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Oltre il confine

Il dibattito pubblico in Turchia è monopolizzato da una domanda: intervenire o meno militarmente in Iraq? L’esercito preme per un’operazione indicata come l’unica iniziativa in grado di sconfiggere il PKK e il ”terrorismo curdo”

08/06/2007, Fabio Salomoni - Istanbul

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"Le forze armate turche si aspettano dal paese una reazione di massa di fronte agli episodi di terrorismo".

E’ il passaggio principale del comunicato che questa notte è stato pubblicato nel sito internet dello stato maggiore delle forze armate turche. Il comunicato arriva al termine di una settimana che ha visto quattro militari uccisi da una mina telecomandata e sette gendarmi da un’autobomba fatta esplodere in una caserma dell’Anatolia centro-orientale.

Dopo il comunicato del 27 aprile con il quale minacciavano un intervento in difesa della laicità dello stato, i militari turchi hanno scelto di nuovo la rete per far sentire la loro presenza.

Ormai completamente evaporata nell’agenda politica del paese ogni traccia della minaccia fondamentalista, è la volta dell’emergenza terrorismo e PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ad incombere sul paese alla vigilia delle elezioni del 22 luglio.

L’episodio che ha determinato la svolta è stata l’esplosione nel centro di Ankara che ha provocato 6 morti e centinaia di feriti. Mentre non si registrano novità di rilievo sul fronte delle indagini ed il buio assoluto continua a circondare la figura dell’attentatore suicida, gli effetti dell’attentato non hanno tardato a farsi sentire.

A tempo di record il governo ha approvato una riforma legislativa che restituisce pieni poteri alle forze di polizia tra i quali la possibilità di fare perquisizioni senza l’autorizzazione del magistrato ed ampi poteri discrezionali nell’uso della forza. Si cancellano così nello spazio di poche ore le faticose conquiste realizzate con la serie di riforme in chiave europea realizzate nel periodo 2001-2004. Riforme del resto mai digerite dalle forze di sicurezza che in diverse occasioni avevano cercato di convincere il governo a fare marcia indietro "Abbiamo le mani legate dall’Unione Europea", era il motivo ricorrente al quale il governo fino alla decisione lampo dei giorni scorsi non aveva prestato ascolto.

Ma è soprattutto la questione di un intervento militare in Iraq a monopolizzare con toni quasi ossessivi il dibattito pubblico delle ultime settimane. "Quando entreremo in Iraq?" è stata anche la domanda del padre di uno gendarmi uccisi dall’autobomba di martedì scorso.

Un operazione militare nell’Iraq settentrionale, sui monti Qandil, dove ci sono basi e dirigenti del PKK, per "estirpare radicalmente le radici del terrorismo".

Con scadenza quasi quotidiana il capo di Stato maggiore gen. Büyükanıt ha rilasciato dichiarazioni nelle quali definisce necessario ed utile un intervento militare rilanciando però sempre la responsabilità della decisione finale al governo "E’ necessaria una decisione politica". La settimana scorsa l’ultima occasione nella quale il generale aveva dichiarato: "Dovremo combattere solo con il PKK oppure anche con i curdi di Barzani e gli americani? Questa è una decisione che spetta alla politica". Il governo, incalzato anche dall’opinione pubblica e dalla prossima scadenza elettorale, prende tempo di fatto invitando i militari a presentare una proposta concreta in parlamento.

Un rimpallo delle responsabilità che mostra come, al di là dei proclami, l’eventuale intervento militare si presenta come irto di incognite e pericoli.

L’operazione militare viene ora indicata all’opinione pubblica del paese come l’unica iniziativa in grado di sconfiggere il PKK. La lista però degli interventi militari turchi nell’Iraq è lunghissima. In particolare negli anni ’90 in almeno due occasioni l’esercito di Ankara aveva sconfinato in Iraq con decine di migliaia di uomini e grande spiegamento di mezzi. L’appoggio di alcune fazioni curde locali e quello logistico degli americani, non era bastato a sconfiggere il PKK. Come spiegano gli esperti in caso di attacco i militanti del PKK si disperdono nelle montagne per poter tornare quando la tempesta è passata. E la prima domanda è per quale ragione in questa occasione le cose dovrebbero andare diversamente? Soprattutto se si tiene conto che in questo caso i turchi non potrebbero più contare né sull’appoggio dei curdi locali né su quello degli americani.

Il nord-Iraq oggi non è più quello degli anni ’90, è parte integrante di uno stato legittimo che ha un presidente della repubblica ed un ministro degli esteri curdi. Nessuno ora sembra disposto ad accettare l’ipotesi di un intervento turco. Nei giorni scorsi il presidente della repubblica, il curdo Talabani, ed il leader dell’autorità curda nel nord del paese Barzani, lo hanno ribadito in una conferenza stampa congiunta: "Un’eventuale operazione militare turca non sarebbe solo un aggressione alla regione curda ma anche all’indipendenza dell’intero paese". E sono contrari anche gli americani, che più volte nei giorni scorsi hanno ribadito come solo il dialogo con le autorità irachene potrà portare ad una soluzione del problema PKK. Difficile immaginare del resto che gli americani possano desiderare un conflitto armato nell’unica regione del paese che appare pacificata.

E stando così le cose questa volta l’intervento militare turco non sarebbe una semplice operazione antiterrorismo ma porterebbe con sé il rischio di una vera e propria guerra contro i curdi dell’Iraq ed anche – una prospettiva quasi fantapolitica – contro gli americani. La violazione dello spazio aereo turco da parte di caccia americani nei giorni scorsi, sebbene immediatamente archiviata come un errore dei piloti, mostra sufficientemente quale sia l’atteggiamento degli USA e come stiano cambiando i rapporti tra Washington ed Ankara.

Nelle ultime ore numerose voci hanno contribuito ad aumentare la sensazione di incertezza: la notizia data da Associated Press dell’inizio delle operazioni militari turche smentita seccamente dallo stato maggiore, l’evacuazione dei villaggi curdi alla frontiera turco-irachena e presunti tiri d’artiglieria turca in territorio iracheno.

L’unico elemento certo per il momento appare il fatto che il paese si avvicina all’appuntamento elettorale in un clima di grande tensione, l’eco delle esplosioni, l’onnipresenza di divise e stellette, gli inviti a serrare le file di fronte all’ennesima minaccia mortale che incombe sul paese.

Ed a concorrere pesantemente a questo clima il PKK il quale sembra farsi beffe degli sforzi che la politica curda sta mettendo in atto, seppur tra molti ostacoli, in vista delle prossime elezioni.

Nei giorni scorsi una delegazione locale del DTP (Partito della Società Democratica, filo-curdo) ha reso visita per le condoglianze, a Sırnak al confine iracheno, al padre di uno dei militari uccisi dalla mina. Forse un piccolo segno di una rottura in atto all’interno dei tradizionali equilibri della vita politica curda.

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