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Pedalando verso Sarajevo: editti e diossina

Da Mostar a Nevesinje, passando dalla tekija, la casa dei dervisci e da Vrelo Bune, le sorgenti della Buna. Mancano due tappe a Sarajevo, e tanto dislivello: l’undicesima puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario della Grande Guerra

16/07/2014, Giulia Bondi -

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Abbiamo puntato la sveglia prestissimo, terrorizzati dal rischio di scalare il passo a mille metri nel sole di mezzogiorno. La tappa di oggi, Mostar – Nevesinje, è tutta in salita. E quando sei ancora in pianura, appena fuori dalla città, c’è una deviazione che non si può perdere, per la tekija di Blagaj e Vrelo Bune, le sorgenti della Buna. Ieri sera abbiamo detto a Neven del bed and breakfast che non avremmo fatto colazione, giacché la serve veramente tardi, alle otto meno un quarto, e noi abbiamo la ferma intenzione di partire prima. Ben prima.

Io in realtà ho aperto gli occhi ancora prima dell’aurora, strappata al sonno dal canto del muezzin, da un minareto poco distante. E subito affacciata alla finestra per tentare di vedere, oltre che sentire, la dolcezza di quella voce ripetitiva e lamentosa nel cielo ancora scuro, che comincia appena a rischiararsi dall’orizzonte sotto le case.

Lo racconto ad Andrea mentre montiamo le sacche sulle biciclette, nel mattino ancora fresco. Provo a descrivere il fascino disciplinato di quella voce, quanto mi rapisce, e quanto allo stesso tempo io non riesca mai a fare a meno di sorridere, da quella volta prima volta a Istanbul in cui Maria Chiara mi fece notare: “Non ti sembra che dicano ‘Allah è al bar’?”.

Non so dire se questa frase innocente vada davvero contro la regola imparata da bambina, quella che mia nonna Elena, la paltadora, una donna minuta e determinata, con una crocchia di capelli grigi arrotolata in testa e le calze lunghe di filanca anche il 15 di agosto, aveva voluto affiggere alla porta dell’ingresso, in un cartoncino 10 x 13 con l’immagine di una Madonnina: “In questa casa non si bestemmia”.

Sarebbe arbitrario stabilire un collegamento tra le mie parole, la regola d’infanzia e l’avvenimento successivo. Fatto sta che, appena ho finito di dire “al bar”, mi accorgo che la mia gomma è di nuovo a terra. Alla faccia dei pneumatici anti-foratura con cui l’anno prima ho percorso indenne quasi mille chilometri di viaggio.

Colazione da Neven

Dopo una breve consultazione, decidiamo che anche stamattina è più saggio consultare uno specialista. Almeno per procurarci una camera d’aria nuova. Ci informiamo sulla sede dell’attività, verifichiamo che la suddetta non aprirà prima delle nove, constatiamo che ormai si sono fatte le sette e trenta e che vale la pena di rifocillarci con una poderosa colazione erzegovese. Quella di Neven comincia dalle uova con pancetta e si conclude con due fettine di anguria. Tra un boccone e l’altro, ci bulliamo delle recenti imprese altimetriche con i vicini di tavolo, motociclisti trentini.

Finisce che il meccanico apre ancora un po’ in ritardo, che beviamo un altro paio di caffè mentre lo aspettiamo, e che insomma, partiamo così tardi che ci vergogniamo perfino ad annotare l’orario sul taccuino. Andrea, che affronta il viaggio con puro amore della strada e dello sforzo agonistico, e ha un aplomb che rasenta l’indifferenza verso le emergenze storico-culturali, suggerisce che potremmo saltare la visita alla tekija.

Per me non se ne parla: semmai dopo cercheremo una scorciatoia, per non rifare all’indietro i sei chilometri che riportano alla statale, prima di risalire per Nevesinje. Finalmente partiamo, e dopo qualche chilometro di asfalto rovente tra i camion, deviamo per Blagaj, dribbliamo le bancarelle di souvenir e sprofondiamo nel fresco paradiso delle sorgenti del fiume Buna.

Nella casa dei dervisci

Andrea mi aspetta fuori all’ombra, io copro i miei calzoncini da ciclista con una gonnellona lunga fornita dalla casa, nascondo i capelli sotto il velo ed entro a visitare la tekija, la casa dei dervisci, dove si conserva una copia di quell’ “Editto di Blagaj” che di fatto sancisce la libertà di culto nella Bosnia sotto la dominazione ottomana.

“Informo il mondo intero – scriveva il sultano, Mehmet II, – che coloro i quali possiedono questo editto imperiale, i francescani bosniaci, sono nei miei favori. Fate che nessuno infastidisca o disturbi né loro, né le loro chiese; permettete loro di vivere in pace nel mio Impero; lasciate stare al sicuro coloro che presso di loro sono rifugiati; permettete loro di tornare e di sistemare i loro monasteri senza timore in ogni Paese del mio Impero”.

Siamo nel 1463, mentre la Spagna si prepara a cacciare gli ebrei che non vorranno farsi marranos. Molti di loro, pochi anni dopo, si rifugeranno a Sarajevo, fondando una comunità destinata a durare mezzo millennio. Fino a una nuova fuga, stavolta coi ponti aerei per Tel Aviv, via dalla città sotto assedio, dai colpi di mortaio, dai roghi e dai cecchini.

Vorrei raccontare ad Andrea tutte queste cose, ma è ora di ripartire, e in salita di solito chiacchiero poco. Per fortuna troviamo subito la scorciatoia. Scoscesa ma efficace, tra il supermarket e il cimitero di Blagaj, ammortizza di parecchio i danni della deviazione. In alto si vedono montagne brulle e le rovine di una fortezza. Tra qui e Nevesinje non ci sono villaggi, il sole è già implacabile, i tornanti pure.

