontano dagli orrori di una guerra brutale meritano la protezione dell’Europa e non muri ed ostacoli mortali.
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