Quell’odore di diossina

Prima di lasciare il centro abitato noto con la coda dell’occhio un po’ di persone indaffarate in un’officina meccanica, e soprattutto un tubo di gomma verde, che parte da un lavandino sospeso alla parete e si srotola strisciando per tutto il cortile. “Posso?”, chiedo a uno dei presenti. Poi apro il rubinetto e mi bagno completamente la testa, la maglietta, i pantaloncini.

Tra una pedalata e l’altra i piedi sciacquettano nelle scarpe. Fa così caldo che dopo pochi minuti sarò praticamente asciutta, ma la doccia mi ha dato coraggio. Andrea mi distacca con la sua progressione tranquilla. Io mi fermo molto più spesso, per riposare, mangiare frutta secca, fare fotografie, guardare quanta strada ho già fatto e quanta ancora ne manca, lasciare spazio ai furgoncini di legname, godermi i loro incitamenti o gli sguardi stupefatti. Alla sinistra della strada, si inerpicano per la montagna alcuni sentieri per mountain bike. Impossibili per noi, con le nostre bici cariche. Anche i tornanti asfaltati non scherzano, ma con santa pazienza ce la faccio a raggiungere Andrea, che mi aspetta a un provvidenziale baretto su una curva, con la prima coca cola della giornata.

Qualche chilometro di falsopiano, boschi di conifere e alla nostra sinistra una piccola discarica, da cui salgono fiamme e fumo scuro, con odore di diossina. Vorrei raccontare ad Andrea di una battuta di uno spettacolo di Paolini su Porto Marghera, della reazione degli operai che mai avevano sentito quella parola, anche se ne conoscevano bene l’odore di marsala. “Noialtri”, pare avessero detto al perito chiamato dal sindacato, “ne disemo tante de bestemie, ma questa qui non l’avemo mai sentita”. Invece taccio. Un po’ per il fiatone della salita, un po’ per non sfidare di nuovo la sorte.

Una bandiera tricolore ci accoglie in Republika Srpska, confine tra le due “entità amministrative” della Bosnia Erzegovina. Un confine frastagliato come un intestino, sempre indicato in entrata e mai in uscita, lo attraverseremo ancora tante volte nei centocinquanta chilometri di montagna che ci separano da Sarajevo, molti dei quali contesi, combattuti o “ripuliti” negli anni dell’ultima guerra. In Republika si moltiplicano le scritte in cirillico e le chiese ortodosse, in Federacija (l’altra “entità”, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina) si alternano i minareti e le gigantesche, candide croci che fanno ombra ai caduti, sotto le bandiere a scacchi croate. O a volte un po’ di tutto, ancora mescolato, più o meno volentieri.

Ecoturismo Velez

Un paio di farfalle azzurre volteggiano sul mio manubrio finché non riprendiamo a salire, verso il vero passo della giornata, a quasi mille e cento, segnato da una grande antenna e da una lapide ai caduti di un’altra guerra, la penultima. Dopo le prime curve in discesa ci fermiamo per una foto alle montagne in lontananza. Su una spiccano segni chiari, disegnano un grande scudo con una stella al centro. Le altre curve in discesa le percorriamo veloci, passiamo accanto alle donne che vendono calze di lana e maglioni fatte a mano, ignoriamo non senza un po’ di dispiacere il cartello che indica un lago, a tre chilometri, ed entriamo a Nevesinje per l’ennesima coca cola.

I tavoli esterni del bar sono di un fresco delizioso, grazie a un marchingegno che nebulizza piccoli getti d’acqua sotto il tendone azzurro. Stavolta sappiamo già dove dormiremo: Ajna, che lavora per Oxfam, ha pensato di prenotarci un posto da una famiglia della zona, che aderisce al progetto di ecoturismo Velez. La casa è a tre km dal paese, per fortuna nella stessa direzione in cui vogliamo andare domani. Ajna arriva a salutarci insieme a una piccola delegazione di italiani che sta portando in giro tra le fattorie, ad assaggiare le prelibatezze della zona.

Passiamo il pomeriggio a sonnecchiare, poi rifacciamo la strada al buio per arrivare in centro a cena. Il miglior ristorante è lo Stadion, ci consiglia ottimamente il passante cui chiediamo suggerimenti. C’è la tovaglia, un vero menu, scritto, con piatti tradizionali di vario tipo, e otteniamo persino qualche assaggio di formaggio nel sacco. Il sacco è un intestino di pecora, dove il formaggio si mette a stagionare fino a quando non è ora di sbriciolarlo. Prima nel piatto, poi in bocca.

Ci concediamo perfino il lusso di una mostra d’arte, quadri e fotografie nella galleria aperta sulla piazza, e poi attirati dalla musica proseguiamo fino al palco della festa di ferragosto, piena di giovanissimi del paese. Tutti in tiro, forse per farsi notare dai coetanei mostarini in villeggiatura estiva a casa di zie e nonne. Sotto il palco ci sono dieci metri vuoti, ballano solo i bimbi piccoli rimasti ancora svegli.

Tutti gli altri bevono birra, fumano per darsi un tono, si occhieggiano e si sfiorano, muovendosi in piccoli branchi rigorosamente divisi per sesso. Sleghiamo le bici, che senza bagagli sembrano volare, e torniamo alle nostre lenzuola a fiori, nella camera degli ospiti con i mobili scuri fine anni Settanta. A Sarajevo mancano due tappe e ancora tanto dislivello.

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